Java e Kalimantan (Borneo  indonesiano)
 

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OTTOBRE 2015 / Itinerario: Jakarta - Kumai - Navigazione lungo il Sungai Kumai -Surabaya - Yojakarta - Borobudur - Pranbanan - Parangtritis

Borneo

Java

4 ottobre


Sono sul volo 0056 della Turkish Airlines decollato da non molto dal moderno aeroporto Atatürk Istanbul; è piena notte ma ci vorranno 12 lunghe ore per arrivare a destinazione di questo nuovo viaggio che sta per cominciare: Jakarta, Indonesia. In realtà il viaggio è cominciato già parecchie ore fa, il giorno 3 mattina, con la partenza da una grigia Milano per poi proseguire con un lungo scalo nella capitale turca. Per fortuna ho un posto comodo sull'aereo, senza nessuno davanti, ma non so se questo basterà a far passare più velocemente queste interminabili ore che mi separano dall'arrivo. La pazienza, una dote obbligata per ogni viaggiatore. Sono le 17.05 ora locale quando, finalmente, il grande Boeing atterra sulla pista del Soekarno Hatta International AirPort di Jakarta;  sono in Indonesia. Il disbrigo delle pratiche per il visto è rapido, così come il ritiro del bagaglio seppur con la consueta ansia da un arrivo. Decisamente meno rapida l'attesa della navetta gratuita dell' Aerofann hotel, prenotato dall'Italia via web: passa un'ora dopo che ho visto sfilare tutte le navette possibili, quando finalmente ecco il minivan accostarsi tra il via vai di auto e pullman che si fermano per pochi secondi per via di uno zelante e fischiettante poliziotto che chiude un occhio per soste più lunghe quando gli si allunga una mancia. Fa caldo, c'è afa, è già buio quando arrivo ad Aeropolis, una sorta di quartiere aeroportuale di alberghi fatto apposta per chi, come me, è giusto di passaggio nell'immensa capitale indonesiana. I primi sorrisi e finalmente un vero letto in un'anonima ma dignitosa camera di questo anonimo ma dignitoso hotel.


5 ottobre


Con la luce del giorno ho i miei primi assaggi di vera metropoli d'Asia, con la sua confusione fatta di caotico traffico di auto e motorette, tanta gente, donne avvolte in coloratissimi sarong, il cibo per strada venduto da minuscole ed improvvisate baracche... Arrivo in taxi al terminal 1, quello dei voli nazionali, ai banchi del Check in regna la confusione, però una volta al Gate la musica cambia: essendo questi ben divisi in quelle che sembrano delle grandi pagode con vistosi lampadari. Il volo 708 della compagnia locale Trigana diretto a Pangkalan Bun, nella regione del Kalimantan, il Borneo indonesiano, partirà in ritardo di ben due ore, per via dei fumi che dagli incendi nell'isola di Sumatra si stanno propagando in tutta l'area. Due ore, poi tre, il tempo non passa, questo viaggio tarda proprio ad entrare nel vivo, non conto più il totale delle ore passate ad attendere tra ieri ed oggi. Passano quattro ore, sempre più zen, ma pur adorando il Tibet non ho più l'infinita pazienza dei monaci tibetani... Arriviamo a sei ore di ritardo (!) quando improvvisamente l'addetto della compagnia aerea fa imbarcare tutti in fretta e furia sull'aereo già fermo in pista da ore. Ci siamo, forse si parte... Ore 17.00 la buona notizia è che il piccolo Boeing della Trigana ha trovato la pista di atterraggio del piccolo aeroporto di Pangkalan Bun, completamente avvolta da un fitto fumo che sembra nebbia e che avvolge tutta la foresta circostante, provocando in me un poco di ansia nella fase di atterraggio visto anche la non ottima fama di cui gode la compagnia visti i recenti incidenti. L'aeroporto è davvero piccolo, attraverso la pista a piedi e ritiro il mio zaino (il penultimo a scorrere sul nastro, qualcuno sta cercando evidentemente di mettere alla prova il mio è la mia indole zen). Trovo subito un taxi con cui andare nella vicina Kumai; come ieri, alla reception, appena dico che sono italiano le poche parole scambiate in inglese anche col tassista, vertono sul tema calcistico, mentre io mi guardo attorno vedendo solo verde, giungla fatta di palme nane dalle foglie gigantesche, qualche baracca di legno e ai bordi della dissestata strada, dei chioschi che vendono, c benzina in bottiglie e taniche di plastica trasparente. Arrivo al Majid Hotel, una casa tra le poche costruite in cemento, di colore arancio, che funge anche da ristorante ed agenzia turistica. Io sono alla ricerca di un klotok per i prossimi giorni, ovvero una piccola imbarcazione locale di legno simile ad un battello con cui risalire il fiume Sungai Sekonyer alla ricerca degli oranghi. Una giovane e bella ragazza, carta e penna alla mano, comincia a farmi un preventivo. Decisamente più alto di quanto prevedessi, lei spunta qualcosa, contrattiamo, e alla fine cedo, mi sembrano affidabili. Arriva anche Majid, il marito, scambiamo due chiacchiere e mi si offre per accompagnarmi allo sportello bancomat del piccolo paese, solo che com'è tipico da queste parti, lo fa facendomi montare in sella al suo sgangherato scooter: ma per essere vera Asia ci vuole il terzo passeggero, e nulla di più autentico e folle che non la propria figlioletta, poco più di due anni, che, scalza, contenta si accomoda in piedi davanti al padre e si fa anche lei con noi il tratto di strada in scooter: assoluta normalità asiatica... Il cielo è grigio, non pensavo arrivasse fino a qua ma il fumo che c'è si sente soprattutto agli occhi. Kumai è un piccolo paese, tra le poche baracche e case si diffonde il richiamo alla preghiera del Muezin dal piccolo minareto giallo verde della locale moschea. Tanti piccoli chioschi che vendono cibo da strada, qualche donna se ne sta seduta per terra sul marciapiede a vendere frutta. Majid mi invita a partecipare con lui in serata ad un matrimonio locale, non c'è migliore occasione come questa per tuffarsi negli usi e costumi della gente del posto. Il tempo di una doccia fredda e sono pronto: Majid ma soprattutto sua moglie con due sue amiche, sono tiratissimi: lei indossa un elegante abito bianco aderente e tutte e tre hanno vertiginosi sandali con tacchi, cosa insolita da queste parti; con noi, stavolta in auto, viene anche la loro piccola figlia, che giusto per non farsi mancare nulla in termini di sicurezza, resta in piedi tra i sedili davanti, passando dalle gambe del padre che la tiene tra le sue braccia e il volante, ed infine sulle mie, incuriosita dai peli delle mie braccia che tanto la divertono. Le poche strade del paese sono buie, illuminate solo dai fari delle motociclette e da quelli di poche auto. In breve mi ritrovo in una delle situazioni più surreali mai capitatemi durante i miei viaggi: una grande sala addobbata da teli dai colori sgargianti, tanti fiori finti, uomini e donne e persino bambini vestiti con abiti di seta che da noi in occidente sarebbero buffi persino in un circo, musica a volume altissimo con karaoke, ed infine gli sposi, addobbati come due alberi di Natale, lei completamente incipriata tanto da sembrare un cadavere, esposti seduti su di un palco accanto ai loro genitori, mentre gli ospiti a turno sfilano per i saluti e le foto di rito. Sfilo anche io stringendo non so quante mani, sono tutti incuriositi e felici della mia presenza, sono l'unico occidentale; una ragazzina avvolta nel suo sarong rosa si imbarazza quando si accorge che il fratello finge di farsi un autoscatto con l'intento invece di fotografare me. Sono un perfetto imboscato che però non passa certo inosservato. Il tempo di sedersi ad un tavolo per mangiare un piatto di riso con carne preso al buffet, e già ce ne andiamo. Una visita lampo anche perché siamo diretti ad un altro matrimonio! Da queste parti funziona così. Io che da oltre 10 anni riesco a scampare da queste feste, ci sono capitato ben due volte nella stessa sera, per di più a matrimoni di sconosciuti, semplicemente a qualche migliaio di chilometri di distanza da casa. Stavolta l'atmosfera nel secondo matrimonio è più dismessa, non c'è quasi più nessuno, stanno smobilitando, così la nostra comparsata è ancora più veloce. Ma la serata non è finita, non ci facciamo mancare nulla e arriviamo a Pangkalan Bun, la cittadina vicina a Kumai, dove è stato allestito un palco e si sta tenendo un concerto all'aperto. Ad esibirsi a turno sono diverse cantanti, vestite anche loro con improbabili abiti stile bambole giapponesi manga. Molto kitsch anche questo, la musica rock asiatica fa ballare uomini di ogni età mentre stranamente le ragazze restano più in disparte. Sono davvero buffi, un gruppo di ragazzi poco più che adolescenti, sigaretta in bocca, si muovono in modo scoordinato, mentre il maxischermo alle spalle degli artisti proietta video di vigili del fuoco intenti a spegnere incendi! Comincia improvvisamente a piovere, e piano piano la gente si disperde. Anche io e Majid torniamo all'auto, le ragazze erano rimaste a chiacchierare poco distante; la strada è sempre più buia, io resto dietro con le due amiche, mentre fuori ora piove forte e la piccola figlia di Majid si addormenta nonostante le tre ragazze continuino a cantare...


6 ottobre


Il cielo è ancora grigio, ma la forte pioggia caduta tutta la notte almeno ha tolto il fastidioso fumo che mi faceva bruciare gli occhi. Oggi è il giorno della partenza in navigazione lungo le acque del Sungai Sekonyer. Sukran, un giovane dai tipici tratti indigeni, berretto in testa, inglese incerto e aria scanzonata, sarà il mio accompagnatore, mentre il resto dell'equipaggio è composto da Ali, il nostromo, (un uomo più basso di me e con la pancetta), il suo secondo, (un giovane ragazzo del posto), e la cuoca (una delle tre ragazze venute ieri ai matrimoni, ovviamente la meno bella…). Di loro solo Sukran sa un po' di inglese. Arrivo al vecchio e disordinato porticciolo e, passando da una banca all'altra, metto piede su quella che sarà la mia casa galleggiante per i prossimi tre giorni: un klotok, ovvero un piccolo battello a due piani, in legno dipinto di verde e azzurro, con un minuscolo bagno, l'acqua da prendere a secchiello da una bacinella, e una sgangherata bandiera indonesiana a poppa. Sono le 10.30 del mattino, comincia l'avventura! Il klotok accende il suo rumoroso motore e comincia a solcare le placide e stagnanti acque color marrone del fiume, il cui primo tratto è molto ampio, per poi diventare via via più stretto e contornato da una rigogliosa e fitta vegetazione. Mi godo la navigazione in perfetta solitudine: la ciurma infatti se ne resta al piano posteriore, mentre io sono su in cima, al coperto del tettuccio ad arco nella parte centrale della barca, accanto ad un tavolo con pesanti sedie in legno e ad un plasticoso materassino posto sopra ad un tappeto persiano, infatti a bordo si sta rigorosamente senza scarpe. Mi torna alla mente la navigazione lungo il Rio delle Amazzoni in Brasile, stessa rigogliosa vegetazione, ma qui, essendo solo, mi sento quasi un piccolo esploratore naturalistico. Improvvisamente in cima ai tronchi più alti odo un trambusto: è un nutrito gruppo di scimmie nasiche che si sta spostando tra i rami, sono tantissime; si gettano da un ramo all'altro quasi a corpo morto, con una agilità impressionante. La barca accosta e spegne il motore per permettermi di godere dello spettacolo: le scimmie nasiche sono a non più di 10 m da me, è bellissimo. Riprendiamo dopo un po' la lenta navigazione incrociando di rado qualche altro klotok. Dopo due ore di navigazione, attracchiamo ad un'ampia banchina fatta di assi di legno, in uno dei tre punti di più facile osservazione degli oranghi. Qui scendo ed insieme a Sukran inizio a percorrere un breve tratto di sentiero nella fitta giungla camminando tra formiche giganti grandi mezzo dito, sulle foglie cadute dagli alberi e rese umide dalle recenti piogge; ci sono anche impressionanti radici emerse dal terreno che creano le forme più strane e sulle quali è facile inciampare. Quando ecco, inaspettato, il primo avvistamento: un orango se ne sta tranquillo in cima ad un albero, spostandosi di tanto in tanto da un ramo all'altro. Resto ad osservarlo, ma in breve mi accorgo che non è il solo animale presente: ce ne sono altri, un intero gruppo attratto da un casco di banane lasciato appositamente su alcuni assi di legno lì vicino. Lentamente e quasi a turno, gli oranghi scendono dall'alto dei rami fin giù a terra a prendersi il cibo; qualcuno poi se lo riporta in cima prendendo anche tre o quattro banane alla volta e tenendole con le zampe posteriori. È uno spettacolo incredibile, resto in assoluto silenzio, stregato e circondato da questi bellissimi animali, dal lungo pelo color rosso rame, e dagli atteggiamenti e le espressioni del tutto simili a quelle umane. Resto impressionato dall'agilità che hanno nello spostarsi da un ramo all'altro, usando tutte e quattro le zampe prensili, sembrano sempre in precario equilibrio e sul punto di cadere; arriva anche il maschio alfa, il capo del gruppo; lo si capisce dagli evidenti cuscinetti adiposi attorno alla faccia e dalla impressionante stazza rispetto a tutti gli altri del gruppo, i quali gli stanno a debita distanza. Anche lui, con la sua leggiadra goffaggine, si arrampica in cima a dei rami con il suo bottino di banane che sbuccia e mangia lasciando cadere le bucce sul terreno sottostante. Poi, placido, comincia a grattarsi dappertutto; è uno spettacolo incredibile ed emozionante. Arriva anche una mamma col suo piccolo aggrappato al ventre, è buffissimo, sembra un pelouche spettinato; si stacca dalla madre per cimentarsi in una serie di capriole tra i rami, lasciandosi penzolare a testa in giù sorreggendosi appeso alle zampette posteriori; poi la mamma fa per allontanarsi e lui dopo un guaito, subito le si riattacca ad una zampa, una scena tenerissima. Passano le ore, almeno due, forse tre, circondato davanti  dietro e sopra dagli oranghi, saranno una dozzina, mi sento osservato ed in fondo sono io l'ospite nel loro habitat. Osservare gli animali nel loro ambiente è sempre un'emozione unica ed indescrivibile. Torno felice al klotok che ora è affiancato da altre tre imbarcazioni. Sulla riva opposta in questo tratto di fiume largo non più di 20 metri, un bambino vestito con la maglietta del Real Madrid, sta pescando, mentre un altro gruppo di scimmie nasiche, rumorose e decisamente più aggressive tra di loro, dà spettacolo sulle alte cime degli alberi. L'umidità è tanta, cerco di alleviare il senso di appiccicaticcio con una veloce doccia consistente in un secchiello di acqua fredda rovesciatami dalla testa; mi tornano alla mente le artigianali docce in Tibet con Graziana, altro viaggio ed altro clima, ma identiche forti emozioni e il contatto unico con la natura. Scende la sera e con sè una leggera foschia che avvolge la giungla nel suo silenzio. Alì il nostromo sposta il klotok qualche chilometro più avanti, in un tratto solitario del fiume, attraccando accanto a delle piante dagli strani frutti e legando ad esse le resistenti corde; passeremo la notte qui completamente immersi nella natura. Sono appena le 17.30 ma è già buio ed è già ora dell'abbondante cena servitami nel mio regale monolocale superiore, a lume di candele dalla luce così fioca che a fatica riesco a vedere cosa ho nel piatto, soprattutto i moscerini volanti che vi ci cadono. È infatti un'invasione di insetti soprattutto attorno alla fiamma delle due candele. Ore 19.30, ormai è buio fitto ed è arrivata ora di dormire. La notte nella giungla non è affatto silenziosa, ma è bensì un concerto sonoro tanto assordante quanto affascinante, fatto di versi di insetti e uccelli; versi inquietanti nel buio più assoluto: mi rintano nel mio bunker fatto di un morbido materasso chiuso da veli di zanzariera, al riparo dagli insetti ma  non certo dallo sguardo attento di chissà quale animale...


7 ottobre


Sono le 5.30 del mattino, il Sungai Sekonyer è avvolto in una leggera foschia, gli insetti con la luce sono spariti, e anche il verso degli uccelli è meno intenso. Uno ad uno si svegliano i componenti dell'equipaggio, e quando sono ormai le 7 riprendiamo la lenta navigazione lungo le placide acque color terra, mentre la foschia si alza per dare spazio ad un pallido sole. Il tratto del fiume si fa più stretto, dopo due ore di navigazione attracchiamo ad un alto pontile in legno, Pandok Tandui, una stazione di reinserimento e nutrizione degli oranghi. Stavolta ci sono altri klotok già ormeggiati, e per arrivare alla banchina bisogna necessariamente passare da una barca all'altra stando bene attenti a non cadere in acqua; ormai ci ho fatto pratica. Una volta sulla terra ferma percorro con Sukran, un breve sentiero fra la fitta vegetazione, fino ad arrivare al punto di osservazione, una piccola banchina di assi di legno dove degli uomini lasciano mazzi di banane mature e due recipienti in latta colmi di latte. Bastano pochi minuti ed ecco sentire il rumore delle foglie e dei rami che si muovono, un'orango femmina col suo piccolo aggrappato al ventre, li sta usando quasi come catapulte per spostarsi da un albero all'altro fino a ascendere sulla piattaforma: si guarda circospetta attorno, a pochi metri un gruppetto di strani animali bipedi, armati di strani cannocchiali, stanno osservando proprio lei, e fra questi ci sono io. È uno spettacolo osservarla mentre raccoglie più banane possibile con tutte le zampe libere e, tenendone persino un mazzo intero in bocca, prima di aggrapparsi nuovamente ai rami; ma è inevitabile che più della metà del bottino lo perda strada facendo. Passa di ramo in ramo proprio sopra le teste degli strani bipedi, lasciando dall'alto anche un ricordo liquido, a non più di un paio di metri da me. Poi arriva un altro orango, è ancora un'altra mamma con il suo cucciolo, davvero piccolo, con la peluria ancora tutta spettinata e due occhioni neri grandi che gli riempiono il volto; i piccoli stanno attaccati alle madri come delle sanguisuga, aggrappati ad essi in ogni buffo modo, e si staccano solo pochi secondi per immergere tutto il viso nelle ciotole piene di latte. Poi è tempo di tornare verso il klotok, mi aspetta l'ultimo e più famoso campo di osservazione del parco, Camp Leakey, creato dalla famosa ricercatrice Birute Galdikas dal 1971 quando vi si stabilì dando vita al più importante progetto al mondo di salvaguardia degli oranghi, tanto che oggi il Taniung Puting conta oltre 6000 esemplari, la più grande popolazione di oranghi allo stato selvaggio di tutto il pianeta. La navigazione prosegue lentamente sulle acque infestate dai coccodrilli, arrivo a contarne almeno tre, uno enorme che al passaggio del kotlok dalla riva si è letteralmente tuffato nascondendosi nelle buie e torbide acque. Il letto del fiume ora è molto stretto, il klotok ci passa appena, con le foglie delle piante che battono contro il tettuccio dell'imbarcazione. Arriviamo all'attracco del Leakey che ahimè è un luogo gettonato, ci sono già una decina di klotok, per fortuna con a bordo ciascuno non più di due persone. Prima di tutti, io e Sukran prendiamo il sentiero nella giungla: come ieri, per terra foglie e grovigli impressionanti di radici che fuoriescono dal terreno, tutto intorno alti fusti, tanto che è difficile vedere il cielo. All'improvviso un'inaspettata sorpresa: una mamma orango con il suo piccolo appeso al collo e con un altro giovane esemplare, sono proprio qui lungo il sentiero davanti a me. Non c'è nessun altro per ora, è ancora presto per il pasto degli oranghi, ci siamo solo io Sukran e i tre oranghi! Sukran è sorpreso, io emozionato: non sono mai stato così vicino ad un orango selvaggio, una bellissima sensazione; mi muovo molto lentamente, sono praticamente accanto alla mamma, seduto sopra ad un tronco; lei mi tiene d'occhio ma sembra fidarsi, mentre il piccolo allunga il suo braccino verso di me, tenendosi con l'altro stretto al collo della mamma. Mi siedo accanto a loro, poi lei si alza lentamente mettendosi il piccolo sul ventre e incamminandosi proprio lungo il sentiero: la seguo, vedendo le manine del piccolo spuntare sulla pelosa schiena della mamma. L'altro orango giovane è rimasto sugli alberi e ora anche la madre col piccolo risalgono arrampicandosi. Un incredibile, fortunoso, inaspettato ma soprattutto emozionante incontro ravvicinato nel bel mezzo della giungla! Dopo le iene in Etiopia ora gli oranghi in Indonesia, non potevo chiedere di più in questo mio viaggio nel Borneo. Prosegue il cammino lungo il sentiero e arrivo alla piattaforma di nutrizione, ancora deserta. C'è anche un macaco tra gli alberi, ha le movenze decisamente ginniche, salta nel vuoto aggrappandosi ai tronchi quasi fosse l'uomo ragno! Poco a poco arrivano gli altri turisti, non c'è nessun italiano ovviamente da queste parti: ecco le banane, ed ecco puntuali spuntare tra i rami i primi oranghi, ancora mamme con i piccoli,  una particolarmente vorace, conto 12 banane divorate in meno di un minuto! Sembrano quasi darsi il cambio gli oranghi, e al banchetto approfittano anche il macaco e uno scoiattolo che veloce prende la propria razione e fugge via. Gli oranghi no, loro a parte la mamma vorace, sono placidi e lenti, quasi volessero tutta la scena per loro.  Certo questo è un punto di avvistamento creato ad hoc, niente a che vedere con il precedente incontro lungo il sentiero, ma è pur sempre uno spettacolo. Le banane sono quasi finite, non pare arrivare più nessun altro orango dalla foresta, fine dello spettacolo. L'umidità oggi non lascia tregua, la mia maglia pare uno straccio umido per lavare i pavimenti; ripercorro a ritroso il sentiero, e proprio nel suo tratto finale, lungo la passerella di legno non distante dalla banchina, ecco la seconda inaspettata sorpresa: un esemplare di orango maschio, anziano e piuttosto grosso è proprio seduto qui, dando la schiena al sentiero, quasi a volerne impedire il passaggio. Con molta lentezza gli passo a fianco, è tranquillo e non sembra molto fare caso alla mia presenza. Ho modo di sedermici di fronte, ci osserviamo silenziosamente da vicino curiosi: gli occhi neri piccoli si perdono sul viso rugoso, il suo pelo rosso rame è bellissimo visto da vicino. Sembra avere lo sguardo triste o forse no chissà. Oggi alla fortuna non posso chiedere altro. Gli incontri più inaspettati ed emozionanti sono stati quelli fuori dalle piattaforme di osservazione, forse un dio dei viaggiatori per citare Cisco e la sua stupenda "ninna nanna", esiste davvero. Torno sul klotok, sudato e felice; la giovane cuoca ha preparato per merenda delle squisite frittelle di mele. Il klotok intanto riparte e ripercorriamo a ritroso un breve tratto del Sungay Sekonyer prima di attraccare per la notte in un punto dove stavolta altri con klotlok già ormeggiano, accanto ad un pontile in legno. Fa presto buio qua nella giungla, dopo cena c'è però tempo di scendere a terra, saltando quasi dalla barca, ad un altro pontile non certo sicuro, e  fare un breve trekking notturno lungo un sentiero scortato da un giovane del luogo munito di una torcia frontale e di un grosso machete legato in vita. I suoni della notte si fanno intensi, versi di grilli, cicale, uccelli che si accavallano l' uno sul altro; illuminati dal fascio di luce della torcia scopriamo un paio di piccole rane bianche arrampicate ai tronchi, uno strano e grosso verme viscido con le zampe, e in ultimo una tarantola mezza nascosta nella sua tana scavata nel terreno. Questa intensa giornata ricca di inaspettati ed indimenticabili incontri, volge al suo epilogo. Torno così nel mio bunker zanzariera, per quest'ultima notte galleggiante sulle acque del placido Sungai Sekonyer nel cuore della giungla del Borneo, cullato dai numerosi e magici suoni della natura.


8 ottobre


Anche stamattina alle prime luci dell'alba la ricca e fitta vegetazione del Tamjung Puting è avvolta in una leggera foschia che rende il paesaggio spettrale ed affascinante al tempo stesso. Sono da poco passate le 7.40, quando Alì riaccende il rumoroso motore del klotok e si riparte lungo quello che in questo tratto, più che un fiume, sembra uno stretto canale. Me ne sto seduto a prua, sulla punta azzurra della barca a godermi la navigazione; la leggera nebbia si sta diradando, permettendo ad un pallido sole di accendere, illuminandola, la vegetazione, con tutte le sue tonalità di verde. Un gruppo di scimmie nasiche se ne sta sui rami che propendono proprio sopra il fiume, tanto che al passaggio del klotok, una alla volta, si lanciano a volo d'angelo verso gli alberi della sponda opposta, ma la distanza è troppa pure per le loro notevoli capacità di salto, e tutte, compresa una mamma con il grembo un piccolo, finiscono nelle acque del Sungay Sekonyer prima di riacciuffare la terra ferma e riarrampicarsi nuovamente sugli alberi; è andata bene perché i coccodrilli sono sempre in agguato, tanto che solo poche miglia più avanti ne avvisto uno per pochi secondi prima che scompaia nelle acque. Osservo e penso... Quei momenti in cui la mente si libera dai pensieri spesso inutili e nocivi a cui la nostra drogata cultura consumistica occidentale ci abitua; in viaggio della mente si apre, si apre a delle piccole e grandi cose, ci si sente più leggeri e felici. Il klotok attracca ad una banchina in legno: Pasalat, dove parte una lunga passerella di malandate assi di legno che arriva ad una costruzione dell' Orangun Foundation International: siamo io e Sukran, qui un signore del posto ci scorta per un breve sentiero all'interno della giungla, anzi in realtà il sentiero non c'è, lo crea lui facendosi largo fra rami e fogliame con il suo grosso macete. Vegetazione fitta, enormi tronchi che qui chiamano Iron Three, bambù, canne da zucchero e gli alti alberi dal fusto stretto e i rami flessibili che tanto amano gli oranghi, un grande termitaio ed infine, quasi a volerli salutare in quest'ultimo trekking, un orango, un grosso maschio che avvisto a poca distanza, in alto tra i rami, dopo aver udito nel silenzio l'inconfondibile rumore di foglie mosse dalla grande animale nel suo spostamento. Anche oggi è molto umido, a camminare sotto il sole si fa fatica, ma non manca ormai molto al rientro a Kumai. Torno al klotok, si riparte e dopo poco, ultimo attracco alla banchina nell'unico villaggio autoctono all'interno della vasta area del Tanjiung Puting: il Sekonyer Village. Poco più in là del fiume, una serie di case in legno, alcune con tetti in paglia, altre in lamiera, sono disposti ai lati di un rivolo d'acqua stagnante, quasi fangoso, dove alcuni bambini stanno perfino giocando. Colorati panni stesi un po' ovunque ad asciugare, qualche gallina e un paio di galli, delle cisterne arancioni per l'acqua potabile, qualche parabola e poco più. Villaggio semplice, abitato da povera ma dignitosa gente. Torno alla banchina dove una grande statua di orango fiancheggia un piccolo negozio di souvenir, l'unico incontrato in questa mia permanenza nel Borneo, ma che è chiuso con tanto di lucchetto, peccato. La lenta navigazione riprende, il corso del fiume si fa sempre più ampio, e dopo un altro paio d'ore arriviamo ad avvistare in mare aperto le prime costruzioni di Kumai: ci siamo, ancora pochi minuti e il klotok si avvia verso il molo, tra imbarcazioni mercantili piuttosto fatiscenti e qualche altro klotok ormeggiato, al quale ci affianchiamo, leghiamo con le spesse corde il nostro, e via per l'ultimo passaggio tra un klotok e l'altro, fino a quella che dovrebbe essere una banchina. Navigazione terminata, un'esperienza unica ed incredibile, difficile per alcuni versi ma ricca di emozioni indimenticabili che porterò sempre con me. Stanco e un pò triste per la fine di questa esperienza da esploratore. Rieccomi nella piccola Kumai nel Majid Hotel, finalmente pronto per una agognata doccia, che come nella più classica delle commedie, cessa di emettere acqua non appena finisco di insaponarmi... In qualche modo si fa! Ora sono pronto per esplorare un po' il paese di Kumai, che di fatto è tutto disposto su un'unica via che costeggia il porto, con piccole abitazioni in legno e lamiera, e un via vai di motorette guidate a volte anche da giovani adolescenti, non certo per moda quanto per necessità, essendo questo l'unico modo di trasporto! Cammino da solo ai bordi della polverosa strada priva di un marciapiede, tra piccoli banchi di cibo da strada, che però è difficile da riconoscere: quasi nessuna scritta in inglese, zero turisti stranieri qui tanto che attiro l'attenzione e la curiosità di molti che mi salutano con il classico "hello ", mentre dei bambini divertiti giocano a darmi il cinque con la mano quando passo! Non credevo fosse così border line, mi sa che la maggior parte dei pochi stranieri che arrivano fino a qui lo fanno giusto e solo per imbarcarsi direttamente sui klotok. Mi piace però questa sensazione di essere straniero, perfino qualche adulto mi chiede di fargli una foto, così, senza una ragione apparente. Oltre ai rumorosi motorini nell'aria si sente forte il cinguettio di migliaia di uccellini: Kumai è famosa nella regione per i nidi di uccelli, che scopro solo ora dallo svolazzare nel cielo, essere quelle strane costruzioni di cemento grigio simili a case prive di finestre ma con tanti piccoli fori nelle pareti. Per strada, oltre alle bustine monodose di bevande liofilizzate di qualsiasi gusto e colore, qualcuno vende delle pietre tenute in piccole bacinelle di acqua, dei minerali dall'aspetto però non molto attraente, altri invece vendono frutta fresca; cerco un posto dove mangiare, o meglio dove almeno capire che cosa si possa mangiare; scelgo un ristorante ricavato da uno spazio coperto da tetti di lamiera sorretti da piccoli tronchi di legno, con appesi alle pareti laterali dei teli di plastica raffiguranti uno degli oranghi e due la Torre Eiffel di Parigi! Al centro quattro lunghi tavoli con sedie di plastica azzurra. La sorridente proprietaria, avvolta nel suo sarong colorato e fiorito, fatica a capire l'inglese, per fortuna come insegna, il locale ha un telo di plastica con le immagini di piatti, quasi tutte fritture: le indico quello che mi appare il più commestibile, un nasi goreng biada: riso fritto un po' piccante con pezzi di pollo e una frittata stesa sopra. Mangio a sazietà, costo 16000 rupie indonesiane, meno di un euro, amo l'Asia anche per questo. Arriva sera, il muezzin richiama i fedeli alla preghiera nella piccola moschea, mentre si accendono le semplici lampadine dei muscoli chioschi di vetro che vendono cibo. Dovrebbe essere la mia ultima notte qua nel Kalimantan o Borneo che dir si voglia. Già, dovrebbe, perché un sms poco prima di stendermi a letto, mi avvisa che il mio volo di domani per Samarang è stato cancellato... Ed ora?


9 ottobre


Il volo cancellato all'ultimo momento non mi era mai ancora capitato, questo mi costringe a cambiare i programmi, per fortuna al piccolo ufficio della Trigana Air, posto appena fuori l'entrata del piccolo aeroporto Pangkalan Bun, riesco a cambiare destinazione con partenza oggi stesso, ma alle 14.00 anziché le 10.00, e non più con destinazione Samarang, ma Surabaya, enorme metropoli sulla costa orientale dell'isola di Giava e ben più distante da quella che sarebbe la mia meta finale ovvero Yoyakarta. Temo che sarà complicato arrivarci entro notte, da Surabaya leggo sulla Lonely Planet ci dovrebbero essere quattro treni al giorno, cinque ore di viaggio, e diversi bus, nove ore. Fermarsi per la notte a Surabaya invece avrebbe poco senso trattandosi di una caotica e poco attraente metropoli, vediamo volo facendo... Intanto la prima attesa di quella che si preannuncia come una lunga giornata di trasferimenti, la passo seduto sul gradino di un marciapiede, unico straniero in mezzo a tanti locali anch'essi in attesa; infatti entrare nel piccolo aeroporto non è consentito prima dell'orario del check in, mancano più di quattro ore alla partenza; nel frattempo sembra aumentare la coltre di fumo che ricopre il cielo, brutto segnale... Passano le ore, due e mezza fuori a guardare nel vuoto, poi altre due dopo il veloce check in nella gremita ma piccola sala d'attesa per l'imbarco a guardare fuori la pista desolatamente vuota. Con un'altra ora e mezza di ritardo, finalmente atterra proveniente dalla capitale Jakarta il piccolo e vecchio Boeing della Trigana Air; il tempo di scaricare i nuovi arrivati, poi attraverso a piedi la pista e salgo sull'aereo, si parte! Ore 16.25, stavolta in meno tempo del previsto, l'atterraggio nel grande e moderno aeroporto di Surabaya; si intuisce subito che non sono più in Kalimantan. E ancora di più è chiaro quando in taxi lascio l'aeroporto per rimettermi in una moderna autostrada prima di entrare in città; sono diretto alla stazione dei treni, che da quanto intuisco dal tempo di percorrenza del taxi già pagato, pare essere da tutt'altra parte rispetto all'aeroporto. Già, perché il tassista continua a dirmi "yen" and "godo" ad ogni domanda in inglese che gli pongo. Il traffico di Surabaya strada facendo diventa sempre più caotico ed infernale: migliaia di auto ma soprattutto di motorini, sono tantissimi! Ai semafori rossi si raggruppano tutti davanti alle auto, sembrano degli eserciti su due ruote, quasi tutti col casco qui, è impressionante la quantità, scene così me le ricordavo solo ad Hanoi in Vietnam. Intanto il tempo passa... Dopo la bellezza di due ore e mezza di code ed ingorghi, ecco la stazione, moderna quanto l'aeroporto: vado alla biglietteria ma il giovane addetto mi lascia di ghiaccio: "full"! Non ci sono più posti ne per questa notte ne per domani! A questo punto non mi resta che l'ultima speranza, quella degli autobus che avrei volentieri evitato per le troppe ore di viaggio. Altra corsa in taxi, altre code infernali... Ci metto un'altra ora, ormai è buio, quando arrivo alla enorme e confusionaria stazione degli autobus; ce n'è uno in partenza per Yoyakarta e c'è un posto, evviva. Poi no, si scusa l'autista che già mi stava caricando lo zaino; voglio morire! Poi mentre fa per ripartire, l'uomo che sta raccogliendo le 100 rupie dai passeggeri si ravvede, un posto c'è, così finalmente salgo su a bordo, unico straniero, ultima fila, per rimettermi nuova mente nel mega traffico di Surabaya, tra enormi e sovraffollati centri commerciali e carretti sgangherati che vendono cibo da strada, gettonatissimi a quanto pare dalla gente del posto. Lunga, lunghissima giornata di attesa e spostamenti, i pantaloni e le mie chiappe sono ormai un tutt'uno, il viaggio dovrebbe durare tra le sette e le otto ore, arriverò in piena notte e dovrò superare l'ultimo ostacolo, ovvero la ricerca di un posto dove dormire. Sì, sarà una lunga notte...


10 ottobre


Sono quasi le 3.00 del mattino, mezzo stordito sono sceso dall'autobus lungo una strada deserta o quasi, e senza neanche rendermene conto mi ritrovo munito di casco su una moto taxi che mi sta portando all'indirizzo indicatogli. Mi lascia all'entrata di uno stretto e deserto vicolo (gong), che percorro a piedi zaino in spalla fino al all' Andrea guesthouse, ma come un pugno nello stomaco fuori c'è appeso un cartello in legno: "full"! Full, full, full, tutte le guesthouse all'apparenza più belle situate l'una accanto all'altra nel piccolo gong sono già piene, ma ho bisogno di un letto, e mi ritrovo sempre nello stesso vicolo nel posto peggiore dove potevo capitare, l'unico libero, ovvero una sporca camera trasandata e maleodorante, il giusto epilogo di questa interminabile giornata.

Ho dormito giusto qualche ora, ma adesso la prima missione, con la luce del giorno, è assolutamente quella di trovare una nuova sistemazione per la prossima notte, e per dirlo io che in viaggio mi adatto a tutto… Il gong 1, lo strettissimo vicolo nel quale si fa perfino fatica a passare in due, molto carino , mi piace, tra le insegne e il patio delle guesthouse, c'è qualche lavanderia e una piccola moschea semi nascosta. All'entrata del veicolo c' è una piccolissima scatola di lamiera dentro alla quale un'anziana signora dai capelli bianchi vende cicche sfuse e sigarette. Trovo in poco tempo, nascosta tra i vicoli, il Setia Kawan, un piccolo Losmenn, ovvero una guesthouse locale arredata davvero con gusto, alla quale si accede da una strettoia ornata di piante e un paio di fontanelle che creano un ambiente molto zen; finalmente ho una camera come si deve, e chè camera: piccola ma essenziale, ovvero un letto con le lenzuola pulite e uno stretto bagno con doccia, ma il pezzo forte sono le pareti dipinte con bellissimi murales in tonalità di azzurro, realizzati da un vero artista Hippy; anche gli spazi comuni di questa bella struttura tradizionale sono dipinti con gusto, è proprio bella. Ora posso finalmente dedicarmi alla scoperta di Yoyakarta! Sono a pochi passi dalla sua via più frequentata, Jl Malioboro, una lunga via che ben raffigura la città: al centro la strada invasa dai motorini, anche qui in quantità impensabili, guidati da gente di ogni età, con su una, due, tre ma anche quattro persone, e a volte bambini tenuti in bilico come fossero bambolotti. Ma ancor più impressionante è la quantità dei motorini parcheggiati lungo i marciapiedi. All'inizio della via tanti piccoli e semplici chioschi di Street food, che vendono cibo cotto e fritto al momento, con pasti che non raggiungono neanche le 8000 rupie indonesiane, € 0,50 di euro! Poi quello che già in parte immaginavo, ma che ogni volta delle città asiatiche mi stupisce: i marciapiedi coperti dai portici sono un immenso ed infinito susseguirsi di bancarelle che vendono di tutto, dalle magliette alle infradito, dagli oggetti in legno ai dolci locali, merce, merce, merce in quantità industriali e a prezzi bassissimi, merce tipica, che da noi avrebbe prezzi deduplicati! Un vero paradiso per lo shopping! Ma prima il dovere, così mi avvio alla vicina stazione dei treni, bella e moderna, dove una gentile addetto alla biglietteria, coperta in capo da un sarong celeste come divisa, mi fa il biglietto di ritorno per Jakarta di settimana prossima. Ed ora eccomi qua in questo inferno o paradiso dantesco dello shopping. Si cammina a fatica nello stretto passaggio fra le due file di banchi intervallati dai negozi, alcuni molto grandi, che vendono anche essi le stesse merci, con la differenza dell'aria condizionata che fa da toccasana visto l'eccessiva umidità amplificata dalla quantità di gente in spazi piccoli. Jl Malioboro è un po' la Kaos San Road di Bangkok, un piccolo mondo, tra cibo da strada e merci di ogni tipo, e gente, tanta gente. C'è perfino chi dorme sdraiato per terra sopra la sua merce esposta, chi mangia o armeggia col cellulare seduto sul non certo pulito asfalto; ci sono diversi giovani che, nonostante il passaggio sia stretto, si muovono suonando la chitarra e cantando mentre chiedono l'elemosina, e altrettanto purtroppo fanno anche diversi anziani e qualche non vedente. Ci sono i venditori di sigarette che camminano con la loro cassetta di legno a tracolla, c'è chi vende, portandoli su un vassoio, bicchieri di tè con ghiaccio che mi domando quanto possa durare prima di sciogliersi; c'è chi ti ferma con la scusa di chiederti di dove sei, con l'intento invece di portarti a vedere il suo laboratorio di Batik; e ancora in tanti, tantissimi guidatori di vecchi arrugginiti risciò a pedali, con la poltrona sgualcita davanti, tipici di questo angolo di mondo, che aspettano i clienti dormendo sui loro stessi tricicli, le altrettanto vecchie carrozze trainate da cavalli; perfino chi, con il tasso di umidità al 100%, chiede un'offerta per una foto ricordo travestito con pelosi e voluminosi costumi di personaggi come Minnie o Hello Kitty: tutto questo e altro lo si può trovare in un'unica strada. Mi ritrovo quasi per caso all'entrata del vecchio mercato della città, Pasar Beringharjo, ricavato in una vecchia struttura di cemento a tre piani e colmo di banchi che vendono quantità anche qui industriale di Batik in ogni forma e colore! Il mercato è enorme, un labirinto in cui mi perdo più volte, passando dal buio settore dedicato alla vendita di frutta e verdura a quello delle spezie locali. Molto suggestivo, anche se in alcuni passaggi la combinazione ressa più umidità può risultare letale! Esco e ripercorro verso nord Malioboro fino a spostarmi ad est, uscendo dalla zona turistica in cerca di un negozio di cui avevo trovato l'indirizzo via web dall'Italia: Dluwang Newspaper Art, in Ledok Tukanganshi 2/257. Così, senza saperlo prima, mi trovo in un tranquillo e silenzioso quartiere di stretti vicoli, con basse case, ciascuna con la porta aperta e le infradito lasciate fuori sull'ingresso. Il quartiere, privo di auto e frenesia, costeggia il corso di un fiume ridotto ad una stagnante discarica, e sopra di esso svettano giganteschi ed altri cartelloni pubblicitari visibili dalla strada che vi passa una trentina di metri sopra. È impossibile orientarsi, infatti mi perdo, chiedo la strada ad alcuni passanti, e alla fine trovo quello che in realtà non è un vero negozio, ma più una casa/laboratorio con in vendita articoli fatti con carta riciclata di giornali: dalle infradito per donna, molto belle ed originali, ai porta penne, fino anche a modellini di risciò e biciclette, tutto molto particolare! Le due giovani ragazze quando mi affaccio alla porta lasciata aperta hanno un moto di stupore; stavano mangiando sedute in terra, scalze. Mi mostrano la poca merce da un cesto, buttata lì un po' alla rinfusa, in un angolo buio della stanza; trovo quello che cercavo, e a questo punto ancora con quella risata mista a stupore, una delle due ragazze, l'unica che sa un po' di inglese, mi domanda come ho fatto a sapere di loro: lunga e casuale storia, potere di Google immagini e di una foto postata su Flickr. Sono orgogliose e mi chiedono di potermi fare delle foto con i loro cellulari, e la loro merce in mano! Sono diventato un testimonial, che ridere. Saluto le due giovani, e vago ancora un po', unico straniero, per questi vicoli autentici, tanto che le poche persone che incrocio mi guardano con curiosità e sorrisi. Passa una bicicletta con uno scatolone di legno in sella e un ragazzo che suona il campanello: l'omino dei gelati! In un attimo gli si raggruppano attorno dei bambini di diverse età; e i bambini sono sempre quelli senza filtri, la loro curiosità non si ferma ad uno sguardo nascosto, ma, vedendomi, attorniano anche me riempiendomi di "hello" e di imperfetti "what' s your name?". Esce da una delle case una ragazzina un po' paffutella, e mi chiede se si può fare una foto insieme a me col suo telefonino, è tutta felice, neanche fossi una celebrità! Bello, genuina e simpatica questa parentesi fuori da quelli che in teoria sono le zone frequentate dagli stranieri che passano di qua, mi sa che ci ritornerò. Sta scendendo la sera, il traffico di motorini e auto aumenta, molti indossano oltre al casco anche le mascherine antismog, e attraversare le strade diventa complicato, ma in questo ho un buon allenamento alle spalle. Malioboro accende le sue tante luci soprattutto quelle delle lampadine degli improvvisati ristorantini di cibo da strada. Ma stasera vista la nottata trascorsa, sono davvero stanco e mi rifugio in un meno tipico ma più semplice ristorante all'interno del centro commerciale a tre piani Malioboro Mall: da queste parti passare dai tradizionali wutong ai moderni centri commerciali dotati di aria condizionata, è questione di pochi metri.


11 ottobre


Anche al mattino gli stretti portici di Malioboro sono pieni di vita, oltre che di merci. Qualcuno sistema le proprie bancarelle, alcune delle quali sono ancora coperte da semplici teli di plastica o Batik appoggiati sui prodotti, qualcuno seduto per terra o sui piccoli sgabelli fa colazione mangiando riso o zuppa. Il cibo qui viene cucinato e venduto a tutte le ore, alcune donne già abbrustoliscono piccoli spiedini di carne su mini griglie grandi quanto una scatola di scarpe. Anche i negozi stanno aprendo, in un paio di grandi magazzini di abbigliamento ci sono dei tizi che intrattengono i clienti parlando al microfono mentre girano tra le corsie, tutto molto buffo. Mi faccio tutto Malioboro fino in fondo, fino alle statue dei tre elefanti bianchi imbrattate dai writers: sono diretto al Kroton, il Palazzo del Sultano, ma resto bloccato al passaggio di un corteo, una manifestazione islamica a giudicare dalle bandiere che sventolano, tante della Palestina e di Al Fatah. Sono tantissimi, sfilano e sfilano, sembrano non finire mai. L'imponente corteo è assolutamente pacifico, vengono scanditi slogan per me incomprensibili, sembra si stia concentrando in uno spiazzo proprio di fronte al Kroton. Non vedo nessun altro occidentale, meglio non rischiare troppo più che altro perché il numero di persone aumenta, e comincio a vedere magliette e striscioni con simbologie non proprio pacifiche. Torno così sui miei passi verso Malioboro, osservando lo scorrere della vita locale. Oggi il sole è forte e l'umidità è soffocante, così quando torno verso il Kroton, a manifestazione conclusa, scopro che questi è chiuso e decido allora di farmi portare verso Tamon Sari in becco, ovvero i vecchi risciò a tre ruote. Il Taman Sari un tempo costituiva il luogo di piacere del sultano, oggi rimane un piccolo e trascurato complesso di palazzine in calce bianca con quelle che una volta erano due vasche adibite a piscina, solo una ora è riempita di acqua. Nulla di trascendentale. Esco e vado nei vicoli circostanti, lontano dalla folla e dai mercati; seguendo le indicazioni su piccoli cartelli mi dirigo fino ad un locale all'aperto ubicato in una tranquilla posizione, con quattro tavoli di legno riparate dal sole da ombrelloni colorati, una piccola oasi di pace gestita da gentili giovani del posto, che vende anche te è caffè di Bali. Ci voleva. Una giornata senza una meta predefinita quella di oggi, fatta di passeggiate, di osservazioni, foto e shopping. Slow Travel, per assaporare meglio il luogo. Sempre in becok (ormai visto il costo ci ho preso gusto) torno a Malioboro, e da qui a piedi provo a tornare nei vicoli accanto al fiume in secca dove ieri ho assaporato la genuinità della gente, anche per tornare Dluwang News Paper Art, ma stavolta la porta della casa è chiusa, le infradito sono fuori all'uscio ma non c'è nessuno, peccato, ci ritornerò. Si fa buio, Malioboro si illumina come ieri, moto e motorini continuano a circolare incessantemente, io trovo quiete e cibo per la sera in un ristorante dai tavoli all'aperto di una tranquilla e semi buia via laterale.


12 ottobre


Sono arrivato in becok, stavolta però a motore e non a pedali, fino alla lontana stazione dei bus di Jobur, attraversando il consueto traffico di motorini e auto di Yoyakarta. Qui salgo su di un vecchio minibus mezzo arrugginito, diretto a Borobudur: a bordo c'è solo qualche locale e due uomini che dalle due porte aperte durante tutta la corsa, fanno salire e scendere a richiesta i passeggeri quasi in corsa. Un'ora scarsa di viaggio ed eccomi nel piccolo villaggio Borobudur, famoso in tutto il mondo per il suo omonimo tempio buddista. Trovo posto per la notte alla Lotus II guesthouse, una casa tradizionale indonesiana su due piani, gestita da giovani ragazzi che parlano perfettamente inglese; la mia camera, semplice, semibuia, quasi una reggia, grandissima, con entrata, un bagno con ingresso simile ad una porta ad arco arabo e una vasca ricavata dal cemento grezzo; una spaziosa camera con due letti matrimoniali a baldacchino, dotati di zanzariere, il soffitto altissimo di sottotetto di tek, delle statue di elefanti e una grande panca di legno! Tutta per me, con la terrazza fuori dalla porta che affaccia su delle piccole risaie; forse la sistemazione più spaziosa che ricordi nei miei viaggi; dividerò tutto questo spazio con un paio di gechi appesi alle spoglie pareti. Pianifico il da farsi in queste due giornate: dedicherò la giornata di domani al Tempio di Borobudur mentre oggi esplorerò un po' i dintorni a piedi, spingendomi per un paio di chilometri a bordo strada verso il monastero di Mendut. Si respira una certa tranquillità, qui ci sono pochi motorini, poche e semplici case e qualche spennacchiata gallina tra la polvere; arrivo al monastero, l'entrata è libera in quello che è un giardino tra alte piante di bambù, un paio di sale di preghiera tra diverse statue del Buddha, tra cui due sdraiato. C'è anche una piccola scuola di monaci: tre di loro, giovanissimi e con il tipico saio arancione, stanno passando di lì, uno si ferma a scambiare quattro chiacchere in un buon inglese con me, siamo le uniche presenze in questo momento all'interno di questo luogo di tranquillità e pace, con i sonagli appesi ai tetti delle strutture che, mossi da un leggero venticello, regalano un tocco musicale a questa pace. Esco, a pochi passi c'è il tempio di Mendut, una grande piramide in pietra resa scura dal tempo, che al suo buio interno contiene tre grandi statue: quella centrale è una raffigurazione del Buddha alta 3 m e nella insolita, per la tradizione buddista, posa seduta all'occidentale, con i piedi appoggiati in terra. L'atmosfera di quiete e pace si interrompe bruscamente quando, appena uscito dal tempio, attraverso una breve fila di bancarelle di souvenir, coi venditori, perecchio insistenti, che mi si appiccicano come api al miele! Una volta liberatomi di loro (diciamo che è finita in parità), mi incamminò nuovamente compiendo l'intero tratto a piedi fino alla Lotus II guesthouse, e con questa umidità non è cosa semplice. Tra galline e qualche motorino che passa salutandomi, arrivo a destinazione. Scende la seria, fa buio presto; mi aspettavo di trovare qualche ristorante all'occidentale, ma evidentemente il grosso dei turisti che visita Borobudur, lo fa con un'escursione in giornata da Yoyakarta, così la cena di stasera, diventa un pollo fritto con riso, mangiato (ebbene sì, anche il riso) con le mani per l'assenza di posate, all'indonesiana. Ora torno verso la mia reggia, mi aspetta una notte in compagnia dei geki.


13 ottobre


È stata una notte semi insonne per un'inaspettata visita notturna… Sono in una grande casa di campagna, e ci può stare anche di avere come ospite… un topo! Ma che nottata di ansia! Fuori è ancora buio, sono le 04.45 del mattino quando in sella al motorino guidato da uno dei giovanissimi ragazzi della Lotus II raggiungo la collina di Setumbu, per ammirare da qui l'alba su Borobudur; non sono il solo, la cima della collina, delimitata da una staccionata di legno alla quale arrivo dopo una breve sentiero a piedi in salita, è già gremita di gente, tutti pronti ad immortalare il sorgere del sole. Lunga attesa alla ricerca del punto fotografico perfetto. Lentamente il cielo si schiarisce e dalla penombra appare sempre più nitida all'orizzonte la grande palla infuocata, ma la lieve foschia che avvolge la fitta vegetazione non scompare del tutto, lasciando velato e ancora nascosto il grande monumento buddista. Peccato, anche se veder sorgere il sole è sempre e comunque un bello spettacolo. Scendo il breve sentiero fino al punto dove sono parcheggiati i vari motorini saliti fin quassù, e mi faccio lasciare all'ingresso del tempio stesso; è arrivato il momento di scoprirlo. Attraverso, dopo aver fatto il biglietto (con in omaggio vista l'ora, una tazza di tè), il grande ed ordinato parco che lo circonda, fino ad arrivare alla scalinata di questo enorme mandala di pietra risalente a più di 1200 anni fa: 2 milioni di grossi blocchi di pietra che formano una grande base quadrata di 118 m per lato, che sale a piramide formando sette alte terrazze, le prime quattro quadrate, con una stretti corridoi arricchiti da pregevoli bassorilievi raffiguranti scene di vita terrestre, oltre a diverse statue del Buddha seduto; le ultime tre invece circolari, con ampie terrazze dove al posto delle mura ci sono dei grandi stupa di pietra a graticcio contenenti ciascuno una statua del Buddha. L'ultimo anello, uno stupra centrale, rappresenta nella simbologia buddista il Nirvana. Percorro lentamente in senso orario i vari strati dell'imponente monumento in pietra scura, segnata dal tempo, ammirandone e fotografando i corridoi ricchi decorazioni. Per fortuna a quest' ora, sono appena le 6 del mattino, non c'è ancora tanta gente, cosicché posso ammirare il tempio con la pace che merita. Salgo fino alla terrazza superiore dove mi siedo ad osservare da qui accanto ad uno stupa, il verde paesaggio circostante, fatto di colline ricoperte da una fitta e ricca vegetazione. A differenza del più grande antico monumento buddista di Angkor in Cambogia, Borobudur è un unico tempio, un unico blocco che quindi non richiede giorni di visita, così dopo più di due ore che sono qui, comincio a ridiscenderlo, anche perché nel frattempo sta entrando un fiume di gente, comprese intere scolaresche locali, che, forse perché arrivando da zone non turistiche del paese, sono quasi più incuriosite dalla presenza degli occidentali, a tal punto che, non solo a me, capita più volte di sentirsi fare la richiesta di una foto di gruppo insieme a loro, buffo. Ormai però con tutto questo vociare si è persa in parte la magia del luogo. Lentamente esco e torno verso la guesthouse, ormai è ora di una provvidenziale colazione in terrazza. Nel frattempo la stanza, che non ho potuto cambiare in quanto anche l'altra disponibile è stata occupata, è stata rigorosamente "perlustrata". Pensavo mi richiedesse più tempo la visita del sito, così ho un intero pomeriggio da consumare prima che arrivi la sera, ho tempo per scrivere e provare a riposare. Il paese di Borobudur in sé non ha granché da offrire, tempio a parte, così torno verso le bancarelle di souvenir appena fuori dal parco che circonda il tempio, dove ci sono una serie di piccoli ristoranti con giusto un paio di tavoli all'aperto, uno attaccato all'altro; in uno di questi mi siedo a bere un tè freddo al gusto frutto della passione, squisito; sono in compagnia di un paio di galline spelacchiate che gironzolano fra le tavolate. Arriva la sera, l'ora della scelta del luogo dove cenare; ripercorro la buia strada illuminata solo dai fari di auto e motorini che continuano senza soluzioni di sosta a circolare, camminando a bordo della stessa, sullo sterrato che nelle intenzioni, almeno credo, dovrebbe essere un marciapiede. Anche qui come a Kumai nel Borneo, si vende benzina in impolverate bottiglie a bordo strada, tra i numerosi chioschi che cucinano e grigliano cibo. Mi fermo in uno di questi, unico cliente seduto sulla panca di un piccolo ristorante, con appesi alle pareti quadri raffiguranti La Mecca, mentre di fronte la cucina vista che affaccia sulla strada, con i grossi pentoloni arrugginiti, un vecchio ventilatore e un lavandino con specchio per il lavaggio delle mani. Nasi Goreng Ayam, ovvero riso fritto con pollo, porzione abbondante, costo un euro. Il Muezzin fa l'ultimo richiamo alla preghiera, la sua voce diffusa dagli altoparlanti della moschea, si mescola ai rumori delle giostrine anni 40 poste lungo la via. Che strano, Borobudur uno dei più importanti siti buddisti in quello che per abitanti è il più grande paese musulmano al mondo. Stranezze di questo nostro bel pianeta.


14 ottobre


Stanotte per fortuna nessun inaspettato incontro; accompagnato in motorino da uno dei due giovani ragazzi della guesthouse, sono di prima mattina al polveroso spiazzo circondato da ristoranti con panche e tavoli in legno coperti da grossi teli di plastica come tettoia. Da qui è in partenza un piccolo e vecchio bus diretto a Yoyakarta. Porte aperte e un uomo che invita la gente a salire lungo alcuni punti della strada; sale anche una vecchina, foulard in testa, minuta, che sembra essere uscita da un cartone animato giapponese di Myazaki: porta con sé una borsa in plastica contenente tre tacchini vivi! A bordo poca altra gente, tutti locali, comprese due giovani ragazze che salgono suonando una piccola chitarra e cantando per racimolare qualche rupia. Scendo alla stazione di Jambor e stavolta proprio su suggerimento delle due giovani scese anch' esse, prendo l'autobus urbano 2A che per sole 3600 rupie mi riconduce in Malioboro. Torno alla Losmen Setain guesthouse, stavolta la camera che mi assegnano, la 05, stesse tonalità blu alle pareti ma dipinti diversi, con lune che si fondono con soli, corpi di donna con radici e gli immancabili gechi dipinti al soffitto. Lunga e provvidenziale doccia fredda e sono di nuovo in strada. Ormai ho preso confidenza con la città, mi nuovo meglio e questa è la giornata per me dei trasporti urbani: in Malioboro salgo sulla piattaforma a lato strada che funge da fermata degli autobus, dove una addetta mi fa il biglietto (costo fisso 3600 rupie) e mi invita a passare dall'unico tornello in attesa del mezzo; piccoli bus gialli e verdi della compagnia Trans Jogja, un po' vecchi ma dotati di aria condizionata. Salgo sul' 1A, che in poco meno di un'ora, passando anche dal locale aeroporto, arriva al capolinea nella località di Prambanan, dove sono diretto. Dalla stazione dei bus percorro qualche centinaia di metri fino all'ingresso di un grande e ben curato parco, all'interno del quale sono custoditi i resti di un antico tempio indù, il tempio di Prambanan. Faccio il biglietto, mi dotano anche di un sarong blu da usare legato alla vita, a mo' di gonna; così conciato mi dirigo al sito storico: si tratta di otto grandi torri a piramide costruite in pietra ormai scurita dal tempo, in stile indù, risalenti al VIII secolo. Sono disposte una accanto all'altra, salgo gli alti gradini di ognuna, tra bassorilievi di divinità indù come Shiva; le torri più grandi conservano al loro buio il piccolo interno delle statue, compresa una di Ganesh, la divinità con il corpo di uomo e la testa di elefante. Anche oggi fa caldo seppure il sole venga di tanto in tanto oscurato da qualche nuvola di passaggio. Attorno allo spiazzo di terra dove sono posati i templi, restano ancora ammassati grossi blocchi di pietra a testimonianza del violento terremoto del 2006. Esco, attraverso il grande parco ritrovandomi poco oltre in un mercato al coperto fatto di bancarelle di souvenir, e le panche dove consumare il pasto. Qui le venditrici fanno a gara per accaparrarsi i clienti, mostrando loro le bibite fresche contenute in piccoli frigoriferi a vista. Mi fermo a mangiare in uno di questi muscoli ristoranti e provo uno dei piatti tipici locali, il bakso, una zuppa di noodles e verdure con delle gommose polpette di carne bianca, il tutto per 8000 rupie, € 0,50 di euro! Lentamente me ne torno poi alla stazione dei bus urbani, riprendendo l' 1A, stavolta più affollato rispetto all'andata, soprattutto di giovani che escono dalle scuole; è curioso osservare il loro abbigliamento, molte ragazze indossano i colorati veli di tradizione islamica, alcuni hanno felpe e perfino leggeri pullover, essendo qui per loro stagione fredda, mentre io faccio fatica a non sudare per l'alta umidità; quasi tutti però indossano infradito ai piedi, buffo vedere alcuni uomini vestiti bene ma in ciabatte! Rieccomi a Yoyakarta: faccio prima un'ultima tappa nel quartiere al di la del fiume al quale mi sono affezionato, dove i bambini mi accolgono salutandomi dandomi il cinque con la mano e gli adulti con sguardi e sorrisi, per poi tornare nell'infinito mercato di bancarelle lungo l'illuminata Malioboro, tra motorini parcheggiati, Street food, carrozze con cavalli e bekoc che attendono clienti; c'è una leggera musica quasi ipnotica diffusa da piccoli altoparlanti lungo la via, che mi fa cogliere da un irrefrenabile raptus di shopping compulsivo...


15 ottobre


Con l'autobus 2A sono arrivato nella parte sud della città, ad un angolo di strada dove da qui a poco dovrebbe passare l'autobus per Parantritis, piccola località sulla costa meridionale dell'isola di Giava. Eccolo, è un minibus colore verde, piccolo ed arrugginito, con appesi al vetro anteriore adesivi di manga giapponesi. A bordo solo io ed un'anziana donna carica di tre grossi sacchi di iuta. Lungo il tragitto non sale nessun altro, l'anziana prima conta un mazzetto di rupie, poi si addormenta; fuori dal finestrino il paesaggio mi regala a tratti scorci di verdi risaie e poche case, poi l'anziana, svegliata dall'autista, scende, e continuo da solo fino alla destinazione finale di Parantritis. Qui scendo e mi ritrovo sotto il sole in un villaggio che sembra uscito da un film western, completamente deserto e silenzioso, sonnolento: tra baracche di ristoranti vuoti e qualche negozio, arrivo ad un'ampia spiaggia sabbiosa, un po' invasa dai rifiuti, battuta da una forte brezza marina. C'è giusto qualche locale, delle moto a quattro ruote ferme, e quattro ombrelloni colorati; in acqua nessuno, il mare è parecchio agitato, onde ma soprattutto una forte risacca, tanto che appena entrato con i piedi, mi ritrovo bagnato fino a metà corpo, per fortuna il diario che ho in tasca si salva. Questa non è certo la spiaggia né il mare che un turista si immagina venendo in Indonesia, non sono nel paradiso di Bali, ma in fondo non era questo l'intento del viaggio, e questa di oggi è solo una tappa sfizio per almeno vedere il mare. Ma ahimè non c'è molto da fare, c'è troppo vento e troppa desolazione. Faccio passare un po' il tempo sedendomi ad uno dei polverosi tavoli vuoti di un chiosco, a mangiare un rasa biacco, ovvero una zuppa istantanea di noodles mentre scrivo e ascolto in sottofondo il suono del mare; intanto la proprietaria del chiosco si taglia le unghie dei piedi con nonchalance a pochi metri da me, unico cliente del locale. Mi incammino verso quella che all'apparenza sembra essere la stazione dei minibus per Yoyakarta, e così è: se quello dell'andata era sgangherato beh, questo compete a ragion veduta come uno dei più malconci mezzi mai usati nei miei viaggi: il sedile dell'autista non ha praticamente più la plastica di rivestimento ma solo la sporca spugna dell'interno, da sotto al volante penzolano a vista i cavi, il resto è un vecchio ammasso di ferri mezzi arrugginiti. Si parte, il motore almeno pare funzioni. A bordo io, l'autista che fuma una sigaretta via l'altra, berretto malconcio in testa, e una donna in ciabatte che raccoglie i soldi dei passeggeri, cioè me e un paio di anziani. Ma ad una delle fermate a bordo strada, sale quasi un'intera scolaresca di ragazzini tra i 10 e i 14 anni, tanto che il piccolo mezzo si riempie fino all'inverosimile, saranno una trentina, alcuni di loro rimangono aggrappati alla porta che resta aperta; tutti in divisa, i maschi con camicia bianca a manica corta, le femmine con camicia bianca a manica lunga e il velo bianco a coprirne il capo, facendole somigliare a tante piccole suore. Lungo la strada scendono alla spicciolata, e dopo meno di un'ora anche io sono nuova mente a Yoyakarta a muovermi con i mezzi urbani fino a Malioboro. "Hello mister", ormai sono di casa negli stretti passaggi fra la quantità di merci a buon mercato di questa lunga e colorata via cuore pulsante della città; c'è chi mi ferma ancora con la scusa di visitare il proprio laboratorio di Batik, qualche annoiato portatore di becco e di carrozza per offrirmi un passaggio, o qualche venditrice o venditore per propormi la sua merce, tutto però senza mai insistere. Faccio gli ultimi acquisti rigorosamente previa contrattazione, in questa ennesima calda notte di Yoyakarta!


16 ottobre


Doccia di sudore per percorrere le poche decine di metri che separano la guesthouse dalla piccola moderna stazione ferroviaria di Yoyakarta; il bagaglio post shopping non è più quello di 10 kg dell'andata. Sono appena le 06.45 del mattino quando, con 15 minuti di anticipo sulla partenza, arriva al binario 3 il treno che una volta carico di passeggeri, parte puntuale alle 7.00 in direzione della capitale Jakarta distante otto ore di viaggio. Fuori dal finestrino si inseguono paesaggi di verdi risaie e piccoli villaggi. Dopo due ore e 40 minuti ad una delle poche fermate, sale e siede accanto a me una donna occupando il posto che era rimasto libero. Passa il personale a vendere cibo e bevande, mentre mano a mano il treno prosegue la sua corsa verso ovest e il paesaggio si fa sempre più arido avvicinandosi alla metropoli: le risaie lasciano il posto ad immense baraccopoli fatte di mattoni e lamiere, circondate da cumuli di rifiuti. Sono da poco passate le 15.00 quando recupero il mio pesante bagaglio e scendo alla stazione di Kota, una delle quattro presenti in città. Qui, grazie all'aiuto di un agente di polizia stradale, fermo uno dei taxi azzurri Hyundai della compagnia Blu Birds: l' agente con nonchalance intasca dal tassista la sua mazzetta, e si parte per un primo assaggio del caotico traffico della immensa capitale indonesiana. Dal finestrino, come prassi nelle grandi megalopoli asiatiche, salta all'occhio il forte contrasto tra ricchezza e povertà: una giovane madre cammina a piedi scalzi, visibilmente trasandata e vestita di stracci, con il suo piccolo di pochi anni pochi metri più indietro, tra i moderni viali circondati da palazzi in vetro e grattacieli; sembrano fantasmi in mezzo alla frenesia del traffico, nessuno sembra notarli o forse nessuno li vuole notare. Mi faccio lasciare dal taxi in Jalan Jaksa, quella che molto impropriamente viene definita la Kaos San Road (la famosa via dei backpaker a Bangkok) di Jakarta, una breve via abbastanza anonima con un paio di piccoli supermercati, altrettanti ristoranti e qualche guesthouse. Pernotterò qui, all'Hotel 35, una semplice guesthouse, in una camera senza infamia né lode, né finestre, eccetto quella che affaccia sulla lobby interna, ma dotata di un piccolo bagno senza acqua corrente e con una grande tanica già colma di acqua. Esco a fare due passi, giusto un assaggio della città: Merdaka Square, la più grande piazza di Jakarta, dista poco a piedi così in breve, tra un attraversamento e l'altro di strade a sei o sette corsie dove spesso le strisce pedonali sono poco più che ornamenti, sono a camminare lungo la cancellata che la delimita. È enorme, vi si può accedere a piedi solo da quattro entrate presidiate; una volta entrato all'interno passeggio tra la gente che fa jogging e tra secolari alberi che fanno ombra a bizzarre casette costruite per i piccioni. C'è perfino qualche cerbiatto. Al centro della spianata di cemento si erge un alto obelisco sormontato da una fiamma ricoperta di lamine dorate; nulla di trascendentale, come già immaginavo. Jakarta non è famosa per essere una bella città. Cala la sera, il traffico non accenna a diminuire; mi fermo a cenare in una sorta di mercato che raggruppa piccoli banchi di Street food: sono l'unico occidentale qui, l'atmosfera è tranquilla, mi godo un piccante riso accompagnato da una tipica bevanda a base di cetriolo fresco, l' es timun. Ultima notte qui in Indonesia.


17 ottobre


Mi cammino di buon mattino tra i grattacieli della capitale fino alla grande rotatoria stradale con al centro il Welcome Monument; il boom economico di Jakarta è evidente, ma tutto sembra mescolarsi, il vecchio ed il nuovo, ricchezza e povertà. Qui dove gli operai sono al lavoro nel cantiere per la costruzione della metropolitana, i carretti sgangherati che trasportano cibo lasciano spazio alle moderne sfarzose catene di moda occidentale. Piccoli e arrugginiti pullman fanno salire e scendere i passeggeri senza quasi neanche fermarsi, al contrario dei moderni bus urbani della compagnia Trans Jacarta; vecchio e nuovo appunto. Osservo il traffico dall'alto di un tunnel per l'attraversamento pedonale. Un breve giro in un centro commerciale a più piani che quasi mi mette a disagio da quanto è lussuoso e stonante con la vita a cui mi mescolavo solo poche ore fa, poi sempre piedi me ne torno in Jalan Jaksa, per gli ultimi acquisti nel più piccolo e popolare supermarket della Indo Maret, compreso lo squisito tè freddo al frutto della passione (marsika). L'ultimo pranzo indonesiano a base di riso fritto con verdure, lo passo seduto al tavolo del rustico Memorial Cafè, poi, recuperato lo zaino, fermo uno dei taxi azzurri Blu Birds: il conducente, di nome Mustafa, con lo specchietto retrovisore completamente ricoperto da farfalle di plastica, aziona il tassametro e si parte in direzione dell'aeroporto internazionale Sukarno Hatta lungo le strade oggi meno trafficate essendo sabato. Ripenso agli oranghi, alla navigazione lungo il Sungai Sekonyer nella giungla del Kalimantan meridionale... Ai templi, ai mercati, ai colori e ai sorrisi gentili che mi hanno regalato gli abitanti di queste isole dai contrasti evidenti... Ripenso a quanto sia bello ed importante scoprire e preservare ancora questo nostro splendido pianeta.