ARMENIA -IRAN

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MAGGIO 2013


Itinerario: Yerevan, Khor Virap, Garni, Geghard, Meghri (Armenia) - Tabriz, Candovan, Sanandaj, Palangan, Paveh, Tehran (Iran).

27 Aprile 2013


Aeroporto Boryspil di Kiev, Ukraina; sono da poco passate le 19.30 quando salgo sul mini bus che dal gate mi porta fino all’aereo della Ukraine Airlines diretto a Yerevan, capitale dell’Armenia. Il sole sta tramontando in questa giornata primaverile, sul bus di confondono i tratti somatici caucasici, con i volti scavati di alcuni anziani dalle tipiche folte sopracciglia, che fanno da contrasto con gli occhi chiari e i volti che paiono quasi di porcellana di alcune ragazze russofoni. Sto finalmente entrando nella dimensione che più mi appartiene, quella del viaggio, quella di straniero nelle terre del mondo. Mi aspetta l’Armenia, e poi da lì di nuovo l’Iran, il Kurdistan iraniano...terre ricche di storia, di fascino e di popoli fieri, di antiche carovane lungo la Via della Seta. Il piccolo Boing si riempie, sono ormai prossimo al decollo...

Ore 23.50, sono atterrato in Armenia, all’aeroporto di Yerevan: i controlli sono rapidi e contrariamente a quanto scritto sulla Lonely Planet, non occorre più fare il visto di ingresso; è forse questa una delle uscite più rapide da un aeroporto che mi siano mai capitate, tanto che anticipo di qualche minuto il giovane Boris, manager della Boris Guesthouse (sayvazyan@gmail.com) che mi è venuto a prendere con tanto di cartello con su scritto “Davide Vagamondi”. Borsi parla perfettamente inglese e mi spiega qualcosa della città mentre vegliati da una luna luminosissima compiamo il breve tragitto a bordo del suo fuoristrada fino alla guesthouse, che rimane un pò fuori rispetto al centro città; in realtà la guesthouse è una vera abitazione disposta su due piani, alla quale si arriva percorrendo una piccola e deserta (vista l’ora) strada in salita: ci abita la famiglia di Boris, si vede che è vissuta la casa, la mia camera, dotata di un pulito bagno con doccia, è enorme, ha un divano, una cassapanca, un armadio e un letto matrimoniale oltre all’immancabile tappeto. E’ notte fonda ormai, sarà il caso di provare a chiudere occhio per cominciare in forma questo nuovo viaggio.


28 Aprile


E’ domenica mattina, non si sentono rumori fuori; sono l’unico ospite della casa/guesthouse di Boris, la gentile signora Gianna mi ha preparato nel loro immenso salone pieno di divani e tappeti, una semplice ma abbondante colazione; dalle grandi finestre vedo i primi scorci della città appena illuminata dal sole. Finisco in fretta e sono già fuori lungo le ancora deserte e grigie strade di Yerevan, è ancora presto e anche di gente in giro ce ne è poca. In 10 minuti di cammino arrivo alla fermata della metropolitana Barekamutium, qui il biglietto costa solo 100 Dram (AMD), considerando che 1 euro equivale a 530 Amd...consiste in un piccolo gettone di plastica arancione che serve a far passare i tornelli “presidiati” da anziane signore in uniforme, chiuse in minuscoli gabbiotti, forse lì solo per dare informazioni. Le scale mobili sono rapidissime, e mi portano fin giù lungo un corridoio un pò tetro e semibuio coperto da archi a volta; le scritte delle fermate, anzi, tutte le scritte, sono in cirillico, assolutamente incomprensibili, santa Lonely Planet, aiutami tu! Arriva il treno, in lamiera azzurra, dentro i sedili in tessuto blu sono semivuoti, però il treno, seppur traballante e chiassosissimo, in pochi minuti mi porta fino alla fermata Sasuntsi Davit, a ridosso sia della stazione ferroviaria che a quella dei bus, dove sono diretto: qui un’ enorme spianata di cemento mal ridotto, accanto ad un vecchio ed abbandonato complesso industriale; c’è qualche chiosco, un paio di cani randagi appollaiati al sole e diversi taxi e marshrutsky (i piccoli e vecchi minibus bianchi più simili a dei furgoni). Sono l’unico straniero tra i tanti uomini che tra una sigaretta e l’altra aspettano chissà cosa o chi; attendo in questo luogo tetro e desolato l’arrivo del marshrutsky diretto al paese di Khor Virap. Eccolo, si ferma proprio nel punto indicatomi da un’anziana signora: salgo su nel polveroso abitacolo di questo malandato furgone per prendere posto, anche se partirà solo fra mezz’ora. Alla spicciolata arriva gente, compreso un ragazzo straniero con Lonely Planet alla mano, e i 15 posti a sedere si riempiono in fretta, ma alla faccia di qualsiasi norma di sicurezza, sale altra gente fino a stipare per bene l’abitacolo! L’autista, dopo essersi fumato una dietro l’altra almeno tre o quattro sigarette nell’attesa, sale a bordo e si parte: ben presto usciamo dalla città, con le strade che cominciano ad animarsi; appena fuori il paesaggio si fa piatto e verde con sullo sfondo la maestosa vetta innevata del Monte Ararat, monte sacro per gli Armeni, e accanto un’altra vetta sempre innevata, meno imponente ma dalla perfetta forma vulcanica. Dopo 40 minuti di strada il marshrutsky si ferma in aperta campagna ad un bivio che conduce a Khor Virap, e l’autista fa cenno a me e all’altro straniero a bordo che bisogna scendere qua: pago i miei 400 amd, meno di 1 euro, e mi incammino insieme al ragazzo con la Lonely; si chiama Gregory, è un giovane polacco arrivato qui in Armenia ieri dalla Georgia. Percorriamo insieme a piedi il km di strada sterrata che porta al piccolo monastero di Khor Virap, ci sono un paio di anziani contadini con qualche mucca al pascolo, e poi eccola in lontananza la sagoma inconfondibile del piccolo monastero con alle spalle il Monte Ararat, in una visione di insieme da cartolina. Comincio a scattare le prime foto, da diverse angolazioni, come un piccolo giapponese impazzito. Arrivo a Khor Virap, dove c’è solo il piccolo monastero in cima ad una collina dove, oltre anche ad un cimitero, c’è un parcheggio di taxi, infatti ci sono un pò di turisti locali ed un certo numero di soldati in divisa mimetica anch’essi a scattare foto dai loro cellulari. Le vedute del Monte Ararat dalla cima della collina sono spettacolari, pur essendo oggi in territorio turco, è considerato il monte sacro per tutto il popolo armeno. Resto qui un paio di ore aggirandomi nei dintorni scattandomi una foto persino in compagnia di due soldati su loro richiesta. Poi ritrovo Gregory, il ragazzo polacco, e insieme decidiamo di ripercorrere a piedi la strada fino al bivio dove a breve dovrebbe ripassare il marshrutsky diretto a Yerevan, che arriva puntuale ma, stracolmo! Non ci voleva, anche perchè il prossimo non passerà prima di due ore, e sempre con l’incognita che sia pieno. Ci fermiamo qualche minuto a fare foto attorno ad una grande ma poco significativa statua messa lì un pò nel nulla, poi proviamo a fare autostop: si ferma qualche taxi, ma pagare 5mila amd contro i 400 del marshrutsky è immorale...per fortuna poco dopo passa una mini jeep a noleggio guidata da una coppia di turisti francesi che ci carica a bordo, non sono diretti a Yerevan ma almeno ci portano fino alla strada principale diretta a Yerevan e più trafficata di questa di campagna. Ringraziamo e poi di nuovo braccio teso all’infuori e pollice alzato: dopo qualche vano tentativo si ferma una vecchia Lada color verde, a bordo un uomo ed un bambino che non parlano mezza parola di inglese, ma con un sorriso e decisione ci fanno cenno di salire. A bordo musica locale simil araba ad alto volume, passiamo e ci fermiamo nella cittadina di Artashat, dove l’uomo scarica uno scatolone di attrezzi, chissà forse abita qui, ma dopo la sosta ripartiamo in direzione di Yerevan dove arriviamo in poco più di mezz’ora; ci facciamo lasciare ad una fermata della metropolitana, il gentile uomo dalle mani grandi e il viso buono ci saluta senza volere nulla in cambio, gesti che oggi noi occidentali facciamo perfino fatica a capire, ma che riempiono il cuore. Faccio ancora un pezzo di strada con Gregory, in direzione centro. Ora per le vie della città c’è molta più gente rispetto a questa mattina, gli ampi viali brulicano di tutte le età: da anziani coperti dalle loro grigie giacche a giovanissimi vestiti all’ultima moda, qualcuno vestito in maniera alquanto chic che rasenta il ridicolo, con accozzaglie di colori e capi davvero imbarazzanti, un mix tra passato e futuro quasi a volerne ostentare eccessivamente la differenza. A piedi in breve arrivo all’ampia piazza della Repubblica, circondata da eleganti edifici tra cui il bel Museo di Stato di color giallo pallido, con di fronte le grandi fontane e vasche d’acqua attorniate da eleganti lampioni e panchine. Il centrale viale pedonale Hysisayiu Poghota pulula di giovani seduti ai tavoli all’aperto dei numerosi bar o al passeggio tra le vetrine dei negozi, quasi tutti di alta moda italiana o francese. Che differenza con la campagna rurale dove il tempo sembra essersi fermato. Arrivo ad Opera Square, dove c’è il grande teatro cittadino: qui nell’ampio spiazzo contornato da bei giardini, bambini e ragazzi si divertono con biciclette, skate e roller, piccole auto a pedali. Poco oltre c’è quella che i locali chiamano “cascata”, una ampia e grande doppia scalinata che sale fino alla alta stele in cemento celebrativa del 50° Soviet dell’Armenia. Ai piedi e lungo la scalinata ci sono numerose opere artistiche stravaganti poste qua e là anche tra le panchine e le curate aiuole, tra cui alcune inconfondibili statue “ciccione” di Botero, un guerriero nudo, una donna ed una gatta. La scalinata è sia esterna che interna, infatti per i più pigri si può evitare la faticaccia servendosi da dentro al coperto delle scale mobili. Anche all’interno ci sono bizzarre e stravaganti opere artistiche. Alternando esterno ed interno, arrivo finalmente in cima, in uno spiazzo di cemento ai piedi della colonna monumento. Da quassù si può ammirare un bel panorama sulla città di Yerevan, con le case che si arrampicano su per le colline che la circondano, e l’imponente sagoma del Monte Ararat alle spalle. Ancora salita dopo un passaggio lungo un tetro sotto passo pedonale, fino all’interno dei giardini che portano al punto più alto, la grande statua di Madre Armenia, alta 23 metri e raffigurante una donna che imbraccia un fucile, in posa difensiva, che guarda verso il confine turco. Il sole picchia forte, io e Gregory ci sediamo all’ombra di un chiosco a bere qualcosa in quello che, tutto attorno alla statua, è un vero e proprio Luna Park vintage: dalla colorata ruota panoramica con le cabine a forma di vecchi tappi della Coca Cola, Sprite e Fanta, alle giostre, tutte sembrano davvero risalire al 1965, anno della posa della statua stessa. Ma ai numerosi bambini presenti qui, la cosa sembra importare poco e si divertono lo stesso tanto. Ripercorro con Gregory la lunga discesa scambiando qualche chiacchera in inglese prima di salutarci dandoci appuntamento per l’indomani così da dividere i costi del taxi essendo entrambi diretti a Garni e poi al Monastero di Geghard. Io continuo per un pò a vagare senza meta per le strade di questo strano centro cittadino, bizzarro non tanto per le sue anonime espressioni architettoniche (eccezion fatta per Repubblic Square), quanto per la sua gente che sembra voler ostentare a tutti i costi ricchezza. Scendo nuovamente nei sotterranei della metropolitana vintage, vecchia ma comoda per attraversare la città, I corridoi sotterranei sono pieni di negozietti che vendono un pò di tutto. Rispunto nella zona nord dalla quale ero partito questa mattina e il viale alberato Kievyan Poghots, con i suoi palazzi simili a vecchi casermoni di pietra rossa, è ora più trafficato soprattutto di auto, mentre di gente a passeggio qui ben poca. Mi spingo oltre al Kieiyan Bridge, il ponte addobbato da una moltitudine di pubblicità del Chivas Whisky: al di sotto dovrebbe scorrervi lo Hrazdan River, che però ad oggi è solo un piccolo rivolo di acqua, semi prosciugato. Nei prati a fianco bivacca qualche coppietta, arrivo a piedi fino al Museo del Genocidio Armeno, posto anch’esso in cima ad una collina che risalgo anche se so che a quest’ora, le 19, ormai è chiuso. Ci tornerò, per oggi basta scalinate, anche perchè non so come in viaggio trovi la forza di camminare così tanto non mangiando nulla da stamattina. Ma ora qualcosa il mio stomaco comincia a reclamarla. Primo giorno di questo viaggio, primo giorno ricco di cose, dal viaggio in marshrutsky all’autostop (seconda volta nella mia vita!) fino alla lunga camminata in cima alla “cascata”. Il sole sta lentamente tramontando mentre ripercorro a ritroso il ponte, fermandomi poi in una sorta di fast food locale a gustarmi un ricco keebap, unico cliente fino all’arrivo di tre ragazzini sbarbati, poco più che adolescenti, vestiti eleganti, occhiali da sole alla Tony Manero, uno ha perfino la camicia di raso nera, e tutti e tre a fumare sigarette bevendo un caffè...roba da “grandi”. Sembra una città dove ognuno voglia ostentare ciò che in realtà non è. Continuo a bere la mia fresca Fanta, roba da “piccoli”, ma anche da stanchi e felici viaggiatori.


29 Aprile


E’ lunedì, il viale che porta alla metropolitana oggi è animato da diversi studenti che si dirigono alle scuole, stavolta in abbigliamenti più sobri; nei sotterranei della metropolitana, anch’essa più brulicante di gente, si aggira qualche poliziotto con la divisa verde e buffi cappelli tondi enormi, eredità i un passato sovietico. Ritrovo Gregory all’appuntamento che ci siamo dati ieri, e insieme dividiamo le spese del taxi (1000amd) che ci lascia alla stazione dei marshrutsky: qui gli autisti, tutti di una certa età, se ne stanno tra loro a fumare all’ombra di un albero, uno ci indica qual’è il mezzo diretto a Garni (impossibile da intuire viste le scritte in cirillico), un piccolo e vecchio minibus colore giallo, col cruscotto addobbato da bandierine armene, un arbre magique coi colori della bandiera americana, e diverse immaginette religiose. C’è di buono che i marshrutsky partono in orario, ovviamente pieni, con gente che viaggia in piedi. Si parte ed in breve siamo fuori dalla capitale, in direzione est; la strada comincia a salire lungo una serie di tornanti fra verdi colline e le montagne all’orizzonte, solo di rado qualche piccola casa qua e là. Poco più di mezz’ora di strada ed ecco la piccola cittadina di Garni, che appare più come un paese di campagna. Da qui con una breve passeggiata arrivo in compagnia di Gregory all’ingresso del tempio di Garni: si pagano 1000amd per l’entrata, fuori c’è qualche bancarella dove delle donne vendono miele, frutta sciroppata ed invitanti spiedini di frutta secca e miele. Il tempio ellenico di Garni, che domina la bella vallata sottostante alla collina dove sorge, , è davvero piccolo, un’acropoli in miniatura, ricostruita là dove sorgeva il sito originale. La gola di Avan col piccolo fiume di Azat che scorre qualche centinaio di metri più a valle, è spettacolare, tutta circondata dalle montagne rocciose in gran parte ricoperte da fitta vegetazione. A mio avviso vale decisamente più il panorama che non il piccolo tempio ellenico in sè. Usciamo io e Gregory e contrattiamo con un altro taxi, anzi, un’auto privata improvvisatasi tale, per percorrere i 10 km di strada in salita che porta al Monastero di Geghard. Arriviamo, l’improvvisato tassista ci aspetterà qui per 1 ora. Il monastero sorge in una posizione scenografica eccezionale, domina la stretta e verde vallata verso sud ed è protetto alle spalle dalle possenti pareti rocciose delle vicine montagne. Lungo una breve salita che porta all’ingresso, una fila di colorati ombrelloni protegge dal sole gli anziani venidtori di forme di pane, miele, marmellate e frutta secca; poco più su eccolo il monastero che prende il nome dalla lancia sacra che trafisse il costato di Cristo. Non c’è  quasi nessuno, regna un religioso ed affascinante silenzio: la vista sulle pareti esterne è bellissima, con le croci infisse sulle pareti e la tipica torre con la cupola a punta conica. L’intero complesso risale al XIII sec, ma il meglio di sè lo dà al suo interno, nelle buie e fredde stanze dove pochi raggi di luce filtrano dalle strette finestre ad arco, e combinandosi con la fioca luce delle candele accese, creano un effetto tra il mistico e il magico; le incisioni di croci e simboli sacri sulle colonne, le piccole cappelle perfettamente scolpite nella roccia, incisioni risalenti a secoli fa e perfino un piccolo ruscello di acqua sorgiva, che pare sia miracolosa, fanno di questo luogo davvero una meta imperdibile, stupenda. Mi aggiro nel buio a scattare foto per poi uscire nuovamente alla luce accecante del sole. Poco distante, attraversato un ponticello in pietra, fra le roccie è scavata una grande caverna, con attorno alberi dove i fedeli hanno appeso in segno votivo, piccoli drappi di stoffa, soprattutto bianchi, che mi fan tornare indietro con la mente all’Oriente asiatico. L’ora di attesa è passata fin troppo in fretta, Geghard è davvero un luogo interessante da visitare. Torno al taxi, c’è anche Gregory e insieme ci facciamo riportare più a valle accanto ad un vecchio marshrutsky bianco parcheggiato lungo una strada di campagna, accanto ad un piccolo  e spartano negozio di frutta e bibite; prendiamo posto, stavolta è semivuoto e in pochi minuti parte. Lungo la strada la gente sale e scende a fermate più o meno improvvisate, lasciando sul tappetino accanto al conducente la moneta dovuta, così come facciamo anche io e Gregory coi nostri 250amd a testa una volta arrivati in città al capolinea. Torniamo verso il centro città, servendoci stavolta di un più moderno autobus locale cittadino, il n.51, e anche qui nessun biglietto ma i soldi lasciati direttamente al conducente prima di scendere. Saluto Gregory, le nostre strade si dividono qui, lui domani proseguirà verso nord tornando in Georgia, io avrò ancora un giorno qui a Yerevan e poi comincerò la mia discesa verso verso l’Iran, in direzione sud. Il giovane Boris della guesthouse mi ha procurato il numero di telefono di una sua conoscente che può ospitarmi a Meghri, al confine, ora però mi tocca trovare il modo di arrivarci a Meghri: l’unico mezzo per arrivarci sono i marshrutsky che partono dalla stazione di Sasuntsi Davit, così prendo la metropolitana e vado lì ad informarmi. Il grande piazzale di cemento è animato: c’è un’anziana signora che vende cipolle e mazzi di erbette seduta appena fuori dalle scale della fermata metropolitana, accanto, piccoli chioschi col tetto in lamiera che vendono cibo,uno di questi, simile ad un gabbiotto, fa da ufficio informazioni a quanto intuisco; un uomo assai robusto e con metà dei denti in oro, mi rassicura nel suo inglese stentato, che è sufficiente presentarmi qui domani alle 7 del mattino, nonostante sia il Primo Maggio, e che il viaggio durerà circa 8h, anche se so già che non sarà così! Torno alla metropolitana, altro gettone arancione comprato agli sportelli dove a qualsiasi fermata lavorano sempre e solo donne di una certa età, altro giro sui vagoni, stavolta color arancio e bianco, fino in centro alla fermata Hauranpetutian, a pochi passi dalla centrale ed assolata Republic Square. Qui fanno bella mostra di sè diverse auto di lusso, con giovani ben vestiti a passeggio o a oziare sugli eleganti divanetti all’aperto dei lounge bar, mai vista una così alta concentrazione in un’unica zona. Sembra davvero che tutta la ricchezza di questo Paese sia concentrata qua, nel centro della sua capitale, un’altra Armenia. Cammino tra i viali alberati attorno a Republic Square per poi risalire tra i negozi del centro, più che la città in sè è divertente osservarne i suoi abitanti, sembra un set cinematografico, dai Tony Manero dei nostri giorni, alle belle e truccatissime ragazze in eleganti abiti che però (per fortuna non tutte) si perdono in inguardabili sandali indossati sui collant! Si fa sera, nei corridoi sotterranei che portano alla metropolitana, pieni di negozi, la gente ha il passo veloce, tipico da post lavoro; rispunto in superficie al capolinea Barekamutin, tra i diversi fioristi presenti, e mi dirigo verso la casa di Boris. Mi fermo ad un fruttivendolo lungo il percorso ad acquistare una succosa mela rossa che farà da post cena kebap di questa mia serata.


30 Aprile


In viaggio si fanno sempre degli incontri interessanti: a casa di Boris è arrivata una ragazza tedesca, Anna, mamma di due bambini di 3 e 6 anni; viaggiano in quattro, il papà è fermo in un paese vicino in quanto uno dei due sydecar su cui stanno viaggiando da più di un mese (in totale ne faranno due) si è rotto e lui è in ballo per farlo riparare. Anna coi suoi piccoli si fermerà qui nella capitale per un paio di giorni, facciamo così conoscenza appena fuori la casa di Boris, mentre sto andando a piedi al vicino Museo del Genocidio: lei ed i suoi due piccoli ometti, occhiali da sole e berrettino, non hanno meta e si uniscono a me. Vedere la stessa cosa in una famiglia italiana penso sia alquanto improbabile, è lei stessa che parlando mi sottolinea quanto per loro non sia poi così strano o pericoloso viaggiare in certi Paesi con bambini piccoli al seguito, mentalità da viaggiatori, difficile da capire per chi non lo è. Arriviamo al Museo, in cima ad una collina: è scavato in un sotterraneo all’interno di un tranquillo parco, con una spianata dove arde una fiamma perenne protetta da 12 colonne che convergono, inclinate a formare una grande cupola, e accanto un’altra stele in cemento e a punta, alta 40 metri. Ad un lato del parco ci sono tanti piccoli pini piantati dai vari leader stranieri che hanno riconosciuto il genocidio; oggi in questo silenzioso luogo è in visita una delegazione della comunità europea che depone una corona di fiori, mentre viene accolta credo da alcuni rappresentanti politici locali. In filodiffusione il silenzio è interrotto da un leggero canto lamentoso. Anna e i suoi piccoli si fermano poco qui, così ci salutiamo; entro nel piccolo museo sotterraneo che ben racconta attraverso immagini e pannelli fotografici, il massacro compiuto dai turchi nei confronti del popolo armeno tra il 1915 e il 1922, un genocidio spesso dimenticato dall’occidente; 7 anni di deportazioni, torture, massacri di massa, marce forzate di mesi nel deserto di anziani donne e bambini lasciati così di morire di fame e fatica. Le foto sono un pugno nello stomaco e nella coscienza , immagini che noi associamo all’olocausto del popolo ebraico durante la II Guerra Mondiale, sono le stesse, identiche e crude che ha vissuto il popolo armeno in quegli anni; nella sola Armenia occidentale oltre 1 milione di morti, non c’è molto da dire, e anche per questo sia dentro che nei giardini circostanti, tra le poche persone presenti, nessuno parla, e il luogo mantiene la sua meritata tranquillità e pace. Credo sia tra i luoghi più toccanti mai visitati fino ad ora.

Dopo una piccola spesa al supermercato vicino casa di Boris e una breve sosta relax in camera, esco per prendere la metropolitana ed arrivare di nuovo in centro. Qui visito la piccola chiesa rossa di Zorovor, quasi nascosta tra i cortili di alcuni palazzi un pò fatiscenti appena fuori dal centro. Il via vai di gente, soprattutto giovane, lungo la pedonale Nothern Avenue (dove di fatiscente invece non c’è nulla), è continuo. Posso ritenermi soddisfatto, di Yerevan ho visto tutto, domani mi toccherà una levataccia e un lungo viaggio di trasferimento fino a Meghri, nel sud del Paese a pochi km dal confine iraniano. Devo fare il calcolo preciso di quante Dramche mi serviranno da qui all’uscita del Paese, così, mentre i bambini che fino a poco fa giocavano a palla per strada son rientrati nelle rispettive abitazioni per la cena, me ne sto sul letto a rinverdire, o almeno a provarci, i miei trascorsi scolastici di ragioneria; ah, rientrando alla casa di Boris e passando accanto al garage, ho visto che il sydecar del compagno di Anna è qui accanto al suo, anche loro domani proseguiranno la loro avventura.


1 Maggio


Ore 06.15 del mattino, c’è già luce anche se il sole è ancora nascosto appena oltre alle colline che circondano la città; in giro solo qualche spazzino con la divisa arancione, gli ampi viali di Yerevan sono pressochè deserti. Il taxi mi lascia alla stazione dei marshrutsky di Sasuntsi Davit, qui dopo pochi mnuti ecco arrivare un Ford Transit di colore bianco, sarà il mezzo con cui mi trasferirò a Meghri, nell’estremo sud dell’Armenia. L’autista sistema alla meno peggio i bagagli visto che a bordo non vi è uno spazio apposito, mentre l’uomo della biglietteria con cui ho interloquito ieri, cn la pancia e i denti in oro, comincia a raccogliere  dai passeggeri i 7000amd del costo del viaggio. Sale a bordo, credo accompagnato dai nonni, anche un bambino che avrà circa 6 anni non di più e che continua imperterrito a parlarmi nella sua lingua; a bordo nessuno parla inglese, in questi momenti, in queste attese, mi sento davvero in viaggio, unico straniero a contatto con una realtà finora lontana e sconosciuta, qui i turisti non si spingerebbero mai. Sono le 07.40, una volta pieno il mezzo, si parte: subito oltre la città,  con la luce del mattino ancora non troppo forte, osservo sulla mia destra le cime innevate dei Monti Ararat piccolo e grande, che appaiono davvero vicini; le costeggiamo per un buon tratto fino a che la strada comincia a salire e iniziano i tornanti tra le pareti rocciose delle montagne e le verdi valli di Yeghegis, mentre la strada ora corre a lato del fiume. Superiamo qualche Tir con targa iraniana: mi tornano alla mente le strade percorse in Sudamerica, i lunghi tragitti con mezzi stracolmi ed improvvisati, con me unico straniero, così come in Laos o in Kyrgyzstan, adoro questo modo di viaggiare e di scoprire e assaporare il mondo. Sono le 10 quando ci fermiamo per una sosta, breve. Ripartiamo , i tre uomini seduti a fianco a me e nell’ultima fila, sono tre iraniani di Isfahan, uno di loro parla un pò di inglese e mi offre presentandosi, del tè da un thermos: sono le uniche persone a bordo con delle valigie, e gli unici allegri e sorridenti, rifaccio così il mio primo assaggio in questo viaggio della squisita ed unica ospitalità del popolo iraniano, che già ben conosco. Il bambino invece soffre il viaggio e rimette, d’altronde la strada è piena di buche, l’asfalto in alcuni tratti è pessimo, sembra di stare a cavallo, però il panorama con le vette e più in basso le verdi vallate è spettacolare. Alle 12.30 passiamo la cittadina di Goris, a bordo del marshrutsky ormai quasi tutti dormono, eccetto gli iraniani ed io. Ecco Kopan, l’ultima città lungo il tragitto: una serie di palazzine fatiscenti, panni stesi in bella vista tra una casa e l’altra e anche tra i pali della luce; sale a bordo qui una intera famiglia, i posti a sedere sul Transit sarebbero 15, ma ormai siamo ben più di 20. Da qui in poi la strada sale, e tanto, i tornanti sono sempre più ripidi e il marshrutsky fatica a salire. Così, fino al passo di Meghri, a 2535 metri di altezza, dove ai lati della strada c’è ancora la neve. Sono passate 8 ore dalla partenza, viaggio lungo, le vette della catena del Basso Caucaso sono uno spettacolo della natura, ora la strada è un continuo zig zag i forte pendenza, ma stiamo scendendo e ormai Meghri è vicina. Per mia fortuna e grazie ad un pò di intuito, capisco che il marshrutsky ha appena fatto fermata nella piazzetta di Meghri e sta proseguendo oltre: fermo al volo e scendo, anche se mi tocca tornare in salita per qualche centinaio di metri alla piazzetta zaino in spalla. Finalmente, dopo quasi 9 ore di viaggio, sono arrivato, distrutto ma ci sono. Meghri è incastonata in una stretta valle circondata dalle montagne, con piccole casette dal tetto in lamiera sparse qua e là. Ci sono quattro uomini che chiaccherano all’aperto, chiedo per la guesthouse di Mareta, con cui avevo preso accordi telefonici da Yerevan, mi indicano che è distante oltre 1 Km in salita, così, stanco, desisto e accetto il passaggio di un taxi. La guesthouse di Mareta è una tipica casa di campagna su due piani, molto semplice, con piante rampicanti, un disordinato giardinetto simile più ad un orto; faccio conoscenza di Mareta, di suo marito e del figlio in compagnia della giovane moglie e del loro bambino; il capofamiglia mi invita  a sedermi e contrattiamo così sul costo della camera per stanotte più una cena e la colazione di domani, anche perchè il paese rimane un pò distante e io ho i Dram contati fino al confine. Sono gentili, per un totale di 9 dram mi offriranno anche la cena. La casa, costruita in legno, è grande, al piano di sopra c’è la camera, enorme, con tappeti appesi perfino sulle pareti azzurre, travi in vista e un altro grande tappeto appeso come testata dei due letti, e perfino un piccolo balcone che affaccia sulle montagne; il bagno con doccia rimane fuori, lungo il corridoio. Un posto tranquillo, si sente solo il rumore del leggero vento che muove le foglie, lo scorrere del fiume e il cinguettio degli uccellini. Un posto decisamente rilassante nella sua semplicità autentica. Dopo una rinfrescante doccia, Mareta mi chiama giù per la cena, e che cena: sul tavolo di fronte alla cucina dove lavora ancora ai fornelli, Mareta mi ha preparato un piatto di riso e carne in brodo con erbette, patate fritte, pomodori e cetrioli freschi, una squisita salsa di yougurt e cetrioli, pomodori e carote in salsa agrodolce, formaggi, pane, succo di melograno e tipica bottiglia di vodka preparata in casa! Tutta la tavola è imbandita solo per me, loro mangeranno dopo; dopo tre cene consecutive a base di kebap ci voleva proprio, ed è tutto buonissimo, così per festeggiare la mia ultima cena qui in Armenia, inaspettatamente ho provato almeno una volta la cucina e la vodka locali. Sazio, prima che la vodka dia i suoi effetti, saluto e ringrazio la gentile Mareta e la sua piccola gatta che mi ha tenuto compagnia, risalgo le scale il legno verniciato di bianco e torno nella mia camera. Il confine con l’Iran dista da qua solo 8 km, probabilmente le montagne che vedo sono già territorio iraniano, e domani mattina è lì che sarò diretto, per fare ritorno in uno dei Paesi che più mi ha affascinato e rapito nel mio viaggiare. Sarà un’altra giornata tosta e faticosa, ma sono curioso ed ansioso di viverla...


2 Maggio


Il marito di Mareta assomiglia in maniera impressionante all’ex allenatore Mazzone; è lui che mi accoglie per la ricca colazione, mentre Mareta è andata ad accompagnare il nipotino a scuola. E’ intanto arrivato un nuovo ospite, Caig, un ragazzo tedesco dall’aspetto un pò nerd, anche lui diretto al confine, così dopo aver scambiato due chiacchere, decidiamo di dividere i costi per il tragitto fino a Tabriz in Iran. Ci accompagna al confine armeno il figlio di Mareta, che è un militare dell’esercito, infatti indossa la sua mimetica ed in pratica, arrivo al check point a bordo della sua vecchia Lada come scortato dall’esercito! Il tratto di strada è breve, pochi minuti ed eccomi: una doppia sbarra a fermare il transito delle auto ed un centinaio di metri a piedi fino alla piccola struttura dove un militare fa passare gli zaino sul rullo e ritira i passaporti: “italiano Celentano” esclama sorridendo non appena nota scritta la mia nazionalità, poteva andarmi molto peggio. Pochi minuti di attesa ed il gendarme torna ponendo il timbro sul mio passaporto, sono le h. 09.22 ed esco ufficialmente dall’Armenia. Non c’è nessuno, solo io e il tedesco, lungo il tratto asfaltato lungo qualche centinaia di metri fra le montagne del Caucaso, in questo tratto di terra di nessuno. Zaino in spalla cammino, è una bella sensazione, eccitante, quella di attraversare a piedi questa importante frontiera, la strada curva a sinistra attraversando un piccolo ponte che passa sopra l’ampio letto del fiume Aros, che segna il confine fra i due Stati. Eccola, appena dopo la curva mi appare la frontiera iraniana, decisamente più grande e più presidiata da militari nelle loro mimetiche color sabbia: un primo gruppo di essi ci chiede i documenti, rapido controllo e un gentile (ed insolito trattandosi comunque di militari) “welcome to Iran”, indicando la moderna struttura in cemento dove entrare per i controlli. Qui un militare più anziano controlla minuziosamente ogni pagina del mio passaporto, prende appunti e lo passa ad un suo collega, il quale mi mi fa le domande di rito prima di apporre il fatidico timbro: sono le h 09.42 e sono nuovamente in Iran! Anche il controllo zaino sotto le moderne apparecchiature tipo aeroporto, è rapido, non c’è nessun turista che transita, così cambio la valuta ad un piccolo sportello; non ci posso credere, il cambio tra euro e Rials è ancora più conveniente rispetto ad un anno fa (1 euro per 43000 Rials), in pratica cambiandone 250, divento milionario! Come è strano ogni volta attraversare una frontiera tra due Stati, il cui confine resta solo una linea immaginaria, fatta per dare un senso agli atlanti o per porre fine a dispute centenarie. In questo caso però no, il confine è altro e ce ne si accorge subito: cambia tutto, il paesaggio, la gente, la cultura, la religione! Armenia ed Iran sono due mondi diversi tra loro. In Iran sembra tutto più ricco, ordinato, le persone ridono e scherzano tra loro, c’è più leggerezza nell’aria, le immagini di Khomeini sono onnipresenti così come le bandiere del tricolore iraniano, nuove e lucenti. Ci si può immaginare chissà quale difficoltà ad oltrepassare questo confine, chissà quali terribili e minacciosi militari, invece...”welcome to Iran”, non è una banalità, ho visto entrare stranieri di qualsiasi nazionalità alle nostre frontiere, e l’accoglienza perfino negli aeroporti non è proprio la stessa; ma questo è l’Iran, questa accoglienza già la conosco, qui non è la stessa cosa. Caig, il ragazzo tedesco che ha fatto il tratto a piedi con me lungo la frontiera, è alla sua prima volta in questo Paese, ne ha sempre sentito parlare bene da chi ci è stato, ed è contento di sentire da me solo entusiaste conferme: “Caig, fidati, qui l’unico pericolo che puoi correre è quello di innamorarti di questa gente, di questi posti!” Contrattiamo insieme un passaggio con un tassista per farci portare da Noroduz, il posto di frontiera, fino a Tabriz passando per Jolfa, in tutto dovrebbero servire 2 ore e mezza. Saliamo a bordo, il primo tratto di strada fino a Jolfa è spettacolare, le montagne cambiano colore in continuazione, dalle vette bianche innevate alle pareti rocciose color rosso con la striscia verde della pianura che costeggia la strada ben asfaltata, tanto che il tassista che nel frattempo ha caricato lungo il percorso un suo conoscente, può divertirsi a premere sull’ accelleratore più del dovuto fumando una sigaretta dietro l’altra. L’autoradio trasmette ad alto volume un’inascoltabile musica pop locale, guardo fuori dal finestrino rendendomi sempre più consapevole di essere in viaggio ancora una volta lungo l’antica via della seta, ne sono fiero ed emozionato. Passiamo per Jolfa, cittadina di medie dimensioni, con tante immagini di Khomeini e dei martiri della guerra con l’Iraq, tante quanti i giochi per bambini nei giardini che sono un pò dappertutto. Da qui in poi il paesaggio cambia, le montagne si fanno più distanti, ai bordi della strada che piega verso sud, alcuni venditori ambulanti di frutta secca posta in grandi sacchi trasparenti; a mano a mano ci si avvicina ai centri abitati più grandi, prima Maroud poi Sufiya ed eco finalmente Tabriz. Il tassista lascia me e Caig ad una grande rotatoria dove attendono i tassisti del posto: cambiamo auto per pochi km e ci facciamo lasciare in Fedosi Street, in centro, a pochi passi dall’antico bazar. Saluto Caig, da qui ognuno proseguirà in maniera indipendente il proprio viaggio. Pernotto dopo un paio di ricerche vane, alla Bagh Guesthouse: qui chiacchero a lungo con un giovane del posto, nipote del proprietario, in una piccola stanza che funge da reception; parla inglese molto bene e il copione è quello già vissuto nel mio precedente viaggio in Iran, gli argomenti infatti sono la diversità tra i persiani e gli arabi, il non capire come in occidente si pensi che in Iran esista il terrorismo, che le donne non abbiano diritti e girino col burqua e via dicendo...tutti i falsi luoghi comuni che possono essere sfatati solo venendo qui, toccando con mano e guardando coi propri occhi. Concordo su tutto, avendo vissuto entrambe le situazioni è evidente che la situazione tra qui è i paesi arabi sia abissale, su tutto! Vado nella mia piccola camera: soffitto altissimo con una finestrella in alto che per arrivarci servirebbe una scala, pareti spoglie, un letto con un matersasso quasi più rigido della tavola di legno posta sotto di esso, e il bagno alla turca fuori dalla stanza, in comune; ecco questo il lato meno positivo della giornata, ma da queste parti nel nord la ricettività non è tanta, passano pochi stranieri. Tabriz è grande, case, strade, auto e gente, tanta gente; la Bagh Guesthouse è situata nel vecchio centro cittadino, a pochi passi dal bazar coperto dove son diretto: qui donne anziane passeggiano nei loro veli neri, mentre la maggiorparte delle giovani usa semplici e colorati hejab, foulard portati a coprire giusto la parte superiore della nuca, spesso solo appoggiati sulle code dei capelli lunghi. Mi addentro nel bazar, uno dei più antichi di tutto l’Iran, risalente a più di 1000 anni fa: decine e decine di piccole botteghe si susseguono lungo il buio labirinto dei caravanserragli, stretti corridoi, alcuni coperti da bei soffitti con archi a volta; è un continuo passare di persone e carretti di legno spinti a mano, in vendita c’è di tutto, è colmo di merci, dalla zona delle spezie e della tipica frutta secca come albicocche e gli squisiti datteri iraniani, a quella dei vestiti, di ogni tipo e per ogni età, dal pentolame ai tappeti, dagli oggetti di cartoleria a mieli e saponi naturali. Un commerciante mi fa cenno con la mano di accomodarmi accanto a lui, su uno sgabellino di legno, al solo fine di scambiare qualche parola: la sua bottega vende calze ed intimo per bambini, non certo capi di interesse per un turista straniero, ma il suo scopo è quello di confrontarsi, esercitare il proprio inglese e soprattutto socializzare, tanto che anche altri due commercianti vicini si uniscono alla chiaccherata offrendomi perfino del tè caldo e un frutto simile ad una piccola e succosa mela, preso da uno dei carretti di passaggio. Ci ringraziamo a vicenda e dopo un pò proseguo il mio vagare, ma basta rispondere ad un semplice “where are you from?” che nasce una nuova breve e disinteressata conversazione, mai invadente, mentre cammino, con un anziano professore di storia che mi racconta del suo giardino e delle sue piante. Popolo squisito, indescrivibile, ed è questo il motivo che mi ha spinto a ritornare qui in Iran. Esco quasi per caso dal bazar da una delle tante uscite laterali, ritrovandomi nelle vie alberate della città, sempre piene di gente e di negozi, soprattutto di scarpe. Arrivo alla Moschea Blu, circondata da aiuole fiorite e panchine, e tutto attorno ai porticati all’ombra, piccoli gruppi di giovani se ne stanno seduti per terra; uno di questi, di giovani ragazzi dalle camicie sgarcianti a quadrettoni, suona della musica con le chitarre, poco distante alcune ragazze canticchiano e ridono; c’è anche una coppia in teneri atteggiamenti romantici, e un gruppo di bambini che ha improvvisato una partita a calcio sullo spiazzo di cemento antistante le mura in mattoni marroni della moschea stessa. Più che un severo luogo di culto sembra più un luogo di ritrovo per i giovani, molto bello. Entro all’interno di quella che un tempo fu una delle più gloriose costruzioni della sua epoca (1400) e che ora dopo essere stata più volte danneggiata dai terremoti susseguitisi da queste parti, emana solo in parte il fascino di quei fasti: l’interno è spoglio, ci sono tre giovani donne intente a disegnare, suppongo siano studentesse d’arte, ed un uomo, forse un turista locale, intento a fotografare gli interni in parte rivestiti da quel che resta delle maioliche blu; è invece restaurata ed in parte ricostruita la grande cupola centrale di mattoni, bella anche se nulla in confronto delle sfarzose moschee di Isfahan. Il custode mi indica il sentiero appena fuori che porta ad un piccolo museo di un cimitero neolitico, in effetti senza la sua indicazione sarebbe impossibile arrivarci: è davvero piccolo, e custodisce i resti perfettamente conservati in casse di vetro (con le didascalie in lingua farsi), di alcuni scheletri e vasi risalenti all’età Avanti Cristo. Camminando a ritroso incrocio (impossibile non riconoscersi!) tre viaggiatori italiani, tre uomini: scambiamo due parole, loro sono entrati in Iran dalla Turchia e sono diretti a sud, prima loro volta qui; ci scambiamo qualche consiglio, bello oltre chè assai raro trovare qualche vero viaggiatore italiano senza l’accompagnamento di “mamma agenzia viaggi”. Il tempo passa, sta arrivando la sera e le strade di Tabriz si riempioni ancora di più di gente al passeggio, anche qui come in tutte le altre città visitate precedentemente in Iran, una vitalità incredibile. I negozi restano aperti, percorro la bella via pedonale Taribiat Street, con le sue piccole aiuole ben curate, le panchine, i lampioni art decò e perfino i bidoni per la raccolta differenziata! Ci sono anche alcune statue ad altezza naturale che raffigurano, rendendone omaggio, alcuni dei mestieri da noi ritenuti meno nobili, come lo spazzino, il lustrascarpe, il barbiere. A spasso tanti giovani, tanta vita.


3 Maggio


E’ venerdì, giorno di preghiera per i musulmani. Esco presto, i negozi sono ancora chiusi e stavolta le strade semi deserte, c’è il sole e una leggera brezza che non mi aspettavo; percorro a piedi il tratto di strada fino alla fermata degli autobus urbani, alla ricerca  di un taxi, possibilmente col tassista che conosca qualche parola di inglese: un automobilista si ferma apposta vedendomi in difficoltà nel farmi capire, così mi aiuta nella traduzione con un anziano tassista, stretta di mano, e riparte per la sua strada, qui funziona così. Sono diretto a Kandovan, località qui nota come la Cappadocia iraniana, distante una cinquantina di km da Tabriz. Appena imboccata in taxi la moderna autostrada che porta fuori città, mi faccio un’idea della vastità di questa città con case costruite lungo tutta la vallata fra le montagne caucasiche; poi cominciano a vedersi i primi grandi impianti industriali della periferia, mentre poco oltre, a bordo strada, ambulanti vendono angurie e meloni posti sui cassoni dei loro furgoni Pelycan di color blu. La strada ora sale lievemente passando prima per una cittadina in costruzione, con tante nuove palazzine e cantieri tutto intorno, neanche citata dalla mappa, e poi per il vecchio paese di Osku, con le sue basse case in mattone. Ecco Kandovan, sembra che tutti si siano spostati qui da Tabriz, le poche centinaia di metri di parcheggio sono piene di auto, a fatica il tassista trova un posto e si ferma, mi aspetterà qui. Kandovan è un piccolo villaggio troglodita, con un’ unica strada acciottolata che passa accanto ad un piccolo fiume e sopra la quale, arrampicate sulle pareti delle montagne, ci sono una serie di piccole caverne scavate a formare alti pinnacoli di roccia, che salgono come tante punte, tanti coni, verso il cielo. Mi arrampico su per le strette e scomode scalinate in pietra, arrivando ad alcune di queste caverne che fungono da vere abitazioni, altre da negozi che, come i più grandi e numerosi a bordo strada, vendono il miele di Tian, frutta secca, borse e oggetti in stoffa. Tra i locali il posto ha una certa fama, dall’altra parte del fiume infatti è pieno di famiglie allargate, dai nonni ai nipoti, e gruppi di giovani che fanno pic nic, alcuni attrezzati con tende, altri semplicemente stesi sui loro tappeti a preparare il fuoco per il barbecue o intenti a fumare dalle pipe dei loro colorati narghilè. Il tempo passa in fretta, faccio gli ultimi scatti alle singolari formazioni rocciose di questo bizzarro villaggio e, unico straniero qui in visita, me ne torno al taxi e da qui fino a Tabriz. Si è fatto pomeriggio ed ora Tabriz è più animata rispetto a qualche ora fa; si mescolano tra loro donne avvolte nei loro veli neri tanto da farle sembrare dei fantasmi, e, molto più numerose, donne soprattutto giovani ma non solo, coi loro hejab colorati che evidenziano quasi la capigliatura che fuoriesce dai foulard, i volti truccati e gli sguardi davvero misteriosi e affascinanti; ecco uno dei falsi miti che ci vengono raccontati in occidente sulle donne iraniane: qui la maggiorparte veste alla moda, ovviamente seguendo lo stile della loro cultura, ha scarpe e borse firmate, molte guidano, ed hanno importanti ruoli in attività governative o commerciali...Sempre a piedi passo davanti alla nuova e grande moschea del Jameh, coi minareti ancora in costruzione e con tanta gente che vi si dirige; a lato della moschea, sempre in mezzo ad una specie di cantiere in attività, una possente ed antica costruzione in mattoni, una sorta di antica porta di accesso alla città con due stretti archi alle estremità. Rientro un pò in guesthouse a scrivere, mentre da fuori arriva, diffuso dagli altoparlanti, il suggestivo richiamo alla preghiera del Muezin.

Esco nuovamente e mi dirigo verso sud per andare alla lontana stazione degli autobus extraurbani; attraverso Shari Street, una moderna via di negozi, oggi chiusi, di computer, telefonia, elettrodomestici, con qualche internet cafè e gelateria. La mappa della Lonely Planet questa volta è un pò ingannevole, la stazione infatti è ben più lontana del punto indicato, praticamente quasi fuori città, e ben oltre i 3 km indicati finalmente eccola: è enorme e moderna, in parte ancora in costruzione, con un grande parcheggio di auto e taxi e le pensiline ordinate sotto ai quali stazionano i moderni pullman in partenza per tutte le località del Paese. Non c’è paragone con la desolata spianata di cemento e i marshutsky a Yerevan in Armenia. Per l’attesa ci sono perfino delle panchine...a dondolo! Stranamente però qui sembra che nessuno parli inglese, alla biglietteria mi aiutano due ragazzini azeri che mi fanno da traduttori: la mia intenzione era quella di partire per il Kurdistan dopodomani in mattinata, ma non ci sono più posti, così domani mi toccherà fare la notte in viaggio fino a Sanandaj, mi consolo col costo del biglietto, meno di 5 euro per 9h di viaggio e ben 500 km di strada, e anche una notte in meno in guesthouse. Preso il biglietto, torno, sempre a piedi, verso il centro dove ceno con una discreta pizza in uno dei tanti piccoli ristoranti. Sono stanco, oggi ho camminato tanto e preso anche un pò di freddo...


4 Maggio


Ore 9 del mattino, a quest’ora nella zona adiacente al bazar, ci sono soprattutto anziani, alcuni che vendono pantaloni da uomo, mentre le botteghe aprono nei millenari corridoi degli antichi caravanserragli; poco fuori invece i negozianti bagnano le mattonelle dei marciapiedi, mentre fuori dai negozi alimentari e ai ristoranti giacciono a terra chiuse in grandi sacchi di plastica trasparente le forme di pane. Entro nel bazar, acquisto ed assaggio qualche dolce tipico simile a dei quadretti di torrone morbido al pistacchio, prima di far rientro in guesthouse per sistemare lo zaino; di Tabriz ho visto un pò tutto, devo lasciare la stanza entro le 12, e poi tirare in qualche modo fino a sera prima di farmi portare in taxi alla lontana stazione degli autobus. Ormai sono diventato un esperto in attraversamento strade qui in Iran, sembro uno del posto! Mi dirigo a piedi in direzione della vecchia Moschea Blu, cercando di non lasciarmi tentare dal profumo di pane e dolci appena sfornati dai numerosi panifici della zona; arrivo nuovamente ai giardinetti antistanti alla moschea, e mi dirigo dal lato opposto a quello ricostruito in mattoni color sabbia, ovvero all’ingresso della grande arcata principale, fatta in piastrelle di maiolica blu in gran parte scrostata e rovinata dal tempo: mi siedo prima sul muretto della stessa moschea, poi sulle più comode panchine di fronte, a scrivere le pagine di questo diario. Dopo qualche minuto mi si avvicina un anziano uomo che cammina aiutandosi con delle stampelle blu: viso segnato dalle rughe, capello bianco e berretto in testa, comincia a chiaccherare educatamente con me, mostrandomi il suo piccolo dizionario di traduzione dal farsi all’inglese. Pochi metri oltre un paio di giovani sembrano quasi osservarci, saranno mica dei poliziotti in borghese? Stupido pregiudizio occidentale che dura lo spazio di pochi minuti, infatti i due timidamente si avvicinano e, rivolgendosi prima all’anziano uomo, si uniscono alla conversazione; non sanno bene l’inglese, ma sono curiosi e mi fanno domande facendosi aiutare nella traduzione dall’anziano. Ma non è finita qui: il campanello di gente attorno a me si allarga prima ad altri tre giovani, poi un altro ancora...in breve sono attorniato dall’anziano uomo seduto accanto a me sulla panchina e da altri 9 ragazzi che, curiosi e divertiti dalla mia presenza, mi riempiono di domande; “come mai viaggi da solo?” “perchè non hai la ragazza?” “ma è facile diventare calciatori in Italia?” “e’ vero che in Italia si può pagare per fare sesso?”...Uno di loro sostiene che assomiglio a Francesco Totti, mi raccontano della locale squadra di calcio per cui fanno il tifo, il Tractor, e mi invitano perfino ad andare l’indomani a vederne una partita insieme, sarebbe stata una bellissima esperienza ma purtroppo stanotte lascerò Tabriz, peccato! Tra di loro molti non si conoscono neanche, ma sono un’attrazione e ciò basta per fare gruppo, la loro non è la curiosità che può avere un popolo povero che vede per la prima volta un cellulare o qualcosa di simile, è ben altro. A parte l’anziano uomo, gli altri sono tutti giovani tra i 20 e i 25 anni, studenti, tutti ben vestiti, coi loro telefonini con cui scattano foto ricordo, uno di loro perfino pettinato alla moda con ciuffo in su anni 60 e vistosi anelli alle mani, insomma pura curiosità genuina, o semplicemente umanità. Mi offrono un tè preso da un venditore ambulante, poi cominciano ad affacciarsi minacciosi nuvoloni grigi in cielo ed inizia a piovere; ci ripariamo tutti sotto l’arcata della moschea per continuare la piacevole conversazione. Poi le classiche foto ricordo di gruppo e lo scambio con un paio di essi dell’indirizzo email che poi si scambieranno tra loro. Saluto e ringrazio tutti per quest’ora di umanità spontanea e pura, questo è l’Iran, questa è la ragione per cui questo Paese e il suo Popolo mi sono entrati nel cuore. Smette di piovere, anche se il cielo rimane molto nuvoloso; mi rifugio in uno dei piccoli locali a bere un frullato fresco di melone accompagnato da una fetta di torta, poi mi rituffo per un ultimo giro nei bui e stretti vicoli del bazar, dove è incessante il via vai di gente che trasporta scatoloni e sacchi pieni di merce; ecco, anche il perdersi tra i vicoli di questi bazar è un’altra di quelle esperienze uniche ed autentiche. E’ arrivata l’ora di andare a recuperare lo zaino in guesthouse, così faccio e tempo qualche secondo a bordo strada che subito si ferma un anziano signore a bordo della sua vecchia ed arrugginita auto: “Terminal Bus”, sembra aver capito o almeno lo spero. Si in effetti ha capito, così dopo una sosta per scaricare il materiale che aveva a bordo (meno male che sono in largo anticipo...) mi porta a destinazione, saluto lasciandogli 60mila Rial. Nel terminal, grande e moderno, come in ogni stazione di bus del mondo, regna la confusione: alcuni uomini davanti alle pensiline gridano come al mercato il nome della destinazione, io sono il primo passeggero ad arrivare alla pensilina numero 5 dove partirà il pullman diretto a Sanandaj nel Kurdistan iraniano. L’urlatore è simpatico, ed uno dei due giovani autisti che si daranno il cambio alla guida, mi offre l’ennesimo tè della giornata. A poco a poco il pullman, anch’esso grande e moderno, si riempie di passeggeri, sembrano tutti locali,e puntuale alle ore 2o parte, ci vorranno almeno 9 ore. Il cielo sopra Tabriz è carico di nuvole minacciose che però lasciano intravedere la striscia rossa del tramonto all’orizzonte. Continuo la mia discesa verso il sud, destinazione Kurdistan, sarà una lunga notte in viaggio.


5 Maggio


Il mio primo impatto con il Kurdistan non è dei migliori: il viaggio in sè per arrivarci è stato anche più breve di quanto pensassi, ho scambiato qualche parola con un ragazzo diretto qui per finire gli ultimi 5 mesi di leva militare, e il pullman è arrivato anche con mezz’ora di anticipo. Il problema, non da poco, è stato dover aspettare  più di due ore in strada, tra le 5 e le 7 del mattino, che uno dei tre hotel presenti nella centrale Ferdosi Street aprisse! Si, è la prima volta che vedo degli hotel chiusi di notte...e una pattuglia di polizia mi ha perfino dato un breve passaggio a bordo della loro volante, impietositi da questo straniero carico di zaini per di più sotto la pioggia. Almeno un paio di ore di sonno sono però riuscito a farle nella piccola stanza dell’hotel Caj: piastrelle bianche alle pareti, soffitto mezzo ammuffito, una grande finestra, un tv, il frigo e un bagno di 1mq in cui riescono a starci doccia, servizi alla turca e lavandino! Anche la colazione nell’ampia e deserta sala al primo piano è minimalista, fatta a base di Num (la forma di pane locale simile alla piadina), tè caldo e uovo sodo. Rispetto alla versione spettrale di questa notte, Ferdosi Street, l’arteria principale della città che collega due piazze, è piena di gente a passeggio, mentre in strada circolano numerosi vecchi taxi di colore giallo. La differenza nella popolazione tra qui e il resto del Paese salta subito all’occhio, pochi chador, quasi tutte le donne indossano l’hejab, mentre gli uomini vestono il tipico abbigliamento curdo, pantaloni larghi indossati molto alti in vita, alla Fantozzi, la cintura di stoffa in vita e copricapi simili a kefieh avvolte sulla testa, mentre numerosi anziani,  indossano sul capo la piccola chierica islamica, per nulla usata nel resto del Paese, infatti i curdi sono sunniti a differenza dell’oltre 90% della popolazione iraniana di fede sciita. Nonostante ciò qui in Iran la popolazione curda è perfettamente integrata, e ciò la dice lunga sulla ospitalità e tolleranza di questo Paese. Sanandaj esteticamente non è un granchè, un pò deludente con le sue basse case dal tetto piatto, sparse disordinatamente fra le colline che la circondano, ma è comunque affollata di gente che passeggia tra i banchi che vendono soprattutto colorati foulard, scarpe, giocattoli e frutta. C’è un piccolo bazar ma nulla a chè vedere con quello affascinante di Tabriz; la prima sensazione (forse anche dettata dalla notte passata quasi in bianco) che ho girando per le strade, è quella che i curdi rispetto agli iraniani, sono un pò più diffidenti, mi sento osservato mentre curioso tra le merci in vendita distese in terra o su carretti di legno lungo i marciapiedi, tra vecchie radio e pantaloni, meloni, pomodori, cetrioli e dei frutti simili ad olive verdi ma dal gustoso sapore di mela, che mi era capitato di assaggiare nel mio precedente viaggio in Iran, nella Valle di Alamut. In giro nessuno straniero a parte me. Mi rintano in un piccolo locale per assaggiare un dolce simile ad una lunga frittella zuccherata, accompagnata da un frullato di melone. Il proprietario non sa l’inglese ma si capisce che freme per conversare con me; dopo poco arriva di ritorno da scuola suo figlio, cartella ancora in spalla, avrà forse 7 o 8 anni, e viene subito reclutato dal padre per tradurmi in inglese le domande che voleva pormi, una scena tenerissima; i due si siedono accanto a me e passiamo un pò il tempo, poi mi alzo, li ringrazio e lui, il proprietario, insiste affinchè non paghi la consumazione, cosa che può accadere solo qua in Iran! La nottataccia comincia a farsi sentire, torno in camera a scrivere e a studiare il da farsi per i prossimi giorni; alla televisione stanno dando in diretta una partita di calcio del campionato locale, gioca il Perspolis, una delle due squadre di Tehran, dove pare splenda il sole sopra il grande e gremito stadio. Qui a Sanandaj invece arriva un temporale, preceduto da un forte vento proprio mentre il muezin diffonde il suo richiamo alla preghiera. Aspetto che smetta prima di uscire per la cena; spero che domani il tempo sia migliore, voglio andare a Palangan, tipico villaggio curdo, e ammirare il suo singolare paesaggio e la sua vallata.


6 Maggio


E sole fu: questa mattina su Sanandaj splende una bellissima giornata, così appena finita la “abbondante” colazione a base di uovo, tè e formaggio, mi dirigo alla facile ricerca di un taxi disposto a portarmi fino a Palangan, attendendomi poi per il ritorno. Per centomila tomam (l’altro nome dei Rials, circa 19 euro) lo trovo, certo per queste parti è una bella cifra, ma pur trattando a meno non sono riuscito a scendere; il giovane autista, un ragazzo curdo dagli occhi verdi, non parla mezza parola di inglese, ma in qualche modo ci intendiamo. La strada è asfaltata, lui preme sull’accelleratore come un pò tutti da queste parti, il chè giustifica la presenza di numerosi dossi artificiali. A lato della strada qualche venditore ambulante di fragole vendute in piccole ceste, e attorno solo verdi montagne e colline, coi papaveri rossi selvatici che creano scorci da cartolina, sembra la campagna toscana; passiamo dopo 65 km la piccola cittadina di Kamyaran, l’unico centro abitato lungo il percorso, e da qui la strada sale e diventa ancora più pittoresca: eccoci finalmente, un cartello malmesso indica Palangan, il giovane autista si inerpica con l’auto lungo un sentiero sterrato fin dove la strada finisce, proprio accanto ad un’abitazione su due piani con tutta la famiglia seduta fuori sul muretto, che, stupita dal nostro arrivo, ci saluta e ci indica il sentiero per arrivare a piedi al paese. L’autista decide autonomamente di venire con me, mi pare di capire sia la prima volta anche per lui da queste parti. Non esiste strada per le auto, ma solo stretti sentieri di pietra che si inerpicano fino all’interno di Palangan; c’è ancora fango per terra in alcuni punti, passo accanto alle abitazioni, di un unico piano, fatte di pietra e fango, color terra, e costruite una sopra all’altra col tetto piatto di una che termina di fronte all’ingresso dell’altra. Incrocio una donna col vestito e il foulard dai colori sgargianti, cammina accanto alle sue piccole bimbe, una delle due con un serio handicap motorio, tanto che sia la madre che la sorellina più piccola, a fatica la sorreggono per percorrere queste stradine pietrose non certo facili: mi fermo qualche istante, faccio qualche foto mentre il giovane autista che è con me scambia qualche parola con loro e la piccola in difficoltà regala un sorriso che mi strappa il cuore. Continuo a camminare nel silenzio di questo luogo interrotto solo dallo scorrere impetuoso del torrente e dal canto dei galli, fino ad arrivare al punto panoramico che dà su Palangan con le case arrampicate sui ripidi fianchi rocciosi delle montagne su entrambi i lati di questa stretta e profonda vallata, quasi a confondersi e mimetizzarsi con essa, è un panorama unico, spettacolare. Riscendo lungo il pendio fin quasi al livello del torrente, dove un paio di uomini vi sta gettando delle reti da pesca; da qui una specie di passerella fatta in blocchi di cemento, passa in mezzo ai due versanti montuosi ricoperti dalle abitazioni e arrivo a dei piccoli locali che fungono da ristoranti, con i pochi abitanti presenti, soprattutto bambini, incuriositi dalla mia presenza. Mi è andata bene, infatti all’orizzonte si stanno affacciando nuvoloni minacciosi, ma sono ancora in tempo a ripercorrere a ritroso la strada percorsa, risalendo poi il ripido sentiero sterrato fino all’auto; qui accanto c’è la piccola scuola locale, con bambine e bambini che giocano insieme a pallone su di uno spiazzo in cemento, mentre una bambina trova modo di esercitare il suo inglese scambiando qualche parola con me. Breve, ma intensa questa visita ad un vero villaggio curdo tra le montagne. Anche il giovane autista è soddisfatto e insieme ripartiamo. Dopo qualche km raccogliamo la richiesta di passaggio di un uomo a bordo strada, che scende poco oltre, a Kamyaran: io e il passeggero non abbiamo scambiato nessuna parola, ma prima di scendere dall’auto, l’uomo prima mi chiede di dove sono e poi mi fa dono della sua collana, simile ad un rosario a pallini che gli islamici usano far scorrere fra le loro dita; è il segno del suo personale benvenuto in Iran, il suo Paese, per me è un’emozione, l’ennesima, segno unico dell’ospitalità di questo grande popolo che non smette mai di stupirmi! Le grosse nuvole si sono trasformate in un forte temporale con tuoni e fulmini; arriviamo a Kamyaran e qui di passaggio carichiamo su altre due persone, due studenti che masticano un pò di inglese e con i quali scambio due chiacchere. Smette di piovere, e sono di nuovo a Sanandaj, che ora vedo con occhi diversi rispetto a ieri, l’essere riposati fa la differenza; certo, la città in sè, eccezion fatta per un piccolo palazzo azzurro di epoca Quagiara, non offre granchè da vedere, ma è interessante osservare questo mix etnico e la sua vivacità. Cammino lungo la principale Ferdosi Street, colma di gente, così come le vie secondarie: la presenza di tanta, ma davvero tanta gente lungo i marciapiedi e per i negozi è una costante in tutte le città iraniane dove sono stato, soprattutto dal pomeriggio in poi, quando il traffico pedonale è paragonabile a quello di auto in una tangenziale milanese in ora di punta! Ma anche le strade non scherzano e a quest’ora sono invase da decine di taxi gialli. Questo è il secondo giorno che sono nel Kurdistan e ancora non ho visto uno straniero in questa multitudine umana. Ovunque vada, dalla cartoleria al locale che vende panini, tutti mi domandano da dove vengo e come mai ho scelto di visitare il loro Paese; il cartolaio tra l’altro mi racconta nel suo inglese incerto, che ha una figlia che studia farmacologia proprio a Milano. Anche due giovani ragazze si fermano a chiaccherare un pò con me, prima che scenda la sera. Qui in Iran non si è mai soli.


7 Maggio


In taxi mi faccio portare al Terminal secondario degli autobus, il gentile tassista non mi fa pagare neanche i 30 rials pattuiti, scontandomene 10; la stazione è un pò desolata, c’è poca gente che attende all’ombra delle pensiline i piccoli minibus diretti alle destinazioni più vicine. Rivedo di sfuggita i tre italiani incontrati a Tabriz, sono anche loro qua in Kurdistan, bizzarro, ma stanno salendo su un taxi diretti chissà dove e non faccio in tempo a salutarli. Attendo alla pensilina indicatami dal tassista, dopo qualche minuto arriva un piccolo, vecchio ed impolverato minibus Mercedes diretto a Kemyaran: subito alcuni giovani si fanno avanti per aiutarmi con la lingua mentre parlo con l’autista, poi solo due di loro sale a bordo, e l’autista, vestito con una giacca di pelle marrone, i pantaloni larghi alla Fantozzi e le ciabatte, scende in attesa degli altri passeggeri a fumarsi una sigaretta. I due giovani si siedono a fianco a me, parlano poco e male l’inglese ma cominciano una conversazione con me, conquistandomi subito con il loro “I love Inter Milano” non appena dico loro da dove arrivo; prima ancora che il minibus parta, insistono per pagarmi loro il viaggio, non c’è modo di farli desistere, mi dicono che sono ospite in Iran, è pazzesco, è la prima volta che addirittura qualcuno mi pagasse il viaggio! Mentre ci facciamo qualche foto ricordo anche coi loro cellulari, il minibus va riempiendosi di gente del posto, soprattutto anziani; l’autista consumata la sua sigaretta, sale a bordo e si parte. Nessuno a bordo parla, solo noi tre, e si unisce presto alla conversazione anche una giovane donna seduta qualche sedile più avanti: lei l’inglese lo parla bene, è insegnante e mi chiede come mai viaggio in Iran sui mezzi locali anzichè scegliere un taxi privato; le rispondo che amo il loro Paese e che viaggiare in questo modo mi permette di entrare ancor più in contatto con la gente. Sia lei che i due giovani mi manifestano esplicitamente il loro malcontento sulla politica locale, ma sottolineano la loro unica ospitalità dovuta ad una cultura millenaria diversa da qualsiasi altro Paese. E’ una bella e lunga conversazione, sono contento, il tempo passa in fretta fra gli sguardi  degli altri passeggeri, un misto tra stupore e divertimento, di sicuro io sono un’insolita attrazione per tutti a bordo. La donna mi lascia la sua email poco prima di arrivare a Kermyaran, dove, dopo poco più di un’ora arriviamo. Ringrazio e saluto di cuore, e senza neanche rendermene quasi conto, mi ritrovo già lo zaino caricato sui sedili posteriori di una vecchia auto Paykan con il parabrezza mezzo rotto; ho fatto appena in tempo a pronunciare la mia destinazione che l’abile autista curdo alla guida ha colto l’opportunità. Lui e l’inglese sono di due pianeti opposti, ma riusciamo ugualmente a capirci concordando un prezzo per un passaggio fino alla località di Paveh. Il paesaggio lungo il percorso è bellissimo, da una parte le montagne, dall’altra un’ ampia vallata in parte coltivata e morbide colline. L’autista riceve una telefonata, intuisco che ha qualche problema con la banca, tanto che, scusandosi a ripetizione oltre il dovuto, mi fa capire che non potrà continuare a portarmi fino a Paveh, così arrivati alla prima cittadina, si ferma e lui stesso si prodiga non poco nel cercare qualche autista disposto a proseguire la corsa saldando il tutto lui stesso con parte della quota pattuita; dopo una serie di vani tentativi, finalmente trovo passaggio su un savari,  uno dei locali taxi collettivi, infatti a bordo oltre a me ci sono altri tre passeggeri del posto. Il viaggio riprende, mi sento una pallina da ping pong da questa mattina, la strada sale, il panorama è sempre magnifico, e dopo l’ennesimo tornante ecco Paveh! L’autista mi lascia vicino ad un ponte pedonale, proprio all’ingresso della cittadina, dove c’è una guesthouse: vanno lasciate le scarpe a bordo di una scala che porta ad un ambiente completamente ricoperto da moquette e tappeti , non proprio puliti; 33mila rials per una stanza grande con due letti e un bagno maleodorante per fortuna separato dalla cabina doccia. Il centro di Paveh non è vicino, così esco e lo raggiungo solo dopo una lunga camminata in gran parte in salita, percorrendo la dove c’è, un mal ridotto marciapiede. I negozi sono chiusi, c’è poca gente in giro da queste parti a quest’ora; Paveh è più grande di quanto immaginassi, una vera cittadina, basse case, col tetto piatto, arrampicate una sopra all’altra sul fianco della montagna, ma nulla a che vedere col pittoresco villaggio di Palangan. Dopo più di 1 km e mezzo a piedi trovo un piccolo e semplice locale, con tre tavolini, l’immancabile lavandino per il lavaggio mani e il soffitto ricoperto da carta argentata: una ragazza giovane, pelle chiara e capelli rossi, che se non fosse per il colorato hejab che indossa, potrebbe benissimo essere scambiata per una tipica irlandese, mi prepara una buona e provvidenziale pizza. Fuori il cielo si è improvvisamente ricoperto di nuvole scure e minacciose, comincio a incamminarmi per il ritorno verso la guesthouse, la poca gente che incontro mi guarda stranita, quasi a chiedersi per quale motivo uno straniero si sia spinto fino a qua, in questa cittadina curda quasi al confine con l’Iraq, che in linea d’aria non dista più di qualche decina di km. Qualcuno mi ferma per scambiare due parole, chiedere da dove vengo: la maggiorparte degli uomini indossa il tradizionale abbigliamento curdo, con la “biben”, una larga fascia in vita che funge da cintura, i pantaloni larghi sul cavallo, e alcuni con la sciarpa attorcigliata al capo. Arrivo all’altezza dei giardinetti, con gli attrezzi per fare ginnastica e i giochi che a quest’ora si sono animati di bambini e famiglie; proprio dall’altra parte della strada rispetto alla guesthouse, accanto ad un piccolo mercato coperto, c’è il terminal dei taxi, mi avvicino per informarmi sui costi per arrivare l’indomani fino a Marivan, ancora più a nord, e poi attraverso il ponte pedonale e rientro in camera giusto in tempo, infatti comincia a piovere. Steso sul letto ripenso agli ultimi viaggi fatti, alla diversa curiosità invadente e travolgente dei bambini del Senegal, alla Foresta Amazzonica brasiliana...a quante diversità esistano in questo mondo e a quanto si bello ed affascinante imparare a conoscerle e viverle...


8 Maggio


Piove, il cielo è grigio, così decido di modificare il mio programma e rinunciare a seguire la strada panoramica di montagna che costeggia il confine iracheno, con questo tempo purtroppo avrebbe poco senso. Torno in anticipo verso Sanandaj. Esco di buon mattino lasciando la sporca guesthouse e andando al vicino terminal dei taxi; sono fortunato, proprio ora è in partenza un vecchio autobus Mercedes diretto proprio a Sanandaj (6mila Rials, poco più di 1 euro e 30 cent), sembra quasi un mezzo d’epoca, dalla forma bombata anni ’50, a bordo è già abbastanza pieno, nessun giovane ma solo famiglie con bambini ed anziani. Sono le 09.10, il bus parte e lascio Paveh. Seduto accanto a me un uomo dai folti baffi neri, in viaggio con moglie e due figli maschi: passa solo qualche minuto prima che timidamente lasci uscire la sua curiosità e provi ad attaccare bottone nel suo incerto inglese, chiedendomi subito se amo l’Iran, il suo Paese; un’altra piacevole conversazione, mentre fuori dal finestrino bagnato dalla pioggia che continua a cadere, si intravedono attraverso una striscia di chiarore nel cielo, i profili delle montagne. “Fasten set belit” recita ancora in lingua tedesca la scritta che scorre sul piccolo neon posto sopra al posto di guida, il vecchio mezzo a fatica percorre le salite dei numerosi tornanti, e dopo tre ore passate velocemente eccomi nuovamente a Sanandaj. Ha smesso di piovere, anche se il cielo rimane grigio. Breve corsa in taxi e sono all’insegna azzurra del Kaj hotel, qui ritrovo l’uomo con la pancia e i baffi che solo qualche giorno prima al mio arrivo in piena notte ho bruscamente svegliato alle 7 del mattino; contento stavolta di rivedermi, mi saluta e mi assegna una camera con un’ampia finestra che affaccia direttamente sulla centrale Ferdosi Street. Mi concedo qui un pò di riposo curiosando tra i curiosi programmi tv della televisione iraniana, prima di uscire a spasso per la città a cercare qualcosa da mangiare. Mi rifugio in un locale a gustarmi un dolce accompagnato da un frullato di melone: il proprietario è incuriosito dalla mia presenza, sembra quasi impaziente di non so cosa, poi lo capisco appena entra nel locale il figlio, un ragazzino di 10 anni di rientro dalla scuola, con ancora la cartella sulle spalle; i due si siedono subito accanto a me, il padere non sa l’inglese ma il ragazzino un pò si visto che lo sta studiando a scuola, e così fa da interprete. Che teneri che sono, il padre mi mostra dal suo telefonino la foto dell’altro figlio di appena due anni, e alla fine insiste affinchè io non paghi la consumazione! E’ quasi imbarazzante, qui è l’unico posto credo al mondo dove la gente ti accoglie e ti offre tutto quello che può, ed il turista “ricco” in teoria dovrei essere io.

Lentamente scende la sera, lungo i marciapiedi c’è ora una moltitudine di persone, gente di ogni età, ragazze truccate e ben vestite, alcune davvero bellissime, famiglie, giovani, anziani...e ad ogni angolo, ad ogni foto che scatto, c’è qualcuno che manifesta la sua curiosità discreta e mai invadente, come quella di un venditore di oggetti per la casa stesi per terra lungo un marciapiede, o quella di un gruppo di giovanissimi studentesse divertite nel salutarmi in inglese.  Entro in una piccola traversa di Azadi Square, qui entro in un locale dove mi siedo per mangiare un panino e faccio conoscenza con Caveh, il giovane che dopo avermi preparato e servito il panino, si siede al tavolino con me e cominciamo una lunga chiaccherata: Caveh parla benissimo l’inglese, lo ha studiato in università; mi racconta che preparare panini non è ciò che desidera nella vita, vorrebbe altro ma a suo dire la situazione economica in Iran per colpa del Governo è disastrosa e trovare lavoro è difficile. Chiede anche a me cosa penso dell’Iran e cosa si dice in Italia del suo Paese, ed è quasi incredulo alla mia risposta, non pensava che i media americani dai quali dipendiamo totalmente, abbiano così mistificato la realtà associandoli ad un Paese di terroristi, di guerrafondai e nemici della Pace. Mi parla comunque apertamente del suo dissenso nei confronti della politica locale dicendomi che un giorno vorrebbe raggiungere il fratello emigrato in Germania; gli racconto dell’Italia, di quanto sia bella ma anche di quanto sia molto diversa dall’immagine idealizzata che a loro arriva, che anche da noi trovare lavoro non è facile, gli parlo della diffidenza verso gli stranieri, cosa davvero complicata da comprendere per lui e per un popolo estremamente ospitale come il suo. Ci scambiamo l’indirizzo email, è stato davvero un bell’incontro e spero di risentirlo. E’ ormai sera, riprendo a passeggiare lungo Ferdosi Street, tra i negozi dei tipici dolci locali, vestiti, e venditori ambulanti di spiedini di carne, patatine fritte e Num, ovvero le forme del locale pane appena sfornato. Il via vai della gente continua ad essere incessante, questa è la mia ultima notte qua in Kurdistan, una regione con molte differenze rispetto al resto del Paese ma con il comune denominatore dell’ospitalità iraniana e dell’integrazione; festeggio queste ultime ore curde concedendomi un mix di gelato con frullato di melone, e anche qui al banco, una distinta coppia di clienti di una certa età, marito e moglie, senza neanche aver scambiato una parola se non il classico “Where are you from?”, provano ad offrirsi di pagare per me, ma stavolta li ho anticipati...l’ospitalità di questo gran Popolo non è possibile trasmettere attraverso un racconto come questo, va vissuta, e portata nel cuore per sempre.


9 Maggio


Prendere un taxi qui a Sanandaj credo sia una delle cose più semplici che si possano fare, ce ne sono talmente tanti e passano in continuazione. Splende il sole oggi sulla città, ed una volta arrivato al terminal, quasi vengo caricato al volo mentre chiedo “Tehran?” in un pullman Volvo Vip in partenza, semi vuoto, con ampi e comodi sedili dotati di poggia gambe, e grandi finestrini, il tutto per l’equivalente di 6 euro: uno dei pullman più lussuosi che abbia mai preso, meglio così visto che la tratta fino alla capitale sarà lunga. Non sono ancora le 9 quando lascio così, senza la benchè minima attesa, Sanandaj e il Kurdistan. Dopo pochi minuti dalla partenza, ci fermiamo ad un posto di blocco (siamo comunque in una zona di confine, e non uno qualunque...), un militare in mimetica con berretto e fucile mitragliatore al collo, sale a bordo: sono l’unico straniero, su non siamo più di 10 persone: gentilmente mi chiede di vedere la macchina fotografica che avevo appoggiato sul sedile vuoto accanto a me, glie la accendo e comincia a scorrere le foto, prima di lasciarsi andare ad un sorriso accompagnato da un “Welcome to Iran!”. Si riparte, la strada passa attraverso una verde pianura fatta di terre coltivate con tanti impianti di irrigazione in funzione; sullo sfondo le montagne, mentre di rado attraversiamo piccoli paesi con basse case in mattoni, gli immancabili gommisti ed elettrauto uno accanto all’altro, i grandi cartelli raffiguranti martiri iraniani della lunga guerra con l’Iraq, e piccole piazze con aiuole fiorite dove il pullman ferma per brevissime soste atte a caricare qualche passeggero. Passata la cittadina di Hamadan il paesaggio si fa più piatto e monotono: sostiamo in mezzo ad un’arida pianura, all’altezza di un’isolata costruzione in mattoni che funge da autogrill locale, con un ristorante, un bar e i bagni. Sono passate già tre ore dalla partenza, il viaggio riprende mentre il cielo si è annuvolato; entrati nella provincia di Qazvin, il paesaggio ridiventa spettacolare, la strada infatti attraversa dapprima una bella e fertile vallata verde , prima di incunearsi tra le catene dei Monti Alborz tra i massicci profili di roccia rossa. Fermata dopo fermata il pullman alla fine si è riempito; sono passate 6 ore, il tempo di percorrenza indicato sulla Lonely, sento l’arrivo quasi vicino ormai, invece come una mazzata tra i denti entriamo in autostrada da un piccolo casello e un cartello riporta la scritta “Tehran 220 km”! E’ infinito, è l’ultima tratta di questo mio viaggio e comincio ad accusare la stanchezza. Più ci si avvicina alla capitale e più le cittadine che incontriamo sono grandi, con serie di vere e proprie palazzine a più piani in stile “occidentale” alternate a grandi impianti industriali; poi ecco i primi grandi cartelli pubblicitari e l’ingresso nella moderna tangenziale che porta dritto a Tehran. Vedo la Torre Azadi, il grande arco simbolo della città, ci sono finalmente, con un giorno di anticipo rispetto a quanto preventivato inizialmente, rieccomi nell’immensa capitale iraniana, una metropoli da più di 15 milioni di abitanti censiti!Ho portato a termine il mio giro, sono soddisfatto ed orgoglioso di ciò, ora avrò 3 giorni a mia disposizione per rivivermi la città. Dopo quasi 9 ore di viaggio scendo dal pullman, e grazie all’aiuto spontaneo di un ragazzo trovo un taxi per farmi portare nella parte sud della città. C’è il sole ora, il tassista inizia il suo spericolato slalom lungo le trafficate arterie della città, sorpassando indifferentemente a destra e sinistra come fosse in un videogame, finchè dopo una buona mezz’ora arriviamo in Amir Kabir Street: cerco il Tehran Gol Hotel, ma dopo vani tentativi, mi faccio lasciare al già conosciuto Firouzeh Hotel (www.firouzehhotel.com, Dawlat Abad Alley) dove già ero stato lo scorso anno: dietro al banco della piccola reception c’è Mr. Moussavi, il gentile titolare dai modi pacati, che subito si ricorda di me scusandosi di non aver risposto ad una mia email inviatagli dall’Italia tempo fa (motivo per il quale pensavo fosse al completo e non mi ero diretto da subito qui); ha libera una camera doppia ma me la farà pagare come singola, così finalmente entro nella mia pulitissima stanza, con piccolo bagno dotato di cabina doccia mentre i servizi igienici sono sul piano in comune. Qui mi sento un pò a casa, l’hotel è in una piccola via appartata nostante sia nella zona degli elettrauto. E’ un pò come un cerchio che si chiude, torno nel posto dove 8 mesi fa ho cominciato la mia scoperta di questo grande ed ospitale Paese che è l’Iran. Mi sento completamente a mio agio, quasi spavaldo quanto un abitante del posto quando esco e attraverso con decisione e attenzione Amir Kabir Street: non è mica un gioco da ragazzi fare lo slalom tra auto e motorini, ricordo ancora la prima mattina dello scorso viaggio quando da subito mi resi conto che qui le strisce pedonali sono soltanto una decorazione sull’asfalto senza una precisa funzione, quindi tanto valeva adeguarsi. Conoscere già un luogo ha il vantaggio di muoversi più agilmente e a memoria, così affamato vado a colpo sicuro qualche isolato più avanti a mangiare uno spiedino di pollo e finalmente a bere dell’acqua! Ho resistito indenne ad un viaggio in pullman di 9 ore, alla folle corsa da formula 1 del tassista nel traffico di Tehran, e per finire all’attraversamento a piedi di Amir Kabir Street (altro chè bungee jumping!)...e chi mi ammazza più oggi?


10 Maggio


Venerdì, giorno di preghiera per i musulmani, infatti questa mattina le strade sono semi deserte, qualche squadra di anziani giardinieri sistema  e annaffia le piante lungo le aiuole accanto ai marciapiedi, qualche spazzino in divisa verde spazza l’asfalto mentre i pochi commercianti aperti, bagnano il loro tratto di marciapiede. Camminando arrivo alla biglietteria del Palazzo Golestan, l’antica dimora cittadina dello Scià, a pochi passi da Imam Khomeini Square: si tratta di una serie di edifici d’epoca Safavide, con al centro un grande giardino con vasche di acqua e fontane, purtroppo ora spente, cipressi e altri arbusti ultra centenari, sui quali svolazzano anche dei colorati pappagalli. Di fronte all’ingresso, nel cortile, c’è l’Ivan-e Takht-e Marmar, un grande trono in alabastro, ma il vero sfarzo di quest’epoca lo si capisce entrando nella palazzina principale: si indossano dei copri calzature in stoffa, le scale per salire sono in marmo italiano e alabastro e la stanza del trono è qualcosa di esagerato, enorme, con i soffitti lavorati color bianco, ampi lampadari in vetro e cristallo, le pareti rivestite di specchi e cristalli, in terra grandi tappeti. Nelle altre sale, tra oggetti in avorio e vasi di giada verde, anche gli omaggi allo Scià donati dai capi di stato stranieri, tra i quali un grande quadro raffigurante il Colosseo e un’altro raffigurante Piazza S.Pietro; insomma, alla faccia del Popolo ridotto alla fame, lo Scià se la viveva bene. C’è anche il trono dove l’ultimo Scià di Persia, Reza, venne incoronato nel 1925, prima di essere poi costretto all’esilio dorato garantitogli dagli Stati Uniti dopo la Rivoluzione del 1980. Nel mio precedente viaggio avevo visitato la residenza estiva dello Scià, alla periferia nord della città, questa tappa mi mancava. Finito il mio giro esco e passo un pò il tempo seduto su una delle panchine del grande Park-e Shar, una delle tante e ben curate oasi di verde di Tehran tra grandi alberi, fontane e giochi per bambini: passa il tempo e il parco si anima sempre di più di famiglie con biciclette o palloni al seguito. Alzo le vele, e mi incammino fino a scendere giù nei sotterranei della moderna metropolitana della linea 1. Sfatiamo un altro falso mito sull’Iran: Tehran ha ben 5 linee della metropolitana, con treni e stazioni moderne, decisamente più grandi e pulite delle nostre, monitor nei vagoni, annunci delle fermate a voce e sui neon. La banchina è piena di giovani, soprattutto ragazze truccate, molte con l’hejab appena appoggiato alla testa sopra alla coda, coi loro cappottini leggeri e colorati, insomma alla moda come i giovani ragazzi alcuni dei quali con taglio di capelli alquanto stravaganti. I vagoni sono pieni, un signore distinto mi racconta in inglese che tutta questa gente è qui perchè oggi c’è una fiera del libro a Mosalla, e difatti all’omonima fermata scendono quasi tutti. Io proseguo oltre, l’uomo mi saluta augurandomi buon viaggio e buona permanenza in Iran. Arrivo al capolinea, Tairish, nell’estrema periferia nord della metropoli, dopo quasi 40 minuti di veloce metropolitana, risalgo le 4 rampe di scale mobili ed eccomi, di nuovo a distanza di mesi, a Tairish Square, l’altra faccia di Tehran. Qui è pieno di gente, soprattutto giovani, e c’è un mix di vitalità e colori che trovo entusiasmante. Le botteghe del piccolo bazar coperto sono colme di merce a prezzi convenienti: collane, magliette, scarpe, oggettistica varia e frutta secca; cammino lungo la stretta via coperta da vecchi pannelli di plastica, arrivando fino alla bella moschea color azzurro carta da zucchero, dalla grande cupola e i 4 minareti, anch’essa piena di gente accampata attorno, seduta su stuoie o tappeti mentre beve tè e mangia; c’è un continuo via vai di fedeli che entra ed esce, le donne sono avvolte in lunghi veli bianchi che vengono loro forniti prima dell’ingresso a loro riservato. I venditori di datteri procurano anche pacchi di sale che avranno sicuramente uno scopo che ignoro. Il quartiere lo conosco di già, non ho una meta precisa così passo il tempo fra qualche acquisto  nel bazar e nei negozi della zona a prezzi...persiani! Poco oltre i tassisti e non solo loro, cercano persone da portare alla vicina Darband, da dove partono i sentieri per i Monti Elborz che circondano la zona. Il vigile in divisa bianca ha il suo bel da farsi ad evitare che le auto si fermino a caricare gente bloccando così il traffico. Oggi fa caldo, niente di meglio per provare il “famoso”  gelato al pistacchio di Akbar Mashti Bastani: una piccolissima gelateria, che si tramanda di padre in figlio dagli anni ’50; la Lonely Planet cita le parole del figlio, attuale proprietario, che definisce il suo gelato non solo il più buono di Iran, ma di tutto il mondo! Bhè, forse è un pò esagerato, ma di certo è molto ma molto buono. Prima di finire il mio giro, noto una bella scena che già mi era capitato di vedere identica a Sanandaj: un uomo anziano, non vedente, mentre cammina lentamente e a fatica nel caos di persone, tende ad un certo punto la mano a suo lato, e la prima persona che di lì passa in quel momento, lo afferra e guida l’anziano per qualche decina di metri fino a chè lui stesso la ritrae sentendosi in un luogo più al sicuro e meno affollato, così l’improvvisato aiutante prosegue per la sua strada come nulla fosse, come se questo suo gesto fosse la cosa più normale (come in realtà dovrebbe essere) che chiunque avrebbe fatto. Forse lo è...qui in Iran. Scendo giù in metropolitana, ripenso ai vecchi e traballanti vagoni di quella di Yerevan in Armenia e mi viene da sorridere. Lungo il tragitto, alla fermata di Mosalla, salgono tanti giovani con sacchetti e borse piene di libri; scendo alla fermata Imam Khomeini qui non c’è neanche lontanamente la vitalità della parte nord. Intanto in cielo minaccia improvvisamente tempesta, e soffia un forte vento: trovo in una via un piccolo negozio dall’insegna in lingua farsi ma con delle foto di pizze, che in realtà non vende, ma almeno riesco a cenare con un enorme panino ripieno di hamburger e insalata, per poco più di 1 euro. Alla fine nessuna tempesta, e il cielo sembra essersi nuovamente rasserenato pur essendo ormai buio. Ripercorro sempre a piedi il marciapiede lungo Amir Kabir tra i gommisti fino a ritornare al Firouzeh Hotel. Che strano effetto, sono nella capitale del “regno del male” secondo molti, ma io mi sento più al sicuro e a mio agio qui che non a Milano in una equivalente via deserta e al buio.


11 Maggio


Oggi prendo per la prima volta la Linea 1 in direzione sud, sono diretto al grande complesso dedicato a Khomeini. L’ultimo tratto del viaggio la metropolitana lo compie in superficie, in una zona piatta ed arida. Una volta uscito dalla stazione del capolinea, appare però in tutta la sua vastità il Mausoleo: un’ enorme bandiera iraniana sventola davanti ad altrettanto gigantesche fontane in cemento azzurro, e alle spalle il complesso che sembra avere al suo centro una moschea dalla grande cupola d’oro. Tutto intorno, una sorta di recinto in cemento che ospita vari negozi di cibo, oggetti religiosi e giocattoli. Peccato che gran parte del complesso sia un cantiere a cielo aperto, sia la cupola che i 4 minareti sono avvolti da impalcature e ovunque ci sono alte gru e squadre di operai al lavoro.  Il luogo in sè è tranquillo, da quanto è riportato sulla Lonely, prima della sua morte l’Imam artefice della Rivoluzione pare abbia espresso il desiderio che la sua tomba non fosse un luogo tetro, ma bensì un luogo di svago e ritrovo, e devo ammettere che l’intera area è circondata da piccoli gazebo in legno per il pic nic e giardini con giochi per bambini e il profumo delle piante di gelsomino che si leva dalle ben curate aiuole. Da un’entrata laterale entro per vedere la cripta: ci sono giovani militari all’ingresso, con qui scambio qualche parola sul calcio, e che, quasi timidamente, mi fanno cenno che non possono entrare nè zaino nè macchina fotografica che, insieme alle scarpe, vanno lasciate in apposite cassette custodite. Entro, altra blanda perquisizione, non c’è alcun altro occidentale, e viene scoperto il mio compagno di viaggio, il puffo viaggiatore, ma a differenza di quanto successe in India al Taj Mahal (tensione con le guardie e sequestro a tempo), qui tra le guardie la scoperta suscita dapprima stupore e poi una risata! Entriamo insieme! L’interno sembra un anonimo hangar, con in terra pulitissimi tappeti persiani, file di lampadine di tutti i colori appese agli alti soffitti e poi la cripta, somigliante ad una scatola di cemento e vetro, colorati di verde, e dentro la semplice bara con un mazzo di fiori e una foto incorniciata dell’Imam; non me lo sarei mai immaginato così semplice. Dentro c’è poca gente, uomini e donne che pregano da due lati diversi, tutti in direzione della Mecca. Qualunque cosa si pensi di Khomeini, indubbiamente questo è un luogo simbolo dell’Iran, diverso dalle meraviglie che questo Paese può offrire, però nella sua asciutta semplicità è indubbiamente da vedere. Tappa fatta, esco riprendendo le mie cose e allontanandomi dall’area cantiere fino a sedermi all’ombra su di una panchina e...zac: oggi ancora nessuno aveva scambiato parole con me, e arrivano puntuali due giovani ragazzi che con discrezione chiedono se possono sedersi con me e se mi va di parlare con loro. Sono due studenti universitari, facciamo insieme anche un tratto di viaggio in metropolitana sulla via del rientro, prima di scambiarci gli indirizzi email e i profili facebook. Sto accumulando tanti di quei foglietti con indirizzi email...lungo il tragitto sale anche un loro amico, che mi fa giocare sul suo telefonino ad un gioco ninja! Saluto e mi ritrovo a sud nella parte vecchia di Tehran; arrivo a piedi al vecchio bazar, c’è un mare di gente, sembrano tutti indaffarati, lungo i suoi colorati vicoli dove bisogna fare attenzione al continuo passaggio dei carretti di legno spinti a mano. Un ragazzo, anche lui commerciante, mi invita ad “infilarmi” in uno stretto vicolo del bazar dove un uomo minuto e con dei grandi occhiali da vista, ha una minuscola bottega di tè: è gentile ed insiste per offrirmi un tè e farsi fare delle foto prima di lasciarmi il suo  biglietto da visita, Haj Ali Darvish Tea, n.78 Bazar Tehran. A quanto pare questo piccolo angolo ha una lunga tradizione tramandatasi di padre in figlio come è visibile dalle foto incorniciate e ingiallite appese alle pareti della bottega.

Stamattina il gentile Mr Moussavi del Firouzeh Hotel mi ha presentato due viaggiatori italiani ospiti della sua struttura: Tommaso, appena arrivato e alla sua prima volta in Iran così come Alessandro che però è alla fine del suo viaggio e anche lui, come è inevitabile, si è innamorato di questo Paese. Ci siamo dati appuntamento per le 17, li porto al quartiere di Tairish per fargli vivere questa parte di Tehran; arrivati con la metropolitana, il quartiere appare subito pieno di gente e di vita. Prima della cena tappa di nuovo  alla gelateria Akbar Mashti, per un sublime gelato all’acqua di rose con pistacchi. Anche la cena è sontuosa, e ce la concediamo insieme in uno dei locali del quartiere: chelo cubide, ovvero il lungo spiedino di carne macinata alla griglia con pomodoro, riso, Num, salse di yougurt e cetrioli, olive e il dough, il tipico yougurt da bere; il tutto per meno di 2 euro a testa...Andiamo alla vicina moschea, è già buio, e la stessa è illuminata  in maniera sobria ma suggestiva, mentre attorno, passa a distribuire a tutti dei datteri freschi. Un uomo, aspetto distinto e col figlio piccolo in braccio, mi saluta in inglese, scambiamo qualche parola e poi mi spiega spontaneamente a cosa si rifacciano le 5 lapidi poste nel cortile a a fianco alle quali stiamo conversando,   ognuna ognuna con rose rosse e bianche che la gente ha lasciato qui.  Tre sono di milite ignoto della guerra con l’Iraq, le altre due sono di due giovani ricercatori nucleari, uccisi da terroristi del mossad israeliano due anni fa. Quasi come un appello, l’uomo mi spiega che l’Iran prosegue la ricerca nucleare a fini di sviluppo energetico, come fanno tutti i Paesi occidentali, e mi domanda perchè chi fa uso del nucleare possa arrogarsi il diritto di impedirlo ad altri. Gli spiego che personalmente sono contrario all’uso del nucleare per motivi ambientali, ma che il suo discorso lo condivido, non fa una piega ed ha ragione, nessun Paese che fa uso del nucleare può fare la morale ad altri. Lui è informato, si vede, e forse anche preoccupato, sa che questo del nucleare è il pretesto usato dagli Stati Uniti per demonizzare il suo Paese; guardo il suo bambino che ci interrompe per reclamare una caramella dal suo papà, lo guardo e penso al suo futuro, al futuro di queste brave persone, che qua in Iran si incontrano dappertutto, al contrario di quanto accade in Occidente...


12 Maggio


Questa mattina, scendendo in metropolitana, mi è sembrato di incrociare due che sembravano travestito, o transessuali, con tanto di hejab in testa, qui a Tehran! E’ l’ora di punta a giudicare dalla gente in attesa sulla banchina: donne, alcune bellissime coi loro volti messi in evidenza dagli hejab colorati, uomini con le loro valigette e ragazzi improfumati intenti a giocare coi loro telefonini. Arriva il treno, su tra i passeggeri c’è perfino un ragazzo con la capigliatura alla Jimmy Handrix, mentre tra i passeggeri fanno avanti e indietro venditori di spazzolini da denti, di suole per le scarpe e di caramelle. Arrivo nuovamente a Tairish: stanotte c’è stato un temporale, il cielo è ancora in parte grigio, un pò come il mio stato d’animo visto che oggi è il mio ultimo giorno di questo viaggio. Il piccolo bazar a quest’ora è meno affollato, faccio gli ultimi acquisti, scarpe, magliette, spezie e gli squisiti datteri freschi, per consumare gli ultimi Rials rimasti. Poi rientro al Firouzeh Hotel, alle ore 16 come da accordi con Mr. Moussavi, lascio la camera mentre una squadra di imbianchini sta rifacendo il look all’albergo; trascorro un pò di tempo seduto fuori dall’entrata, sul marciapiede, osservando l’incessante via vai dei gommisti che trasportano gomme e grandi scatolini di accessori per le auto. Poi arrivano Tommaso e Alessandro, i due italiani conosciuti ieri, stasera cenerò con loro. Prendiamo la linea 2 della metropolitana e scendiamo alla fermata Azadi, ho voglia di vedere da vicino la grande torre a forma di arco, simbolo della città. Ci incamminiamo sui marciapiedi dell’ampio e trafficato viale che porta alla grande rotatoria dove è sita la torre: dall’alto dei passaggi pedonali sopraelevati, fa impressione vedere tutta questa quantità di auto e motorini; eccoci alla torre, in questa piazza pedonale al centro della rotatoria stradale circondata dai drappi delle bandiere iraniane. Casualmente scambiamo due chiacchere con due giovani e belle studentesse, la cosa da fastidio ad un anziano che avvicinandosi le redarguisce soprattutto per le foto che ci stiamo facendo; il tutto finisce con qualche sguardo d’intesa tra noi e loro che si dispiacciono dell’accaduto, insomma abbiamo urtato la sensibilità di un anziano conservatore. Intanto si fa buio, e la torre viene illuminata dal basso da fasci di luce che cambiano colore in continuazione, davvero suggestivo. E’ l’ultima serata, la compagnia e la cena mi distraggono un pò, prima del rientro e del congedo con loro nella piccola hall del Firouzeh, dove ora, come un cenerentolo viaggiatore, attendo il taxi che a mezzanotte in punto mi porterà al Khomeini International Airport.


13 Maggio


Gli aeroporti hanno ovunque una doppia faccia: da un lato, quando si comincia un viaggio, sembrano la porta di ingresso per una nuova avventura, scoperta, e ti mettono addosso un’eccitante adrenalina; al contrario, quando un viaggio ha termine, sembrano luoghi tutti uguali ed uniformi, quasi ti vogliano riportare da subito a quella dimensione di omologazione. Sono passate da poco le 2 del mattino, supero i controlli e consumo i miei ultimi Rials al duty free. Fino all’ultimo, anche qui, c’è qualche iraniano disposto a conversare, stavolta è un anziano ex professore universitario in attesa del volo che lo porterà a Parigi. Mi aspetta una lunga notte, con un’altra attesa ad Istanbul prima del rientro a Orio al Serio. Come quando un film termina, scorrono nella mia mente le mille emozioni vissute in questi giorni, fatti di piacevoli conversazioni, di sorrisi, di tè e indirizzi email scambiati, di storie e di strade. Per chi sta leggendo questi miei disordinati appunti, potrebbe sembrare esagerato ciò che ho scritto, eppure è la verità, una verità difficile da trasmettere a parole, forse impossibile. In Iran più che in ogni altro Paese dove sia stato, ho toccato con mano l’infinita cordialità di un Popolo, mi sono riconciliato col genere umano! L’unico modo per capire è venire e toccarla con la propria mano e il proprio cuore, liberandosi dai pregiudizi e dalle menzogne che ci raccontano a casa nostra. Amo questo Paese ricco di storia e cultura, ma amo soprattutto la sua gente, a cui dico grazie! Ed è per questo, per una volta ancora, che sto dando a Tehran più che un addio, un arrivederci..