BALCANI
Croazia-Montenegro-Bosnia Erzegovina
 

APRILE/MAGGIO 2012


Itinerario: Dubrovnik - Kotor - Mostar - Sarajevo

24 Aprile 2012


Sono da poco passate le 14 l’aereo della Lufhtansa prende veloce la rincorsa per il decollo sulla pista bagnata dalla pioggia dell’aeroporto di Monaco di Baviera, Germania. Piove, come pioveva questa mattina a Milano, sto cominciando un nuovo viaggio, destinazione iniziale Dubrovnik in Croazia, per poi continuare in altri due Paesi della ex Jugoslavia, il Montenegro e la Bosnia Erzegovina. Con me in questo viaggio ci sono Fra e Velcha. Il volo è breve, alle 15.20 metto piede in suolo croato. Ci sono, e come spesso accade quando inizio un viaggio, solo ora comincio a rendermene conto che sto per iniziare una nuova avventura, è come se la mente si aprisse all’improvviso accantonando i pensieri quotidiani e facendomi sentire più leggero, merito in parte anche di un bel sole che mi accoglie a Dubrovnik; sbrighiamo in fretta le formalità aeroportuali, il nostro appena atterrato è l’unico volo e in breve sono sul taxi che ci porta verso la città, distante 20 km, attraversando la strada costiera fra cipressi e pini marittimi, fino alla stazione degli autobus, accanto al molo, dove acquistiamo già i biglietti per l’indomani verso Kotor in Montenegro (80 Kune a testa). Con un altro taxi arriviamo fino alle mura della vecchia cittadella, alla porta Buza nella parte settentrionale: entrando subito si affacciano piccole case in pietra e stretti, a volte strettissimi, vicoli pedonali in continui sali e scendi di scale a gradoni irregolari fatti di marmo antico, come tutta la pavimentazione; a pochi passi da Buza c’è il nostro appartamento dove ci aspetta Ana (zvonko.kovac@du.t-com.hr), la bionda e gentilissima padrona  che, mappa alla mano, ci da qualche dritta sul nostro soggiorno in città, lasciandoci infine le chiavi non prima di averci omaggiato con una bottiglia di vino locale per il benvenuto! L’appartamento è provvisto di tutto il necessario: una cucina attrezzata, altrettanto il bagno, perfino della frutta fresca e del tè. Il nostro intento è quello di fare una prima esplorazione del centro storico all’interno del quale già siamo: l’antica cittadella è cinta da alte mura fortificate che l’hanno protetta per oltre 5 secoli; sembra rimasto tutto com’era, qui non entra, e neanche volendo potrebbe, nessun mezzo motorizzato. L’unico viale di una certa ampiezza è lo Stradum (Placa) che attraversa il borgo orizzontalmente partendo dalla torre dell’orologio con accanto uno spiazzo e la Chiesa di S.Biagio, fino alla gigantesca fontana di Onofrio, a forma di grande cupola con alla base gli augelli dai quali fuoriesce l’acqua. Lungo le sue poche centinaia di metri ci sono negozi di souvenir, gelaterie e gli immancabili caffè/ristorante coi tavolini all’aperto, che si trovano un pò dappertutto perfino negli stretti vicoli che si diramano a destra e a sinistra. Passeggiamo senza meta, il centro è piccolo, c’è un leggero vento, mentre intanto lentamente scende la sera e i vicoli si illuminano della luce fioca e calda delle vecchie lanterne a muro. Prima cena croata con una buona bistecca alla dalmata gustata sui tavolini all’aperto del Kouba Dundo Maroje, prima di un’ultima passeggiata; in giro poca gente, ancora per fortuna non è stagione per turisti.


25 Aprile 2012


Il rumore che sento alle 6.30 del mattino non è la doccia di qualche appartamento adiacente, è proprio pioggia. Si, piove mentre guardo attraverso la finestra della mia camera/cucina, per fortuna però è solo un temporale di passaggio: il tempo di una veloce doccia e il cielo, come per incanto, è di un blu intenso e splende nuovamente il sole. Ana, sempre gentile e sorridente, passa puntuale alle 9 come da accordi per il ritiro delle chiavi, ci rivedremo con lei fra qualche giorno. Ora, carichi dei nostri zaini, attraversiamo a piedi la città vecchia sotto il sole, col marmo a terra ancora bagnato e scivoloso, fino ad arrivare in pochi minuti fuori dalla porta Pile, ad ovest, nella parte nuova, in attesa dell’autobus locale n.8 che in breve ci porta alla stazione dei pullman. Siamo in anticipo, attendiamo a fianco del parcheggio taxi, il tempo passa, sono le 10 ora prevista della partenza, poi le 10.30...e ancora le 11 ma del pullman che ci deve portare in Montenegro neanche l’ombra. Evidentemente la puntualità non è una delle caratteristiche croate. Peccato perchè con questo sole avremmo potuto sfruttare meglio la mattinata. Finalmente alle 11.45 il pullman arriva: è abbastanza nuovo, dentro a fianco ad una grande effige della Madonna, il termometro segna 20 gradi, si parte da Dubrovnik che è quasi mezzogiorno. Nel primo tratto la strada si arrampica lungo il promontorio che dall’alto offre superbi panorami sulla città sottostante affacciata sul Mare Adriatico, di un blu intenso, che riflette la luce del sole, qualche piccola isola rocciosa al largo, e le montagne, verdissime che sembrano tuffarvici dentro. Dalla parte opposta della strada i massi delle pareti rocciose vengono ttrattenuti da grandi reti a maglie metalliche per evitare frane. Mano a mano che ci si allontana da Dubrovnik il paesaggio cambia: le montagne sono bellissime, semispoglie e rocciose, con le loro possenti cime arrotondate e completamente ricoperte di macchia mediterranea alla base, dalla quale spuntano qua e là piccoli assembramenti di case in ampie vallate verdi. La strada prosegue, lontana per ora dalla costa, nell’entroterra. Dopo 45 minuti ecco la frontiera croata, che somiglia di più ad un casello autostradale: sale a bordo una giovane poliziotta che ritira tutti i passaporti e scende; tempo 15 minuti e il pullman riparte percorrendo le poche centinaia di metri che ci separano dal confine montenegrino. Altra frontiera, struttura grigia a semi arco, dove da un lato sventola la bandiera rossa e gialla con l’aquila a due teste: si intuisce subito che l’attesa sarà lunga, da una parte e dall’altra ci sono perfino cani addestrati che vengono fatti salire nelle stive dei pullman. Altra mezz’ora fermi, oggi va così; finalmente ci vengono restituiti i passaporti, sono ormai le 13.40 quando ripartiamo ed entro per la prima volta in Montenegro. La periferia della prima cittadina che si incontra lungo la strada, quella di Herceg Novi, è abbastanza deludente, ci sono perfino dei palazzi che si affacciano a pochi metri dal mare e case un pò ovunque lungo i pendii delle montagne. Poco distante la strada comincia a costeggiare i fiordi, in un continuo zigzagare tra minuscoli paesi sovrastati dalle montagne sempre più imponenti che calano a picco nelle acque cristalline sottostanti. Finalmente Kotor. La sua stazione dei pullman è piccola ed anonima, a piedi, grazie alle indicazioni di un benzinaio, ci dirigiamo all’ingresso della città vecchia alla porta sud, dove un arco in pietra conduce all’interno di quello che appare come un vero borgo antico, a sè stante rispetto al resto. Anch’esso, come a Dubrovnik, cinto da alte mura in pietra che lo racchiudono, completamente pedonale e con vecchie case dall’aspetto dismesso e molto pittoresco. Un labirinto di stradine e vicoli, con i fiori alle finestre delle case, e tanti gatti che vagano per le vie acciottolate piene di negozietti di souvenir e caffè-ristoranti coi tavoli all’aperto. Le vie conducono a piccole piazze, qualche chiesa cattolica e qualcuna ortodossa. Troviamo il Rendez Vous Hotel (rendezvouskotor@yahoo.com) prenotato dall’Italia tramite il sito Booking.com: è una piccola casa in pietra con sotto l’omonimo ristorante, tanto che è il cameriere a condurci alla camera tripla del primo piano. Il centro storico di Kotor è proprio grazioso, è un piacere e subito lo facciamo, quello di perdersi nei suoi vicoli. Proprio dietro al Rendez Vous c’è la piazzetta con due chiese, la piccolissima chiesa di S.Luca e la più grande chiesa di S.Nicola, con i due alti campanili sormontati dalle croci ortodosse, un interno buio e spoglio, senza un altare ma con le classiche icone che l’adornano. C’è il sole, un cane se lo gode tutto, sdraiato placidamente davanti alle tre piccole botteghe di souvenir della piazzetta. Poco oltre un altro spiazzo con delle panchine, alcune all’ombra di uno spettacolare e secolare albero dalla forma perfetta, al centro una fontana ottagonale in marmo bianco con simboli che richiamano alla vecchia dominazione veneziana della zona, e a lato un’altra piccola chiesa, S.Maria Koledata, a pochi passi dalla porta nord dalla quale si esce o entra nella cittadella. Cercando tra i vicoli, trovo delle botteghe che vendono oggetti in ceramica fatti a mano davvero particolari e interessanti nei prezzi, stavolta in euro che qui è moneta locale. Ci fermiamo a bere una birra locale (2 euro) seduti sui tavolini all’aperto di uno dei tanti bar, e poi di nuovo a passeggio fino alla cena, presso il Rendez Vous che proviamo, a base di salsicce e insalata con dell’ottimo prosciutto crudo affumicato come antipasto. Si è fatto buio, i vicoli della cittadella sono semi deserti, alcuni assumono un aspetto spettrale ma davvero suggestivo: le pietre bianco sporche delle mura sapientemente illuminate dalla luce tenue e calda delle lanterne, riflettono sulle vecchie persiane verdi, coi piccoli balconi, le chiesette deserte...insomma un ambiente surreale quanto suggestivo. Non c’è nessuno in giro, silenzio, qualche gatto che passeggia tra i tavoli vuoti dei ristoranti all’aperto. Usciamo dalle mura e facciamo una breve passeggiata lungo la strada che costeggia le mura esterne e il porticciolo del fiordo, con diverse barche ormeggiate; dalla parte opposta del fiordo, ai piedi delle montagne, le luci di un altro paesino si riflettono nelle calme acque della baia, e anche le mura delle antiche fortificazioni che si arrampicano sopra alle montagne alle spalle di Kotor sono illuminate, quasi a creare una sorta di grande arco che abbraccia l’intera montagna, partendo e riscendendo alle due estremità della città vecchia, come a coccolarla e proteggerla: in questa prima notte montenegrina non potrò che sentirmi al sicuro...


26 Aprile


Anche oggi il sole e un cielo blu intenso, quello che ci vuole dopo una doccia rinfrescante per cominciare al meglio una giornata di viaggio. Colazione sulle panche dei tavoli all’aperto del Rendez Vous, mentre il sole fa capolino spuntando dalla sagoma delle montagne dietro Kotor: è proprio lassù che voglio andare oggi. Vado da solo, Fra e Velcha non se la sentono e preferiscono restare in città. Sono le 9.22 quando inizio la scalinata che dalla porta nord mi porterà su in cima: appena svolto tra alcune vecchie abitazioni, una signora seduta ad un tavolino in legno mi fa il biglietto per l’ascesa ai resti delle vecchie fortificazioni, alcune ormai mimetizzate con la parete stessa della montagna; salgo, il sole picchia, e i gradini in pietra dalla forma irregolare, a volte ripidi, a volte stretti e a volte da interpretare inglobati dalla vegetazione, mettono a dura prova i muscoli poco allenati delle mie gambe. In mezz’ora però, sono già a metà del cammino, all’altezza della piccola e vecchia chiesa di Nostra Signora Remedio, col campanile in pietra ormai annerita in parte dal tempo: già da qua il panorama sulla sottostante Kotor e il fiordo circondato dalle montagne, è superbo! Prendo un pò fiato e ricomincio lentamente a salire, il sentiero da qua si fa più tortuoso e a tratti strettissimo; arrivo a fatica ma finalmente alle rovine del Castello di St John e dell’Illyrian Fort, a 1200 metri di altezza, sulle quali svetta la bandiera montenegrina. Sono nulla più che resti di mura secolari, della fortezza vera e propria non è rimasto quasi nulla, ma già solo il panorama che ammiro da qui, con Kotor, la sua cittadella fortificata con i tetti arancioni delle case, quasi attaccate e in ordine sparso, il piccolo porto e le strada costiera con le auto che da quassù sembrano piccole formiche colorate impazzite, tutto attorno le montagne, ripaga la fatica e la sudata. Mi siedo, sono completamente solo quassù, ma in posti come questi, la solitudine è mia amica. Contemplo la natura tutta attorno ascoltando il canto degli uccellini, davvero rilassante. Domani l’acido lattico si farà sentire, ma ne è valsa eccome la pena arrivare fin qui. Chissà secoli fa chi viveva quassù come si sentiva all’idea di dominare tutto e tutti dall’alto. E’ ora di lasciare i pensieri da parte e ricominciare la discesa; a parte il primo ripido tratto, il resto è una passeggiata. Incrocio a metà sentiero 4 francesi che stanno salendo, ho fatto bene a partire presto. Meno di un’ora e sono di nuovo giù alla cittadella, stavolta all’altezza della porta sud, in tutto da quando sono partito sono passate poco più di due ore, temevo peggio. Provo a cercare Fra e Velcha vagando nei vicoli, ma alla fine ricorro alla tecnologia e via sms ci localizziamo a vicenda: Esco dalla porta sud e percorro le poche decine di metri della strada costiera esterna, passando tra i banchi di un piccolo mercato di pesce, fiori e frutta (gigantesche le fragole)fino a rientrare nella cittadella dalla Porta del Mare, sulla quale troneggia la stella rossa fatta edificare da Tito quando questi liberò coi suoi Partigiani la città dall’occupazione nazista durante la II Guerra Mondiale. Entrando, nella piazzetta ai piedi della tozza torre dell’Orologio, ritrovo Fra e Velcha. I tavoli dei locali sembrano tutti pieni a differenza di ieri; c’è gente, ma nonostante ciò Kotor non perde la sua caratteristica tranquillità, basta svoltare un angolo per ritrovarsi in vicoli o piazzette tranquille nelle quai il silenzio è rotto solo dal suono delle campane che annunciano le ore 12. Kotor mi piace, è bella, bella quanto le sue giovani ragazze, alcune dai fisici perfetti e dai volti luminosi che contrastano con quelli rudi e vissuti degli anziani, quasi a voler sottolineare una fase nuova e meno cruenta della storia di questo piccolo Paese. Pomeriggio lento, tra qualche acquisto (metto in imbarazzo una giovanissima commessa che non ha idea di come si usi un bancomat e chiede a me di aiutarla, tenerissima!) e un pò di relax in stanza. Poi ancora in giro: visito l’interno della piccolissima chiesa ortodossa di S.Luca, dove il suo cordiale Pope dalla barba lunga e grigia mi invita a fare fotografie; viene intanto la sera, la magica luce delle lanterne/lampione illumina le stradine, Kotor quasi per incanto si svuota e resta tutta per noi...


27 Aprile


Le campane delle chiese di Kotor suonano a festa a partire dalle 6.30 del mattino...è da quell’ora che più o meno sono sveglio aspettando nel letto quei due dormiglioni di Fra e Velcha si sveglino a loro volta, ah, gli inconvenienti delle camere triple! Anche oggi bella giornata: fuori alcuni anziani spingono per i vicoli pedonali della cittadella dei tricicli con un cassone davanti col quale trasportano rifornimenti per bare  e ristoranti; intanto alcuni gruppi di turisti armati di macchine fotografiche, prendono di assalto  le piazzette e le chiese. Usciamo dalla cittadella in direzione sud, costeggiando il fiordo; la passeggiata ci porta ad attraversare due piccoli paesi, Skaljari e Muo: qualche chiosco, un vecchio albergo abbandonato e in rovina, l’ospedale e una rimessa di barche, nulla di più se non la vista di Kotor dalla parte opposta del fiordo. Torniamo per un’ultima passeggiata nella cittadella fortificata prima di una pizza al Rendez Vous. Oggi ci tocca ripartire. Il cameriere, una volta ritirati gli zaini e lasciata la chiave, mi prega di postare un feedback positivo in internet al mio ritorno sul loro hotel, sarà fatto! E via, l’ultimo tragitto fino alla porta sud nel meraviglioso centro storico, zaini in spalla, per arrivare a piedi fino alla piccola e dismessa stazione dei pullman. Nuova attesa, stavolta un pò più breve rispetto a Dubrovnik. Con soli 20 minuti di ritardo arriva il pullman che, sempre ripassando da Dubrovnik, ci porterà a Mostar, in Bosnia. A bordo poca gente, l’autista è lo stesso dell’andata, e la sua guida disinvolta, fra i tornanti che a ritroso ripercorrono lo zizzagare tra i fiordi, pure! Dopo poco più di un’ora ecco la frontiera montenegrina, controllo dei passaporti e qualche centinaio di metri più avanti sotto con quella crata: qui un giovane gendarme sale, ritira tutti i passaporti e poco dopo risale chiamando un nome, il mio! Oddio, che avrò fatto? Mi hanno infilato qualcosa di losco nello zaino a mia insaputa e assomiglio a qualche latitante locale? Tranquillo scendo e lo seguo fino dentro ad una piccola stanza nella quale mi fa un paio di domande su dove sono diretto, perchè e quanti soldi porto con me, poi mi perquisisce parzialmente lo zainetto prima di riconsegnarmi il passaporto dicendomi che posso risalire a bordo! Mah, avranno tirato a sorte un fortunato da controllare, chissà cosa avran pensato gli altri passeggeri. Comunque si riparte, sono le 16.42 quando rientro in territorio croato. Il pullman arriva a Dubrovnik, la vista dall’alto della parte storica della città è superba come sempre. La strada scende tra i tornanti fino ad arrivare alla stazione dei pullman, dove sostiamo per fortuna solo 5 minuti prima di ripartire. Qualcuno sale mentre chi scende è preso d’assalto da un gruppetto di signore ognuna armata di cartello col nome della sua guesthouse. Il pullman riprende la sua corsa attraversando un lungo ponte fino ad arrivare alle 18.30 ad un nuovo posto di blocco: ancora controllo passaporti a vista, direttamente a bordo, veloce. Poche centinaia di metri di strada e la cosa si ripete! Paranoici. Solo parecchi km dopo finalmente si arriva a quella che è la vera frontiera croato bosniaca: uno spiazzo  con una doppia fila ai lati di piccoli prefabbricati color bianco, da una parte la bandiera crata e dall’altra quella bosniaca dai colori giallo e blu, parecchio sbiadita e sfilacciata dal vento. Sale a bordo un giovane polizziotto crato con la classica divisa blu elettrico e il berretto, fa ad uno ad uno il veloce controllo a vista dei passaporti, poi scende; subito dopo, col pullman sempre fermo, sale un polizziotto bosniaco e ripete la stessa scena: surreale! ma tant’è che alle 19.30, quando il sole comincia a calare all’orizzonte, entro in Bosnia Erzegovina. Oltre il confine la strada dapprima attraversa piccoli paesi fatti di casette ognuno con diversi appezzamenti di terra coltivata, le montagne che fanno da sfondo, quelle più lontane con le cime leggermente innevate. Si fa buio, dopo poco più di 5 ore di viaggio si arriva a Mostar: ad attenderci alla stazione c’è Nina, proprietaria della guesthouse omonima segnalata dalla Lonely Planet (www.hostelnina.ba) , con cui mi ero messo in contatto dall’Italia. Nina è una signora bionda, gentile, parla un buon inglese e con la sua auto ci porta in pochi minuti fino ad una piccola palazzina bianca a tre piani, un pò malmessa, sembra un normale condominio con tanto di portone, citofoni e cassette della posta rotte. Entriamo al piano terra in un piccolo appartamento fatto di tre camere, una mini cucina e un bagno in comune. In una delle tre camere c’è Soraya, una ragazza italiana dal forte accento toscano, qui per studio da un mese. Nelle altre due ci saremo io in una, e Fra e Velcha nell’altra. Nina ci lascia le chiavi del portone e delle camere, e ci saluta. Fuori è buio, siamo stanchi, ma un breve assaggio di Mostar ce lo concediamo lo stesso. La città è abbastanza buia, un lampione su due non è funzionante. Proprio di fronte alla casa dove siamo c’è. dalla parte opposta del marciapiede, un piccolo cimitero islamico in un giardinetto, senza alcuna entrata o recinzione, solo gli steli e le targhe dei defunti. In 10 minuti di cammino arriviamo al centro storico, dove la strada diventa acciottolata, tutta in pietra levigata, e chiusa al traffico: c’è qualche pub ancora a perto coi suoi tavolini all’esterno, così come qualche negozio coi prezzi delle merci sia in euro sia in Bam (KM), la moneta locale che subito preleviamo al primo bancomat. Sono a Mostar, ma non sembra affatto di essere in Europa: il piccolo centro con lo Stari Most, il famoso ponte pedonale simbolo della città e non solo, i minareti illuminati delle moschee e i piccoli bazaar che vendono merci quasi tipiche turche...già, mi sembra di essere in un altro mondo già conosciuto, e che non vedo l’ora di vedere alla luce del giorno.


28 Aprile


Esco di buon mattino per sfruttare al meglio la luce da buon fotografo. Mostar a quest’ora è ancora semi deserta: attraverso da solo la scivolosa scalinata in pietra teneljia dello Stari Most, dalla parte opposta, lungo lo stretto vicolo di Kujundziluk, le piccole botteghe dalle antiche porte in legno a forma di arco sono ancora quasi tutte chiuse, ma da qui, dal muretto poco distante, la vista sullo Stari Most e le acque verdi piene di correnti del fiume Neretva che vi scorre sotto ad una 30ina di metri, e le case in pietra da una parte e l’altra, è superba. Arrivo alla fine del breve vicolo, un mastro batte il rame davanti alla sua bottega, mentre alcuni bar aspettano i primi turisti per la colazione. C’è un piccolo mercato coi banchi fissi in muratura, ma ci sono solo due venditori di bottiglie di liquori artigianali e di altri intrugli strani. Mi incontro con Fra e Velcha, insieme facciamo colazione all’aperto su una terrazza vista ponte, io con una squisita crépes al cioccolato e succo di arancia. Il sole ormai è già alto, fa molto caldo più di quanto mi aspettassi; ci dirigiamo a piedi oltre il centro storico, passeggiando fino alla stazione dei pullman dove acquistiamo i biglietti per il rientro a Dubrovnik fra due giorni, e poi, nella contigua stazione ferroviaria per acquistare quelli del treno per l’indomani, destinazione Sarajevo; ma con nostra sorpresa, l’addetta ci dice che si possono acquistare solo il giorno stesso della partenza, vabbè. Mappa della Lonely in mano, torniamo in direzione del centro passando oltre il primo ponte e seguendo Aleske Santica, all’apparenza una normale via se non fosse che solo 20 anni fa questo luogo era il fronte della assurda guerra combattuta fra i bosniaci cattolici e i croati contro la minoranza islamica. Una guerra assurda come tutte le guerre d’altronde, combattuta nel nome dell’etnia e della religione. Un genocidio compiuto in gran parte dai croato/bosniaci cattolici senza un motivo, troppo spesso dimenticato o sottovalutato da noi “occidentali”, un modo comodo per tenersi pulite le coscienze, far credere di essere sempre dalla parte dei giusti e degli oppressi, bombardare Belgrado ( e la sua popolazione civile!) dimenticandosi però dei crimini compiuti dall’altra parte da quelli considerati nostri amici, i “giusti”. Del massacro compiuto dai crato bosniaci contro la popolazione musulmana non ricordo grandi levate di scudi; una guerra fratricida che ha visto morire più di 200 mila persone, ha visto distruggere intere città e cancellare secoli di storia. Mostar, alla fine del conflitto, era ridotta ad un cumulo di macerie; fa impressione, in qualunque piccolo cimitero di semplici steli bianchi che si trovano un pò ovunque nei pressi delle moschee, vedere come la quasi totalità delle date di morte sia compresa tra gli anni 1992 e 1995, un’intera generazione cancellata. I segni della guerra sono ancora evidenti,alcuni edifici ridotti a scheletro, e numerosi con i fori di mortaio presenti sulle facciate, anche di quelli tutt’ora abitati. Eppure la vita sembra aver ripreso per fortuna il suo normale scorrere: c’è il turismo, gran parte della città è stata ricostruita, l’antico centro e lo Stari Most, il meraviglioso Ponte Vecchio, hanno ripreso il loro antico aspetto. E pensare che questo piccolo gioiello non c’era più, crollato sotto i colpi dell’artiglieria croata per isolare la popolazione musulmana che risiedeva nella parte orientale della città. Ci incamminiamo verso Brace Fejica, la principale via commerciale, con qualche bar ristorante e mini supermercati, fino ad arrivare alla piccola moschea Kara Dozbeg dal semplice interno tinto di bianco e gli affreschi in parte scoloriti dal tempo. Poco oltre, con mio stupore, l’altrettanto piccola moschea Roznamedzi non è più tale se non dall’esterno: l’interno invece non è più adibito a funzione religiosa ma a piccolo bazar gestito da donne coperte dal velo, che vendono i loro prodotti fatti a mano. Il caldo aumenta, entrare nelle moschee è anche un’ottima soluzione per tamponare in parte questa inaspettata calura. Arriviamo alla fine della via, poco prima dell’acciottolato centro storico, c’è la grande moschea di Koski Mehmed Pasa: entriamo, oltre ai canonici tappeti stesi per la preghiera e il grande lampadario che dall’alto della cupola scende fin quasi a terra, c’è un enorme tappeto appeso ad un muro, e gli interni delle vetrate fatti di specchi colorati; sulla destra salgo le strettissime e interminabili scale a chiocciola del minareto fino ad arrivare in cima: da quassù la vista a 360 gradi su Mostar è bellissima, col ponte Stari Most che domina la scena, con la sua forma a luna rovesciata, fatto in pietra pallida, a lato la torretta pietrificata oggi sede di un museo da una parte, e la torre di Tara sede del circolo dei tuffatori dall’altra. Sotto una trentina di metri scorrono le verdi acque del fiume Neretva, attorno le vecchie e grigie case di pietra con gli stretti vicoli dove artigiani vendono le loro merci tra i numerosi bar ristorante, i minareti e i tetti rossastri delle casette nuove,il tutto incastonato in un bel panorama montano! Decisamente da vertigini quassù ma imperdibile! Torno giù e riprendiamo a camminare rientrando nel centro storico e passando sul piccolo Ponte Storto, versione in miniatura dello Stari Most, sotto al quale scorre impetuoso un torrente; accanto ad esso la piccola moschea Neziroga e altre botteghe colme di merci, in una delle quali facciamo amicizia con una giovanissima e bella commessa che ci chiede il contatto facebook. C’è sempre più gente, tanti turisti, non me li aspettavo in queste quantità, tanto che nel pomeriggio attraversare i pochi metri dello Stari Most diventa quasi difficoltoso se si incrociano i gruppi organizzati, italiani e giapponesi su tutti! Si fa sera, la luce del sole che tramonta sembra quasi scaldare la pietra pallida dello Stari Most che ammiriamo mentre siamo seduti ad un tavolo all’aperto del ristorante Babilon con vista dal basso. La luce va via e arriva quella artificiale e calda di faretti che illuminano in maniera suggestiva i minareti e il ponte stesso. Il muezin richiama i fedeli alla preghiera, non sembra di essere in Europa! La porzione di carne del ristorante è notevole, la dividiamo in parte con qualche fortunato micio di passaggio e il resto cerchiamo di smaltirlo facendo una lunga passeggiata fino a raggiungere, ben fuori dal centro storico, il vero Hostel Nina, in quanto quello dove pernottiamo è una sistemazione “secondaria”, una depandance. Trovata la via, Nina ci vede dalla finestra al piano terra del suo appartamento e ci invita a sistemarci attorno ad un tavolo all’aperto in quello che sembra un giardino condominiale, accanto ad un grande barbecue in muratura: contenta della visita ci offre un tè e spontaneamente comincia a raccontarci la sua esperienza durante gli anni della guerra; ci parla di lei, cattolica non praticante, di famiglia comunista e con marito musulmano, costretta a scappare per questo e a trovare rifugio in Norvegia coi suoi figli, senza conoscere nulla di quel Paese, neanche la lingua. Pochi altri Paesi in quegli anni hanno concesso rifugio politico ai bosniaci in fuga; anni difficili, soprattutto pensando al marito rimasto a combattere a Mostar contro l’assedio croato. Ha deciso di tornare prima della fine della guerra, e tutto era già ormai distrutto: non più una fabbrica, il ponte distrutto così come quasi tutte le case e ben 15 delle 16 moschee esistenti. Poi l’assurda guerra è finita, è cominciata la ricostruzione nonostante le tante cicatrici ancora aperte, e nonostante il poco cibo. Sono arrivati i primi aiuti e lentamente la vita è tornata alla normalità. Poi è arrivato il turismo, Nina, vedendo turisti e giornalisti, ha pensato che potesse dare loro un letto per dormire: tutte le mattine andava con un cartello scritto a mano alla stazione dei pullman per pubblicizzare la sua sistemazione, fino a quando un turista neozelandese non le ha suggerito e l’ha convinta ad acquistare un computer; poi l’incontro con un altro turista, “sporco e trasandato” lo definisce ridendo Nina. Il turista era lì per scrivere il suo diario di viaggio, ma non un diario qualunque, il diario per la Lonely Planet! Il resto è che oggi l’Hostal Nina è tra quelli suggeriti dalla bibbia dei viaggiatori indipendenti, e Nina non deve più andare tutte le mattine alla stazione dei pullman; ha dovuto imparare una lingua, l’uso di un pc, ricostruirsi una vita, ma la sua è una storia a lieto fine che racconta col suo immancabile sorriso; penso però a quante sofferenze e a quanta forza abbia questa donna. Poi il discorso devia sulla sua famiglia, suo figlio ora maggiorenne, tifoso dell’ Inter (è destino!), che una volta è perfino venuto a Milano per vedere una partita della sua squadra dal vivo, il derby, ma fuori dallo stadio gli hanno venduto un biglietto falso ed è riuscito ad entrare solo a partita abbondantemente iniziata. Conversazione piacevole. Mi fa riflettere pensare che un tempo Tito era riuscito per decenni a tenere unito pacificamente un Paese, la Jugoslavia, che aveva in sè così tante anime diverse, e che solo alla sua morte potessero venir fuori tensioni così aspre da generare guerre fratricide in una sorta di tutti contro tutti, nel nome di cosa? Salutiamo Nina, è sabato sera e tornando a casa lo si nota soprattutto dai vestiti succinti e in tiro delle giovanissime ragazze che si apprestano ad andare per locali: anche questo è un segno dei tempi che cambiano...


29 Aprile


Mostar è ancora deserta, siamo gli unici ad attraversare a piedi il piccolo Stari Most mentre ci dirigiamo verso la stazione ferroviaria. La raggiungiamo in una 20ina di minuti: 4 binari vuoti e una manciata di persone che attendono il treno diretto a Sarajevo. Eccolo, con 15 minuti di ritardo, il vecchio treno sosta alla stazione di Mostar, saliamo e si parte. I binari costeggiano per un primo tratto l’ampia vallata dove scorre il fiume Neretva, prima di entrare in gole sempre più strette fra le montagne; dopo circa un’ora siamo alla stazione di Konjic, la più grande di quello dove fino ad ora abbiamo sostato: sale qualcuno, il treno riparte e sento il controllore dallo scompartimento a fianco al nostro, litigare con alcuni ragazzi forse sprovvisti di biglietto; la sua voce sveglia la bambina che viaggia nel nostro scompartimento e che si stava addormentando sulle gambe della sua mamma, mentre fino a poco fa giocava tirando fuori i suoi piccoli tesori da uno zainetto che sembrava quello di Mary Poppins, dolcissima. Ora il treno prosegue la sua corsa lontano dal fiume, salendo tra le montagne ricoperte da una fitta vegetazione, bei paesaggi, fino ad arrivare a quella che ha l’aria di essere la periferia di una città: a differenza di Mostar, qui ci sono industrie e le prime vecchie palazzine con ancora ben visibili sulle facciate i segni dei mortai. Il treno rallenta e in pochi minuti eccoci arrivati alla stazione di Sarajevo, capitale della Bosnia Erzegovina. Saluto mamma e figlia che hanno condiviso con noi il viaggio e scendo: fuori dalla stazione un immenso spiazzo, qualche palazzo e un grattacielo di vetro; pochi i tassisti, chiedo ad uno di loro, un pò anziano e sovrappeso e che fatica a leggere la mappa, nonostante gli stia indicando il centro; è bussfo, finalmente ci capiamo e per 5 euro ci porta nel cuore storico della città, ovvero al quartiere turco di Boscarsija. Da qui, dalla Piazzetta dei Piccioni (che in effetti sono numerosi quanto i turisti che la affollano) con al centro la fontana a forma di gazebo (Sebilj), fatta in legno con una sorta di tettuccio orientale, simbolo della città, cominciamo a vagare per le strade pedonali del quartiere. Casette basse in legno, ognuna con sotto la sua bottega, che vende dalle chincaglierie per turisti, agli oggetti in rame, e poi tanti ristoranti coi tavoli all’aperto. Ci sono tanti turisti, tra di loro qualche donna anziana col foulard a coprire il capo chiede l’elemosina mentre altre invece vendono colorate calze di lana fatte a mano. Attorno le case, massimo due o tre piani, si arrampicano fino in cima alle colline circostanti dove spicca il bianco delle steli dei numerosi cimiteri sui grandi spazi verdi. Accanto alla torre in mattoni dell’orologio svetta il minareto della moschea di Boscarsjia, che purtroppo è chiusa essendo oggi domenica. E che sia domenica lo si vede uscendo dal quartiere turco: poca gente e negozi chiusi, almeno fino a Ferhadija, la via pedonale dove si concentrano i locali alla moda della città, coi tavoli all’aperto dei caffè e delle gelaterie, pieni di giovani. Sul marciapiede accanto alla cattedrale cattolica dagli imponenti campanili,  c’è quella che viene definita come una delle “rose di Sarajevo”, indicata sulla Lonely ma di difficile individuazione dato che non è invece indicata qui, ma va cercata: è una “macchia” rosa sull’asfalto, dalla vernice un pò sbiadita usata per ricoprire un buco provocato dal colpo di un mortaio, grande quanto almeno una ruota di bicicletta; questo è uno dei pochi segni visibili dell’orrore della guerra, di quando la città fu sotto assedio per anni dai colpi dell’artiglieria serba. Oggi guardando il via vai della gente a passeggio per queste vie del centro, sembra un ricordo per fortuna lontano, testimoniato oltre che dalle rose, anche da targhe in ottone poste su alcune facciate che riportano i nomi dei caduti civili. Camminiamo, fa tanto caldo e le tappe per sedersi a bere qualcosa sono quasi obbligate; lentamente ciondoliamo verso il fiume, passando sul vecchio ponte in pietra a tre archi dove nel 1914 fu assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando, fatto che diede origine alla Prima Guerra Mondiale: anche qui nessuna evidente targa commemorativa. Poi, di passaggio, breve visita alla piccola moschea dell’Imperatore (in un luogo di quiete e silenzio) e di nuovo lungo il viale costeggiando il fiume e risalendo sempre a piedi fino alla stazione, non dopo esserci persi e aver chiesto indicazioni a due gentili gendarmi, visto che nessuno dei passanti riusciva a capirci. Sono quasi le 18, ci fermiamo per un’ultima sosta in un bar tra i caseggiati popolari della zona adiacente alla stazione ferroviaria. Sarajevo a parte il quartiere turco, come immaginavo, non ha granchè da offrire e non mi ha colpito particolarmente. Entriamo in stazione: l’attesa seduto su una panchina si fa lunga, il treno proveniente da non so dove è in notevole ritardo, poi finalmente arriva; è abbastanza pieno, troviamo posto in uno scompartimento già occupato da tre uomini, due dei quali hanno delle facce poco raccomandabili, quello di fronte a dove mi siedo io, lato finestrino, continua a fumare e a bere bottiglie di birra che accumula vuote sul tavolino. Fuori il paesaggio è bellissimo: montagne e tanto verde intervallato da qualche macchia bianca, ossia le foglie degli alberi di ciliegio, e sparse qua e là, casette di piccoli villaggi dove i bambini giocano all’aria aperta mentre il sole lentamente comincia a calare dietro alle montagne. E’ buio e il treno continua la sua lenta corsa tra una galleria e l’altra. Uno dei due tizi, col suo incerto inglese, comincia ad attaccare bottone parlandoci, Fra e Velcha sono visibilmente a disagio, ma a me la cosa non dispiace e comincio ad interloquire: passa dal calcio alla politica italiana, mi racconta che è uscito da poco da una comunità per il recupero dei tossicodipendenti e che ora vuole rigare dritto; il suo amico non capisce una sola parola di inglese, se la ride mentre il suo compagno continua a spruzzarsi tra una chiacchera e una birra, del mentolo per cacciare via l’odore dell’alcool; due tipi davvero fuori di testa. Sono le 21.30, il treno arriva a Mostar: saluto i due compagni di viaggio, il tizio con cui chiaccheravo mi ringrazia per la conversazione; a piedi ci dirigiamo verso il centro storico, semideserto già a quest’ora. Prendo un gelato che stasera mi farà da cena, saluto Fra e Velcha che invece si fermano per una birra, e da solo mi dirigo a piedi, attraversato lo Stari Most e uscito dal piccolo centro, verso la buia e anonima via dell’appartamento.


30 Aprile


Ho dormito proprio bene quest’ultima notte in Bosnia. Esco presto, ho da consumare gli ultimi Bam rimasti; il piccolo Stari Most e le botteghe dei vicoli sono presi d’assalto questa mattina dai turisti, tanti gli italiani in gruppi organizzati, tanti gli anziani probabilmente di passaggio lungo il pellegrinaggio verso la non lontana Medugorje, che confusamente vagano tra la merce esposta, che spazia dagli oggetti in rame alle sciarpe pashmina, dai tappeti ai ciondoli e orecchini orientaleggianti. C’è anche una scolaresca di bambini dell’asilo, che si tengono in fila aggrappati ad una corda con le maestre alle estremità che li controllano, creando un buffo serpentone umano tra i turisti. Ultimati gli ultimi acquisti me ne torno in camera a fare lo zaino in attesa che arrivi Nina per portarci alla stazione degli autobus. Arriva invece suo figlio, il tifoso interista, che con la sua auto ci conduce, tempo 5 minuti, in stazione dove c’è Nina. Qui paghiamo e salutiamo la gentilissima signora bionda che ci ha “ospitato”. Siamo in anticipo, seduto all’ombra della vecchia pensilina, osservo due piccole bambine rom che chiedono l’elemosina e intanto giocano tra loro. A dispetto delle altre occasioni, questa volta il pullman per Dubrovnik è in ritardo di soli 15 minuti: eccolo, il solito euro per il bagaglio in stiva, salgo, è pieno tanto che trovo posto in una specie di sedili a semigiro in fondo al mezzo con al centro un tavolino, una sorta di zona vip ma scomoda e soprattutto che non permette di vedere il panorama fuori dando le spalle allo stesso. Si parte, dopo non molto ecco la frontiera: la scolorita bandiera bosniaca giallo-blu è stata sostituita da una nuova dai colori accesi, c’è un caos disordinato di auto e pullman; e stavolta l’attesa è lunga, rimaniamo fermi quasi un’ora a bordo, e dopo l’ultimo controllo del poliziotto croato, si riparte entrando in Croazia, sono le 14.30 passate. L’autista, si vede che è una regola, viaggia spedito tra i tornanti che si affacciano ora sulla costa adriatica, e alle 16.15 intravedo in lontananza il moderno ponte che segna l’accesso a Dubrovnik, anche quest’ultima tratta è terminata. Recuperiamo gli zaini, mangiamo un panino seduti su una panchina e poi, in taxi, ci facciamo portare alla Porta Buza delle vecchie e alte mura fortificate. Il tassista, un giovane palestrato, allunga un pò la strada facendo alterare Velcha, ma in fondo la differenza che paghiamo in più è solo di un euro per quello che è un trucchetto che vale in tutto il mondo. Ana, la proprietaria dell’appartamento sito appena dentro il centro storico, ci aspetta già, la risalutiamo e lei tutta contenta ci consegna le chiavi. Di nuovo a Dubrovnik, come un cerchio che si chiude; il sole è ancora alto, stavolta rispetto a qualche giorno fa non c’è vento e ne approfittiamo per vagare senza meta fra le ripide scalinate degli stretti e vecchi vicoli fino a discendere allo Stradum, la larga via centrale, piena di negozi di souvenir su entrambi i lati, per poi addentrarci nei numerosi vicoli laterali, ombrati e alcuni occupati dai tavoli all’aperto dei ristoranti, coi camerieri che invitano i turisti a consultare i loro menù. Scende la sera e la città vecchia si illumina della sua caratteristica calda luce data dalle lanterne a muro, così come le chiese sapientemente illuminate dai faretti. Lo spiazzo di fronte alla chiesa di San Biagio, all’inizio dello Stradum, accanto all’antica torre dell’orologio col suo grande campanile, è uno dei principali punti di ritrovo della gente del posto. Ceniamo con un calzone seduti ai tavoli all’aperto di un ristorante, poi, stanchi, risaliamo la scalinata che ci riporta al nostro grazioso appartamento in via Kovacka, per concederci il meritato riposo.


1 Maggio


Oggi è il Primo Maggio, la Festa dei Lavoratori in tutto il mondo, la mia prima passata in viaggio. Passo la mattinata a trascrivere i miei appunti seduto al tavolo, mentre da fuori arriva in lontananza una piacevole musica antica di menestrelli, ben presto sostituita però da quella ben più netta e forte di una banda musicale probabilmente proveniente dallo Stradum. Dalla finestra aperta di tanto in tanto si sente il vociare di passaggio di qualche turista che sale o scende la stretta scalinata del vicolo sottostante; le campane rintoccano le ore 12, la mia mattinata di relax la concludo con una doccia. Esco, il centro storico di Dubrovnik, racchiuso tra le mura fortificate e proteso verso il mare, è, per quanto piccolo, di dimensioni più estese rispetto a quello di Kotor, qui è più cittadina che paese. Il resto della città vera e propria si estende al di fuori dalle mura, in parte lungo la costa e in parte sul promontorio circostante. Faccio un giro, da solo, curiosando tra gli strettissimi vicoli che, attraverso scalinate irregolari, scendono fino in basso allo Stradum; grossi vasi di piante fuori dalle piccole porte e lungo l’intera scalinata, i panni stesi tra una facciata e l’altra cui fili a carrucola, davvero pittoreschi. Arrivo allo Stradum, in piano, più facile da percorrere per i tanti turisti che affollano a passeggio la cittadina. I negozi, decisamente più cari che in Bosnia e Montenegro, sono quasi tutti aperti nonostante il giorno di festa; c’è anche un piccolo mercato artigianale di bancarelle che vendono prodotti realizzati in vetro, oli e sacchetti di lavanda, diffusa un pò dappertutto da queste parti. Break gelato, qualche piccolo acquisto e di nuovo in appartamento per lasciare il sacchetto. Sono quasi le 17, Fra e Velcha optano per una passeggiata rilassante, io invece per la salita e il giro sulle mura fortificate che cingono la cittadella come a proteggerla (ingresso 70 kune, 10 euro). L’inizio è un continuo salire e scendere, in alcuni tratti, queste altissime mura perfettamente conservate, superano i 25 metri! La vista dall’alto della cittadella è superlativa: i tetti dalle tegole arancioni, le casette chiare che sembrano formare un fittissimo labirinto  dal quale spiccano il campanile del Monastero Domenicano e le grandi cupole della Cattedrale dell’Assunzione della Vergine e del Collegio dei Gesuiti; alle spalle il blu intenso del Mare Adriatico con la grande isola rocciosa e ricoperta di vegetazione di Lokrum al largo. Cammino, solo, lungo il perimetro, tra una torretta e l’altra passando per un paio di fortificazioni più grandi sulle quali sventola la bandiera croata, e ad ogni angolo il panorama è sempre magnifico, complice anche la bella giornata. Arrivo al lato che affaccia sul mare, dopo aver sovrastato dall’alto lo Stradum e la cupola della grande fontana di Onofrio,a forma circolare e in pietra : qui le mura sono imponenti, poste in cima ai promontori rocciosi che scendono dritti fin in acqua. Fa ancora caldo nonostante l’ora tarda; un gruppetto di turisti cinesi gira tra le mura armato di ombrellini ripara sole o con cappelli dalle visiere enormi e a dir poco inguardabili, ma efficaci. In alcuni tratti le mura passano vicinissime alle case, sembra di passeggiarci quasi attraverso all’altezza dei tetti. Bello, ne vale sicuramente la pena. Dopo più di un’ora di passeggiata con continue soste fotografiche, arrivo dal lato della Porta Ploce, a lato della piccola baia dove sono ormeggiate numerose piccole imbarcazioni. Sudato ma soddisfatto ho concluso il perimetro dei 2 km lungo le mura e ammirato da diverse altezze e angolazioni il centro storico di Dubrovnik dall’alto. Ritrovo Fra e Velcha a Porta Buza dove ci eravamo dati appuntamento, e insieme andiamo a fare un pò di spesa in un mini market locale: stasera cena in casa per berci anche il vino rosso che Ana, la proprietaria dell’appartamento, ci ha regalato e poi conservato al nostro arrivo una settimana fa...


2 Maggio


E’ il giorno della partenza, anche questo breve viaggio nei Balcani occidentali volge al suo epilogo. Stamattina il cielo è velato da un leggero strato di foschia che nasconde il suo azzurro intenso dei giorni scorsi. Mattinata lenta a sistemare lo zaino, mentre fuori il sole finalmente si fa largo e il cielo torna blu invitandoci ad un’ultima passeggiata: scendiamo la scalinata che ci riporta allo Stradum: in una via parallela ci sediamo per un kebap, mentre fuori i turisti passeggiano; poi le ultime spese prima di cambiare definitivamente le ultime kune rimaste. E’ quasi ora, Ana ci raggiunge all’abitazione, e, gentile come sempre, ci intrattiene nel suo perfetto inglese; ma dobbiamo andare, zaino in spalla salutiamo, e, sotto un sole ormai cocente, percorriamo le poche decine di metri in salita fino alla fermata del bus diretto all’aeroporto (35 kune), posta accanto al punto di partenza delle arancioni cabine della funivia che porta avanti e indietro i turisti fin in cima al promontorio che domina dall’alto la città. Il viaggio volge al termine, un breve assaggio di tre Paesi diversi tra loro, ma che solo 20 anni fa erano parte di un unico Stato, e questo mi fa pensare...

Ma, anche se con qualche minuto di ritardo, il bus, quasi vuoto, arriva, e almeno per ora il pensiero torna alle attese negli hangar aeroportuali che ci attendono.



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