SETTEMBRE 2012
Itinerario: Tehran - Qazvim - Garzor (Valle di Alamut) - Isfahan - Toudeshk (Dasht-E Kavir) - Yadz
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15 Settembre 2012
Sono le 21.40, 45 minuti in anticipo rispetto all’orario previsto, quando scendo dal volo semivuoto della IranAir (sono l’unico occidentale a bordo) e metto piede per la prima volta nel “regno del male”, sono in Iran! I controlli sono lenti e meticolosi qui al moderno Khomeini International Airport; un giovane è venuto come da accordi via email dall’Italia, per conto del Firouzeh Hotel, dove passerò la mia prima notte. Stanco e carico, mi infilo con lui e un suo amico in una vecchia peugeot bianca, lasciando ben presto l’area dell’aeroporto e cominciando una folle corsa lungo l’autostrada a tre corsie che porta a Tehran. Arriviamo al casello, sarà passata mezz’ora quando entro nelle strade della città, la velocità costante dei 120 km/h non cambia, in un continuo schivare a destra e a sinistra auto e qualche pedone kamikaze che tenta di attraversare sulle strisce pedonali. Tehran appare subito enorme, un inferno da girare a piedi, ma è buio e forse la mia è solo una prima sensazione dovuta anche a questo e alla stanchezza del viaggio. Dopo meno di un’ora eccomi al piccolo e seminascosto Firouzeh Hotel (www.firouzehhotel.com), in una minuscola camera dalle pareti bianche con giusto un letto, il tappeto, una sedia, frigo e tv, doccia col lavandino, mentre i servizi igienici alla turca sono in comune, sul piano. Mi sembra ancora tutto surreale, essere qui, nella mia prima notte iraniana...
16 Settembre
La colazione al Firouzeh non è proprio un granchè, eccezion fatta per la squisita marmellata di rose. C’è il sole questa mattina a Tehran, esco presto per andare a cambiare gli euro con la valuta locale, il Rial, facendo così il mio primo vero assaggio della città. Arrivo a piedi nella vicina Imam Khomeini Square, in giro tante moto e motorini e le auto, il rumore del traffico e dei clacson è costante, lo smog lo si avverte quasi entrasse su per le narici. Sono nella parte vecchia e più tradizionalista e conservatrice della città, di donne se ne vedono poche qui, in gran parte coperte dai lunghi chador neri, sembrano dei fantasmi; ovunque tante, tantissime banche e sportelli bancomat, anche se nessuna accetta carte occidentali, così l’unica soluzione è cambiare gli euro portati per forza da casa e cambiare alla banca centrale o agli uffici preposti. Detto fatto: entro e chiedo informazioni, all’enorme banca a più sportelli di fronte all’ambasciata tedesca, dove però, il gentile impiegato, mi consiglia x la cifra che devo cambiare, di rivolgermi agli uffici cambio poco distanti, che applicano un tasso più favorevole! Incredulo esco, ci arrivo ma sono chiusi. Come per incanto spunta il cambiavalute di strada, armato di calcolatrice: titubo, lui per convincermi mi riporta nella banca di prima, ad uno sportello dove cambia davanti a me i suoi travell’s cheque dandomi direttamente le mazzette di soldi appena prese dall’impiegato in cambio! Per forza veri, e sono tantissimi, il cambio in effetti rispetto a quello ufficiale è convenientissimo, aveva ragione l’impiegato di prima, ci ho guadagnato almeno il doppio! 15 milioni di Rial per meno di 500 euro, son talmente pieno di mazzi di banconote che non so dove metterli ed esco dalla banca con una enorme busta bianca! Sono milionario. Mi ributto per le strade di Tehran fino a rientrare in hotel: l’unico pericolo davvero che si avverte qui mi sembra essere però solo l’attraversamento delle strade, per il resto la gente è cordiale se solo accenni ad una richiesta di informazioni e sostanzialmente non ti senti gli occhi addosso in maniera diffidente, tutt’altro. Però come pedone non conti nulla, per te semafori e strisce non esistono, puoi solo affidarti al tuo dio (da scegliere bene visto che da queste parti come da noi, sono un pò permalosi), o alla sorte, contare fino a 10 e lanciarti, come in una roulette russa, mi ricorda molto Hanoi in Vietnam, solo che qui, auto e moto, farebbero un pò più male delle biciclette. Anche questa è un’esperienza! Tornato al Firouzeh pago la notte e attendo il taxi chiamato dalla hall, che poi taxi non è, ma è l’auto di un privato, un signore anziano, anche lui abbastanza spericolato, che mi porta alla stazione occidentale degli autobus, vicino ad Azadi Square: lui prova ad insistere di offrirsi di portarmi fino a Qazvim, la mia destinazione, ma il prezzo non può competere con quello dei bus. Infatti qui, con 30000 Rial (1 euro) pago a bordo il biglietto e mi viene pure distribuito un sacchetto con una merendina, dei biscotti e un bicchiere di plastica per il distributore gratuito dell’acqua. Prendo posto in fondo, ultima fila: il pullman parte, fiancheggiando per il primo tratto le montagne a nord della città, le cui vette sono leggermente velate da uno strato di foschia, sulla autostrada a tre corsie discretamente trafficata. A bordo chi chiacchera, chi armeggia col cellulare e io, che osservo fuori dal finestrino lo spoglio paesaggio montano, con i numerosi tralicci dell’alta tensione. Ogni tanto, nel nulla, qualcuno fa un cenno all’autista che si ferma per farlo scendere, c’è spazio anche per una breve sosta atta a consentire ad un bambino di espletare i suoi bisogni fisici. Lungo la strada qualche chiosco di paglia vende lunghi meloni e angurie dalla buccia verdissima, e dopo 2 ore dalla partenza sono nella piccola, moderna e affollata stazione dei bus di Qazvim: subito sono circondato da un gruppetto di tassisti, ne scelgo uno e comincio a contrattare, facendo già, visto che mi trovo, anche il biglietto del bus per Esfahan che mi servirà fra qualche giorno (85000 Rial per quasi 600 km, nulla!). Qui quasi nessuno capisce l’inglese, nè il tassista nè alla biglietteria dei bus (ed erano in 5), e perfino la padrona dell Khaksar Hotel dove mi faccio portare; farsi capire è un’impresa, ma tra foglietti, calcolatrici, mappe e agende per le date, dovrei avercela fatta. L’unico è un gentile ragazzo che per strada, fuori dall’hotel, vedendomi in difficoltà, si offre di farmi da interprete col tassista, così, forse, se ha capito, verrà lui domani a prendermi di buon ora per portarmi fino alla Alamut Valley. La camera del Khaksar Hotel è spaziosa seppur priva di doccia, che è invece nei puliti bagni comuni poco distanti (160000 Rial esclusa la colazione, circa 5 euro). Sui piani c’è anche un boccione dell’acqua da cui servirsi, ottima cosa visto nonostante non sia umido, fa abbastanza caldo. Esco a scoprire Qazvim passeggiando lungo la centrale Imam Khomeini Boulevard: insegne, scritte, prezzi e menù sono tutti in lingua farsi, devo impararne i simboli al più presto! Lonely Planet alla mano arrivo fino al bazar coperto: qui, in questo antico caravanserraglio, all’ombra di un lungo tetto di lamiera, si commercia un pò di tutto, dalla verdura alla frutta (con la tipica uva dagli acini privi di semi, tipica di questa zona), scarpe, giocattoli, vestiti, però quasi tutti di stampo occidentale, poco di tipico qui, eccezion fatta per i dolci e i biscotti. E’ dal mio arrivo in Iran che non ho incrociato nessun occidentale, non me lo aspettavo, evidentemente tra pregiudizi e situazione politica mondiale estremamente tesa in questo periodo, venire qui per molti può rappresentare chissà quale pericolo, eppure le mie prime sensazioni son esattamente in senso opposto: quando chiedo informazioni anche lungo la strada, sembra quasi che la persona si senta in dovere di aiutarti, anche se non conosce la lingua o l’indicazione richiesta, e fa di tutto per cercarti lui qualcuno in grado di aiutarti, creando improvvisati piccoli “campanelli di gente di mutuo soccorso”! E’ proprio vero che la cordialità degli iraniani ha pochi eguali; ammetto che all’inizio qualche titubanza, essendo l’unico straniero in giro, soprattutto nel tirare fuori la macchina fotografica, l’ho avuta...poi una volta vinta questa (immotivata col senno di poi) paura, passa un anziano che vuole farsi fare una foto per poi rivedersela e riderci su, i ragazzi del chiosco delle carni che fan lo stesso...Torno tra le vie di Qazvim, tra le sue case basse e squadrate, i lucida scarpe agli angoli delle strade e i chioschi che vendono i giornali, fino all’hotel per una breve siesta. Quando riesco, verso tardo pomeriggio, ecco la sorpresa: Khomeini Blv è presa d’assalto da una moltitudine di persone a passeggio, diventa quasi difficile farsi largo tra i marciapiedi affollati di famiglie con bambini, gruppi di giovani, e tantissime donne, fino ad ora quasi invisibili; e finalmente, soprattutto tra le giovani e truccatissime ragazze, gli hejab colorati (foulard colorati che coprono solo la parte alta della nuca lasciando intravedere le capigliature e le acconciature)hanno il netto sopravvento sui neri chador, segno dei tempi, che da noi in occidente non ci raccontano. Son davvero tante le ragazze, alcune di una bellezza disarmante, che si coglie incrociando per pochi istanti e involontariamente, i loro sguardi. Veloce tappa, più per curiosità, in un piccolo centro commerciale moderno, a due piani, con una fontanella che distribuisce acqua, per poi incamminarmi verso Chehel Sotun, l’antico piccolo palazzo reale dalla forma cubica: nulla di chè, ma qui, nei tranquilli giardini che lo circondano, posso oziare un pò seduto su una delle tante panchine in marmo; tante coppie di fidanzati, poco distante da me, due ragazze ridono di gusto per i fatti loro, mentre altri fanno pic nic sull’erba delle ben curate aiuole. Il sole sta tramontando e si diffonde nell’aere il richiamo lamentoso e affascinante alla preghiera del Muezin. Ora attraversare le strade con così tanta gente in giro, è decisamente un’altra cosa, quasi facile, l’unione fra pedoni fa la forza! Concludo la mia seconda giornata (la prima piena) di scoperta dell’Iran in un piccolo locale con tre tavolini dove a gesti riesco a farmi servire due ottimi spiedini di carne ricoperti da una montagna di riso, il tipico kebab all’iraniana cotto alla brace.
17 Settembre
Mamoussaine, il tassista che ieri mi ha accompagnato in hotel, non capisce una parola di inglese, si sforza di parlarmi in farsi, riesco a comprendere che ha due figli grandi e sposati e che è devoto a Maometto, ma nulla di più, però è gentile e si avverte che è la classica brava persona. Mi accompagnerà come da accordi fino alla Alamut Valley. Prima di uscire da Qazvim, facciamo una breve sosta alla stazione dei bus, che è anche quella dei taxi, e qui nel loro piccolo gabbiotto, altri gentili colleghi di Mamoussaine, mi offrono del tè, del Nam, il loro morbido pane piatto, e un pomodoro (che ben presto mi spruzzo sulla maglietta bianca, per fortuna ho un cambio perchè quelle macchie rosse erano un pò inquietanti!). Insomma faccio colazione con loro! Ripartiamo, la periferia della città è un cantiere a cielo aperto, qualche complesso universitario, e grandi gru ovunque. Mamoussaine corre lungo la strada asfaltata come un dannato, usando spesso una sola mano sul volante, mentre l’altra è impegnata a turno col cambio (raramente), col cellulare, col pane che ogni tanto sgranocchia, e con l’autoradio che trasmette musica locale. La strada comincia a salire, incrociamo solo di rado qualche auto che scende in direzione opposta alla nostra. Dopo circa un’ora si vede dall’alto la piccola cittadina di Razmyian, poche case in mattone incastonate in una pittoresca vallata, la Valle di Shahrud, verdissima, con le risaie terrazzate e gli appezzamenti di campi di grano, e alle spalle la maestosità delle vette dei monti Elburz, spoglie e in alcuni tratti talmente tondeggianti da sembrare finte. Ora la strada scende attraverso una serie di ripidi tornanti fino ad attraversare la poco animata cittadina, per poi riprendere a salire, fino al seminascosto e mal indicato sentiero che porta alle rovine del Castello di Lamiasar. Mamoussaine ferma qui a lato della strada la sua vecchia grigia peugout, mi aspetta qui e io mi inerpico così da solo. Lo stretto sentiero non sarebbe neanche troppo impegnativo se solo fossi un minimo allenato: dopo 20 minuti di ostinato e lento cammino in salita, arrivo a quel che resta delle rovine, giusto un bastione in pietra, ma il panorama a 360 gradi dell’intera vallata sottostante e delle montagne che la circondano è superlativo. Le stesse pareti rocciose hanno diverse sfumature di colore, dal grigio al rosso, dal giallo al verde, uno spettacolo naturale. Riscendo dopo un pò e con Mamoussaine riprendiamo il viaggio ripassando da Razmyian accanto ai campi dove, chini sulla terra, lavorano donne e uomini, e parte del grano raccolto è steso ad essiccare su grandi teli posti proprio su parte della strada. Mi accorgo solo ora che l’auto è priva di entrambi gli specchietti laterali, ma ormai non mi meraviglio. In una delle brevi soste, Mamoussaine raccoglie da un albero e mi fa assaggiare dei piccolissimi frutti, uguali a delle mele verdi non più grandi du una biglia, squisite e succose. Passiamo per Mo’Allem, poi ancora tornanti in salita fino alla tappa finale: sono quasi le 12.30 e sono a Gazor Khan, nella Valle di Alamut; andiamo con l’auto fino in cima al piccolo paese, dove c’è il Golestann Inn, la guesthouse scelta tramite la Lonely Planet; qui saluto con un forte abbraccio il gentilissimo Mamoussaine, che rifiuta perfino una piccola mancia. A dispetto del nome che lascia immaginare chissà quale hotel sfarzoso, il Golestann Inn è un posto bizzarro, in mezzo alla vegetazione, gestito da una coppia coi loro bambini: la mia camera è una costruzione posta sopra alla loro abitazione, non esiste una hall. In pratica è una terrazza che fa da patio tra gli alberi, con delle poltrone anni 70, semisfondate, qualche malandata sedia di plastica attorno ad un tavolo, e tre porte in ferro e vetro, una di queste è la mia stanza; ovviamente sono l’unico ospite, neanche l’ombra di un turista e mi sa da tempo. La camera in realtà è un mini appartamento, più che discreto, con due comodi letti, tappeti, lo spazio cucina con i fornelli (un pò mal ridotti) e un frigo non funzionante, col bagno alla turca e la doccia in marmo bianco con rifiniture rosa. E c’è perfino una impolverata copia del Corano. Un posto davvero strano, quasi una cascina di campagna, in comoda posizione visto che si trova proprio a poche decine di metri dall’imbocco della salita per arrivare al Castello di Alamut; decido però, visto che il sole è ancora alto, di scendere prima fino al paese di Gazor Khan, facendo a piedi un paio di tornanti lungo la strada: c’è in giro solo qualche anziano dai volti scavati, uomini e donne, tra il gruppetto di modeste case del paese, mentre in quella che appare come la piazzetta principale, un gruppetto di giovani sta provando a turno una motocicletta. Tutto qui; risalgo la strada incrociando un vecchio contadino, falce in mano, che sale lentamente a fianco del suo mulo carico di fieno. I muscoli delle mie gambe già si lamentano di questa salita, non sanno che il bello deve ancora iniziare per loro. Ho tutto il tempo che voglio, così me la prendo comoda e mi godo la tranquillità di questo luogo, fermandomi all’ombra di un albero e lasciandomi superare dal mulo e dal sorridente vecchietto che mi saluta. Salirò fino ad uno dei leggendari Castelli degli Assassini, che un tempo davano rifugio ai seguaci di Hasan-e Sabbah, capo di una setta ismailita dell’Islam, nel XII Sec. Molte di queste fortificazioni sulle montagne dell’Elburz resistettero a decenni di assedi, creando una sorta di mito e leggenda. Comincio la mia salita, le rovine sono in cima al possente massiccio roccioso che si erge qualche centinaio di metri dinanzi a me: il primo tratto è faticoso, poi una ripida scalinata a metà della quale incrocio tre ragazzi giovani che stanno lavorando con una pala a sistemare il sentiero, mi fermano per fare due chiacchere e una foto, non parlano inglese ma ci capiamo in qualche modo. Lungo la salita incrocio anche due famiglie di turisti iraniani, con le loro macchinette fotografiche, e anche loro mi salutano chiedendomi da dove arrivo. A fatica e sotto un sole cocente, arrivo alla vetta dove ciò che rimane dell’antico castello è recintato e protetto da un’impalcature in ferro; le rovine non sono granchè, ma arrivare quassù, oltre al luogo leggendario, mi regala vedute mozzafiato sui monti Elburz e sulla Valle di Alamut. Rimango un pò qui a contemplare il silenzio osservando le montagne...inizia a soffiare un forte vento, segnale che è ora di riscendere; arrivo stanco ma soddisfatto al Golestann. Sono quasi le 16, forse non ci siamo capiti prima con la gentile proprietaria, tant’è che mi bussa alla porta portandomi su un vassoio un ricco pranzo: kebap di pollo alla brace sommerso da riso, ciotola di carciofi, un pomodoro alla brace, yougurt e una coca cola locale oltre alle immancabili forme di Num, il loro pane. me lo mangio in solitaria sulla terrazza dove affaccia la porta della camera: l’aria è tersa, si distinguono nettamente gli odori, son lontano anni luce dallo smog di Teheran. Scrivo le pagine del mio diario in compagnia di qualche ape ( a poca distanza ci son delle cassette di alveare) e di un timido micio, di sottofondo il sublime ed incessante canto di cicale e grilli. Viene sera, il grande roccione con in cima le rovine del Castello di Alamut, illuminato dal sole basso, diventa quasi rosso mattone; scendo a fare qualche foto, dopo essermi intrattenuto con la gentile e sempre sorridente proprietaria e coi suoi due figli maschi di 7 ed 8 anni, ed aver scambiato due chiacchere in qualche “lingua di mezzo” davanti ad un tè caldo e biscotti fatti in casa. Faccio qualche passo ed incontro il primo occidentale! Un signore tedesco di una certa età, anche lui in viaggio solitario, ma alla sua seconda volta qua in Iran. Insieme ci sediamo a bere un’aranciata seduti sulle assi ricoperte dai tappeti nello spazio comune antistante il Golestann: lui ha studiato e parla un pò il farsi, e conosce anche un pò di italiano, ma in inglese mi racconta che ha viaggiato per mezzo mondo lavorando per una Ong, e che è tornato per la seconda volta in Iran perchè è un posto sicuro, economico e con una popolazione sempre gentile che difficilmente incontri in altre parti. Mentre chiaccheriamo, un grosso cane, incrocio tra un pastore tedesco ed un husky, richiede ed ottiene le nostre coccole ed attenzioni. E’ sempre un piacere incontrare viaggiatori come te, non i soliti turisti, che per fortuna da queste parti non si spingono. Insomma, il viaggio in Iran comincia a prendere forma, e col tempo che passa, radico in me sempre più la convinzione che questo è un popolo di una cordialità e affabilità rare. Mi sento al sicuro e in pace, alla faccia dei soliti luoghi comuni del pensar comune occidentale. Prendo accordi col tedesco, divideremo la spesa del taxi domani per tornare a Qazvim, poi da li procederemo in direzioni diverse. Stanotte la passo qui nella Valle di Alamut, così mi rintano nella mia suite, è buio pesto anche se sono solo le 20: qui tra i monti non c’è la “vita” piena di gente della città, e ilverso dei grilli e delle cicale è davvero ora l’unico suono che si sente, e che mi cullerà fino a domani, mentre lassù, a poca distanza, il Castello degli Assassini è completamente avvolto nel buio della notte...
18 Settembre
Sonno difficile per via dei continui lamenti di una gatta in calore o forse partoriente. Esco che ancora non c’è nessuno del Golestan in giro, se non in bel cagnone di ieri sera che viene a prendersi la sua dose di coccole. Fa fresco, il sole è già sorto ma si nasconde ancora dietro al promontorio roccioso con su le rovine, c’è aria tersa e una bella luce. Si sveglia anche la sempre sorridente proprietaria che mi prepara una semplice colazione servita sugli scalcinati divani del suo patio di cemento: un tè servito nei tipici bicchierini stretti di vetro, Num, burro e un vero tozzo di puro miele. Saldo il conto, alla fine la suite mi è costata, compresa una cena e la colazione, 350000 Rial, poco più di 10 euro, e la gentile signora non mi fa pagare le bibite prese durante durante la permanenza, in segno di ringraziamento (mi chiedo in quale altro posto al mondo succeda). Willi, così si chiama il tedesco conosciuto ieri, e che pernottava nell’unica altra guesthouse di Gazor, è pronto insieme all’autista, il proprietario della sua guesthouse, un uomo magro coi baffi, che mette in moto e scalda la sua vecchia Paykan anni 80. Consumati i saluti e ringraziamenti, si parte! ( il mio amico Luca B dall’Italia mi scrive che sapere di un italiano e un tedesco insieme in un taxi, in Iran, in questo periodo storico, sembra quasi la trama di un romanzo, ed in effetti è buffo). Willi il tedesco conosce molte lingue, ha una casa sul Lago di Garda, ed è stavolta in italiano che conversiamo seduti sui vecchi sedili posteriori. Mi racconta dei suoi viaggi con suo inconfondibile accento teutonico, e di quelli che farà insieme alla moglie (che nel frattempo è in viaggio anch’essa ma in tutt’altro luogo, in Tanzania) ora che entrambi sono in pensione. Fuori, il panorama è uno spettacolo, circa a metà strada ci fermiamo per caricare su due ragazzi del posto che chiedevano un passaggio: io e Willi concordiamo nel definirci “specie rara”, viaggiatori e non turisti, e non è casuale incontrarci in un Paese come l’Iran; ad entrambi in tanti ci prendono o ci hanno preso per pazzi :”vai in Iran? Ma cosa vai a fare lì, è pericoloso, stai attento...ci son tanti posti belli qui, perchè andare fino a lì che non c’è nulla...lì c’è la dittatura, non hanno niente da mangiare...”. Ce la ridiamo su a pensare a quante volte come una sorta di mantra, ci siam sentiti dire queste cose. E’ tutta una questione di apertura mentale, di andare oltre ai luoghi comuni e ai pregiudizi, confezionati spesso ad arte per altre finalità, per capire realmente cosa c’è dietro, per confrontarsi e conoscere. Viaggiare non è solo vedere un bel monumento o paesaggio, viaggiare è apprendere, conoscere culture, stili di vita e di pensiero diversi dai nostri e farli un pò propri, viaggiare è conoscenza e solo chi lo fa può poi giudicare...l’Iran è pericoloso? Bhè si, ma solo nell’attraversare le strade a Teheran! Per il resto, come già avevo letto dai racconti di chi ci era stato e che lo stesso Willi mi conferma, gli iraniani sono un popolo straordinariamente accogliente e gentile, che fa di tutto per aiutarti e metterti a tuo agio, in modo mai invadente, e spesso in cambio di nulla, di un sorriso o una stretta di mano. Pericoli di furti, violenze o altro pari a zero, lo percepisco ogni ora sempre di più. Quanto poco e di falso conosciamo di questa gente ha dell’incredibile: chi mi crederebbe, non essendoci mai stato, se dicessi che mi trovo più a mio agio e sicuro in un bazar affollato qui, unico occidentale e con una vistosa macchina fotografica al collo, che non la sera in una stazione della metropolitana di casa mia? Intanto tra ripidi tornanti, a fatica la vecchia Paykan arriva a Qazvim (150000 Rial a testa), Willi prende un bus per Rasht e proseguirà il suo viaggio verso nord, direzione Mar Caspio, io mi fermo una notte ancora qui per poi procedere verso sud, direzione Esfhahan. Ci salutiamo e continuiamo ognuno il proprio viaggio. I marciapiedi di Qazvim sono pieni di gente, che contrasto con la silenziosa Valle di Alamut. Torno al Khaskar Hotel, dove avevo lasciato il grosso dello zaino, stavolta mi assegnano una camera diversa, di fronte alla piccola hall. Esco a passeggiare e a mescolarmi fra la gente, passando accanto ad una serie di negozi dai quali fuoriesce un buonissimo odore di biscotti appena sfornati, e arrivo al bazar; seguire un itinerario al suo interno è impossibile, così vago tra i suoi vicoli, scambiando spesso due chiacchere al volo con qualche commerciante gentile e curioso che domanda da dove vengo. Mi ritrovo quasi per caso all’interno di un grande e silenzioso spazio aperto delimitato dalle alte mura ricoperte di maioliche azzurre: sono nel cortile della Moschea di Nabi, dove due adulti pregano sui loro tappeti, e un giovane ragazzino fa lo stesso poco distante. Scende la sera, trovo posto in una moderna pizzeria fast food in un seminterrato, dove perfino la giovane cassiera che prende l’ordinazione e che parla inglese, ne approfitta per scambiare due parole; è ancora presto, il locale è semivuoto ma la pizza decente. Fuori si è fatto buio, e passeggiare per le vie centrali sembra di essere al sabato pomeriggio di un giorno si saldi in Corso Buenos Aires a Milano. Tanta gente, sembra che nessuno resti chiuso in casa incollato magari davanti alla tv come da noi, c’è una vivacità e una vita mondana che non mi aspettavo. Le giovani ragazze, tutte truccate e ben vestite coi loro eleganti soprabiti, passeggiano a braccetto, velate appena dall’hejab nero o colorato a volte appena appoggiato in fondo alla nuca, tanto da far emergere tutto il fascino dei loro visi e delle acconciature, e tante di loro, di fascino ne hanno da vendere! Anche i ragazzi, tutti vestiti in tiro, con le loro colorate camicie a quadretti e la scia di profumo che lasciano a distanza di metri, sembrano volersi mettere in mostra, al contrario delle numerose famiglie con prole, anche esse a passeggio. I negozi in Khayyan Street, la via “in”, sono tutti aperti, dalle gelaterie alle cioccolaterie, dal piccolo centro commerciale ai negozi di elettronica che vendono tutte le marche immaginabili: c’è si l’embargo, ma ormai tutto viene dalla Cina e da oriente, quindi si vedon marche come Apple, Samsung, Kenwood, scarpe di ogni tipo e vestiti chic ovunque. Il problema che affligge l’Iran per quanto riguarda l’embargo e che crea un’inflazione mostruosa, è semmai in uscita vista l’impossibilità “dettata” dagli Usa a commerciare in uscita...no comment. C’è perfino un negozio di Bottega Verde! Con tanto di insegna in farsi e in italiano, e gli stessi prodotti in vendita da noi. No, tanta vita e questo apparente benessere non me li aspettavo proprio in queste proporzioni, è una piacevole sorpresa. Il via vai continua incessante e, sorpresa tra le sorprese, un fantasma bianco, anzi due! Due vigili (le prime divise che vedo, tanto per sfatare un altro luogo comune...), che nelle intenzioni dovrebbero gestire il traffico, ma in realtà, davanti ai loro occhi impotenti e a dispetto del colore dei semafori, pedoni e automobilisti fanno a gara a sfiorarsi senza toccarsi, così, vedo perfino la mamma col piccolo in braccio che si butta tra le auto, a ruota un gruppo di ragazzi e ragazze, e io mi unisco usandoli da scudo, mentre le auto rallentate dal traffico suonano i clacson ma non per lamentarsi od inveire, sembrano tutti tranquilli, sembra più una moda, quasi ad avvisare che ci son anche loro. Ogni giorno che passa, mi sembra di ambientarmi sempre di più!
19 Settembre
Alle 8.30 del mattino Qazvim ha un altro aspetto: poca la gente in giro, la maggiorparte delle saracinesche ancora abbassate e perfino il traffico di auto pare normale. Qualche mamma porta i figli piccoli a scuola, i giardinetti sono popolati solo dai giardinieri che li sistemano annaffiando i ben tenuti prati e le aiuole fiorite, all’angolo di una strada un ragazzo distribuisce giornali al semaforo mentre un altro giovane “stende” sulle siepi le grandi forme di Num: è proprio l’esatto contrario delle nostre città, frenetiche e animate di giorno (per andare al lavoro), pressochè deserte alla sera. C’è il sole e una temperatura gradevole, cercare un posto dove fare colazione è un pò un’impresa qui, mi accontento di una spremuta di arance fatta al momento. Devo imparare a leggere i numeri in lingua farsi, è fondamentale visto che perfino su alcune delle loro calcolatrici i numeri sono scritti così; santa Lonely mi aiuterà! Rientro ed esco nuovamente dalla camera n.101 dello Khaskar Hotel per il definitivo Check out, ora il traffico di auto è sensibilmente aumentato, soprattutto vecchi taxi gialli modello peugeout : neanche il tempo di allungare un braccio per un cenno che già uno di questi, con già a bordo due donne velate e un bimbo come passeggeri, si accosta e mi carica su. Cinque minuti e sono nella grande sala d’attesa della stazione degli autobus di Qazvim: anche qui le scritte, comprese quelle degli orari sui grandi tabelloni luminosi, sono in farsi. Inganno l’attesa comprando da bere e delle orribili patatine aromatizzate all’uva! Nella stazione non c’è confusione, non c’è molta gente anche se fuori sono numerosi i pullman, sia vecchi Mercedes anni 70 sia nuovi e grandi Volvo. A me tocca uno di questi ultimi, color bianco, aria condizionata a bordo; un addetto ci mette più di 15 minuti a sistemare la gente che mano a mano arriva nei posti liberi, curandosi di non far sedere donne a fianco a uomini di non loro conoscenza, così tra un incastro e l’altro, alle 13.20 si parte. Sarà un lungo viaggio verso sud, in direzione Esfahan. Dal monitor viene trasmesso un film locale, genere tra il comico e il drammatico; il primo tratto di strada segue la statale in mezzo ad un ampio e arido altipiano. Tanti i camion, molti trasportano grandi blocchi di marmo e cemento; breve sosta a Saveh, e da qui, superato il casello, comincia l’autostrada e il paesaggio si fa via via più interessante non appena si fiancheggiano i monti Zardkouh. Il tempo scorre lento, passano le ore, ma l’ultimo tratto con le montagne in lontananza nascoste da un gioco di ombre sovrapposte creato dal sole che tramonta, è uno spettacolo superlativo. Ormai è buio, e gli ultimi 65 km prima dell’arrivo mi sembrano interminabili, ma finalmente, dopo 7 ore, sono ad Esfahan! Scendo, recupero lo zaino e provo subito a contrattare (ma senza successo, lui irremovibile, io stanco) con un ragazzo che si offre come tassista (non lo è) per portarmi fino all’hotel che ho scelto, il Sahel. In effetti è bello sistante e i 150mila Rial (15000 Tomam, che è l’unità di misura che in realtà viene più comunemente applicata) ci stanno. Il primo impatti che ho di Esfahan è quello di una cittadina abbastanza grande, illuminatissima da tante luci colorate. Percorro col ragazzo sulla sua auto la lunga Chachar Bagh Abbasi Street, fiancheggiata da alberi e ampi marciapiedi pieni di negozi e di gente al passeggio. Il traffico è notevole, ma ormai quasi mi diverto a vedermi schivare anche in auto da altre auto e pedoni, sembra di essere in un videogame dove tutti appaiono incredibilmente tranquilli e sicuri di sè! Scambio qualche parola in inglese col ragazzo, il quale, in modo quasi orgoglioso, chiama al telefono la sua ragazza per farle ascoltare dalla mia voce il mio nome e da dove vengo! Eccomi, arrivato al piccolo Hotel Sahel; non hanno ahimè camere singole disponibili, mi tocca cercare una camera lungo la strada, provo in ben 4 hotel diversi ma nulla, stanco morto mi arrendo e torno al Sahel concedendomi il lusso di una camera doppia con bagno e colazione per l’equivalente di 14 euro a notte.
20 Settembre
Proprio bella la sala da tè del piano superiore qui al piccolo Sahel Hotel, e anche la colazione è discreta. Comincio di prima mattina il mio giro per le strade di Esfahan, dirigendomi a nord, verso il Bazar; c’è il sole e fa caldo, dopo una camminata di circa mezz’ora arrivo (non senza essermi perso un paio di volte e di essermi fatto aiutare da passanti e commercianti) alla grande Moschea del Jameh. Appena oltrepassata la piccola biglietteria (solo 500 Rial x entrare), il primo impatto è di stupore: uno spazio immenso, con i suoi 20mila mq questa è la moschea più grande di Iran. Lo spiazzo cementato del cortile, con al centro la vasca per le abluzioni, è circondato da 4 grandi Iwan (grandi facciate a forma di semibotte), bellissimi, rivestiti da splendidi mosaici di piastrelle color azzurro, e il semitetto a forma di nido di ape;l’Iwan a sud, il più grande, è alto e sormontato da sue minareti. Mi addentro nelle sale interne, bui labirinti di colonnati e come soffitto tante perfette cupole in mattoni: la luce che filtra in queste spoglie sale dall’alto delle pareti, crea dei suggestivi effetti. Quando riesco verso il cortile centrale e alzo gli occhi in alto verso l’Iwan, rimango sbalordito, è di una perfezione geometrica unica. Il cortile è semivuoto, solo un paio di ragazze, probabilmente turiste locali, un piccolo gruppetto forse malese con guida al seguito, e un viaggiatore occidentale solitario oltre a me (il secondo che vedo!). Anche l’Iwan occidentale è maestoso, più sviluppato in larghezza che in altezza, con due grandi ritratti uno di Khomeini e l’altro dell’Imam attuale, Kathami. Al suo interno c’è un raffinato mirhab (nicchia) in stucco, ricoperto di iscrizioni coraniche, alle cui spalle si apre una buia sala di preghiera dal soffitto basso, e completamente rivestita di grandi tappeti rossi. E’ bellissima questa moschea, una delle più imponenti che abbia mai visto; al suo interno regna un rispettoso e doveroso silenzio. Dopo oltre un’ora di foto e naso all’insù, decido di uscire e visitare l’adiacente bazar, che risale a più di 1000 anni fa: lunghi e bui corridoi sormontati da una serie di piccole cupole di mattoni, un antico caravanserraglio, dove, una a fianco all’altra, ci sono botteghe che vendono di tutto, ed ogni zona di questo immenso bazar è divisa per tema, ovvero il settore dell’abbigliamento, poi quello della frutta e verdura, quello più moderno e luminoso degli ori, poi il rame, la cancelleria, i bellissimi samovar per il tè, gli immancabili tappeti persiani e perfino i chador. Già, quella dei bazar è pre tradizione la zona più conservatrice, e qui a differenza degli altri luoghi della città, se ne vedono di più anche indossati da alcune giovani ragazze. E’ comunque un luogo di gran fascino in cui perdersi e vagare tra i labirintici vicoli coperti. Dopo un lungo camminare arrivo a sbucare direttamente nella strabigliante Imam Square, la seconda piazza più grande al mondo dopo Tienammen a Pechino: è immensa, circondata dalle mura a due piani di portici fatti ad arco, interrotte a sud dalla maestosa entrata della Moschea dell’Imam, e ai due lati opposti dalla facciata del piccolo Palazzo Ali Qapu e dalla Moschea dello Sceicco Loftollah, con la sua bella cupola azzurra; l’immenso spiazzo centrale ha al centro una lunga vasca d’acqua con delle fontane e tutto attorno geometrici e perfetti giardini fioriti. Davvero uno spettacolo da lasciare a bocca aperta. Ora però è tutta al sole, così anzichè aggirarmi a curiosare fra le botteghe che affacciano sulla piazza, percorro il suo perimetro nei corridoi interni, all’ombra dei portici, anch’essi pieni di negozi in particolare di stoffe, tappeti, ceramiche azzurre e maioliche, argenteria e tanti dolci fra cui il locale famoso torrone al pistacchio. Qui a Esfahan l’artigianato locale è di gran lunga più interessante che non a Qazvim, più tipico e tradizionale. C’è anche il settore degli artigiani del ferro, dove incessantemente, donne e uomini nelle loro piccole botteghe stracolme di merce esposta, battono a mano il ferro come una volta. Entro nella piccola Moschea dello Sceicco Lotfollah, dal porticato di ingresso ricoperto da spettacolari e raffinate piastrelle azzurre: dentro è atipica, non c’è il classico cortile, ma solo una sala, non tanto grande, sormontata dalla perfetta cupola dalle tonalità miste di azzurro e crema: pare che in epoca Safavide (epoca a cui risalgono gran parte delle meraviglie architettoniche di Esfahan) questa moschea venisse usata solo dalle donne dell’Harem dello scià Abbas. Faccio il giro della piazza e arrivo a pagare l’irrisorio biglietto di ingresso (500 tomam, meno di 20 centesimi di euro!) per entrare nella grande Moschea dell’Imam che domina la piazza a sud: delusione stavolta, gran parte della stessa infatti, compreso il cortile e parte della grande cupola, sono in ristrutturazione, e i teloni e pali di ferro delle impalcature, rovinano un pò questa meraviglia, lasciando solo in parte intravedere la straordinaria bellezza degli azzurri Iwan. Ora in piazza c’è tanta gente, e tanti sono i turisti locali. Dopo oltre 5 ore di cammino da stamattina, mi incammino verso il Sahel Hotel, uscendo da Imam Square e ritrovandomi dopo breve nella centrale Chahar Bagh Abbas, un ampio viale con al centro giardini ben curati, e dove a qualsiasi ora si vedono coppie, ed intere famiglie farvi pic nic: gli iraniani sono campioni mondiali, come cita la Lonely Planet, in questa pratica, ed è davvero così. A lato delle strade gente aspetta gli autobus cittadini alle fermate coperte, e gli ampi marciapiedi, nonostante la tanta gente, sono molto puliti (non è un caso che vi sia un cestino ogni 20 metri). E per fortuna, lontano dal Bazar, torno a vedere quasi solo hejab rispetto ai chador. Ci sono anche i vigili con le loro impeccabili divise bianche, anche se mi chiedo sempre più quale sia la loro utilità dato che anche qui, davanti ai loro occhi, pedoni e auto continuano a non rispettare alcuna regola stradale. Prima di rientrare in camera, allungo il cammino di poche decine di metri fino al vicino Ponte Si-o-Seh, a cui arrivo riuscendo nell’impresa di attraversare la grande rotatoria adiacente. Esfahan è famosa per i suoi antichi ponti: questo, il più famoso, è stranissimo, totalmente pedonale, sembra una lunga diga a doppie arcate di mattoni, peccato che l’ampio letto del fiume Zayandeh sia in questa stagione completamente a secco. Salgo i pochi gradini e lo percorro in tutti i suoi 298 metri di lunghezza: sui lati si può accedere ad una specie di corridoi paralleli dove coppiette o gruppi di amici si “appartano” per chiaccherare al riparo dal via vai dell’ampio corridoio centrale; molto bello. Torno in camera stavolta davvero per una sosta, sono stanco: guardo un pò per curiosità la tv locale che ho in stanza, ci sono diversi canali, in uno stanno dando in lingua locale il film Wall-e della Pixar, in un altro un telegiornale con traduzione simultanea per i non udenti, dove soprattutto si parlava delle proteste anti americane che stanno montando in tutto il mondo proprio in questi giorni. Dopo un pò di relax, mi rituffo per strada, dirigendomi nuovamente verso Imam Square. Una volta qui, visito il Palazzo Alì Qapù, risalente al XVI Secolo, e che fu residenza dello Scià di Persia Abbas I. Salgo l’angusta scalinata di piastrelle blu e gialle che porta alla terrazza dalle altre e strette colonne di legno che sorreggono il variopinto soffitto; parte del patio ahimè è in ristrutturazione, così il panorama sulla vasta piazza che si può ammirare da qui è parziale, ma da un lato, la vista su Imam Square con la cupola e il minareto della Moschea dell’Imam e le montagne all’orizzonte, merita davvero. Il sole intanto comincia lentamente a calare proprio alle spalle del Palazzo Ali Qapu, la piazza si riempie di famiglie e giovani, tanti questi ultimi, che stendono le loro stuoie o tappeti sugli spazi erbosi; un gruppetto di questi giovani, mi invita a sedermi con loro, alcuni parlano inglese, sono curiosi ma non invadenti, e orgogliosi di confrontarsi con uno straniero! Chiaccheriamo, di tutto, alcuni son pro altri anti Ahmadinejad, ma ne parlano entrambi liberamente e senza tensioni, parlano di calcio, sanno di ciò che accade nel mondo, sicuramente più dei nostri giovani. Non sono i primi che mi fermano a fare due chiacchere qui, in tanti mi chiedono perchè in occidente si parla male di loro e del loro Paese, e davvero faccio fatica a spiegarglielo ( e a capirlo). Alla fine, dopo la foto di rito, uno di loro insiste nel regalarmi la sua kefiah, sono imbarazzato, ma anche felice ed orgoglioso! Mi ferma anche una famiglia locale di turisti, che vengono dal sud, da Kerman: anche loro son curiosi di sapere come mai sono qui e cosa penso del loro Paese. Padre, madre e due figli adolescenti, vestiti alla moda con maglietta Versace aderente e macchinetta fotografica con la quale vogliono immortalare il momento insieme con me: mi sento una star, la gente mi ferma sempre con discrezione, due chiacchere occasionali, tutti ci tengono a sostenere che ciò che si dice da noi del loro Paese è frutto di falsità, e come non dargli torto...questa è l’ospitalità persiana, quella di cui anche Marco Polo si era tanto stupito nel conoscere, e che sto toccando con mano, e ne sono emozionato, ed orgoglioso. Mi siedo ad aspettare il tramonto sul bordo della grande vasca con le fontane, dove alcuni bambini, scalzi, ci giocano e camminano dentro; viene buio e le volta delle mura che cingono la piazza si illuminano di una luce dorata, quasi magica, che infonde al luogo un tocco di fiabesco. Alcune ragazze giocano a pallavolo sull’erba, c’è tantissima gente che fa pic nic o passeggia, mai vista una piazza così bella e così piena di gente locale dopo il tramonto...affascinato è riduttivo per descrivere tanta meraviglia...
21 Settembre
Anche oggi la giornata comincia con la colazione nella tradizionale e pittoresca sala da Tè del Sahel Hotel. Oggi è venerdì, giorno festivo e di riposo per i musulmani, e ciò è facile percepirlo dalle strade decisamente più vuote. Pochi i negozi aperti, e perfino l’immensa Imam Square è semi deserta, mentre il Bazar chiuso; sono aperte solo le botteghe sotto i portici che circondano la Piazza, pieni in questo caso di famiglie di turisti locali con i sacchetti degli acquisti al seguito. La parte di città più affollata è quella dei numerosi giardini sparsi qua e là, e tutti ben curati e ricchi di alberi, aiuole fiorite e giochi per i bambini! Perfino una famiglia di turisti afgani (!) mi chiede quasi timidamente in un incerto inglese, da dove vengo. Torno da Imam Square verso il ponte Si-o-Seh, e da qui, sotto il sole, seguo la lunga passeggiata che segue il corso (asciutto) del fiume fino ad arrivare al Ponte Chubi, più piccolo, fatto di 21 arcate in mattoni. Qui decido di fermarmi seduto sull’erba a scrivere, all’ombra degli alberi, proprio accanto al ponte stesso; poco distante una famiglia e una coppia di ragazzi, poi ne arriva un’altra, ognuno ha il suo tappeto, il termos, e qualcuno perfino il frigo portatile e il Qalyan (il narghilè locale) per fumare. Qui in Iran funziona così, ovunque ci sia uno spazio verde, ci si accampa a fare pic nic, bella questa tradizione dello stare sempre e il più possibile all’aperto. Attraverso il piccolo ponte pedonale e proseguo sulla riva opposta fino ad un altro ponte, il Khaju, il più antico e forse anche il più bello, con i suoi due livelli di terrazze portificate: qui un gruppo di uomini prova dei canti tradizionali. Ripercorro a ritroso il corso del fiume, le cui sponde sono ormai diventate una continua area pic nic. La parte della città al di qua del fiume Zayandeh è abbastanza anonima, fatta di palazzine e ampi viali alberati. Senza quasi incrociare anima viva, arrivo spingendomi sempre più a sud fino al quartiere della comunità cristiano armena di Jolfa, e quasi per caso, mi imbatto nella piccola Cattedrale di Vank, nulla di chè. La comunità che vive qui da secoli è ben integrata, e vedere simboli di croci cristiane mi fa sorridere pensando alla tanto paventata intolleranza islamica, altro luogo comune della nostra intollerante (quella si) società, nella quale non c’è spazio per le moschee. E’ stata lunga arrivare a piedi fino a qui, sono cotto e mi consolo con uno squisito gelato in una delle tante gelaterie che vendono anche granite, frappè e spremute. A fatica sono di nuovo al Ponte Si-o-Seh prima del tramonto. Chiedo ad un ragazzo di farmi una foto( mi accorgo solo dopo che ha una mano monca), il quale gentilmente non si limita a ciò, ma mi fa un vero e proprio book da diverse angolazioni, solo grazie all’intervento della sua giovane fidanzata riesco ad interrompere la seduta fotografica! davvero squisiti! Sono di nuovo lungo Chahar Bagh Abbasi, ora che il sole è tramontato, di nuovo piena di gente a passeggio. E ho scoperto che il negozio con le vetrine oscurate color rosa e una tenda dello stesso colore come porta di entrata, altro non è che un negozio di intimo femminile, nascosto da occhi indiscreti...
22 Settembre
L’immensa Imam Square alle 9.30 dl mattino ha un’altro aspetto, me la godo quasi deserta con le botteghe chiuse o con i commercianti intenti a mettere fuori dalle stesse le prime merci da esporre. Davanti all’antico arco che fa da porta principale del Bazar, vengo avvicinato da un uomo che somiglia tantissimo a Fernande di Don Camillo, ed è proprio lui stesso a dirmelo con fierezza ed ironia! Facciamo due chiacchere, e mi lascio guidare da lui fino ad una vecchia bottega dove mi fa vedere da vicino la lavorazione dei tappeti e la loro colorazione, e ne approfitto anche per farmi dare alcune dritte sull’itinerario che voglio fare domani: lui mi segna su un pezzo di carta in lingua farsi le domande che dovrò fare all’eventuale tassista. Oggi missione Bazar, ovvero primi veri acquisti: mi addentro nei millenari vicoli al coperto e ben conservati di questo affascinante caravanserraglio, ricco di merci e di gente, prezzi ottimi e poca, quasi nulla, contrattazione, cosa che non mi aspettavo. Qualche commerciante bagna l’asfalto polveroso, mentre altri oziano tranquilli sotto la luce delle lampadine che illuminano le loro botteghe, e altri ancora trascinano a mano e a fatica carretti di legno carichi di merci. Quella di girovagare per un bazar è sempre un’esperienza affascinante. Torno per una breve sosta verso il Sahel Hotel, lungo le strade noto i taxi verdi guidati da donne e riservati a sole donne, anche se di donne, nei normali taxi gialli, ne vedo in gran quantità senza problemi. Oggi è l’ultimo giorno qui ad Esfahan, e non voglio perdermi l’ultimo tramonto ad Imam Square. Prima però un frappè lungo Cahar Bagh Abbasi, già trafficata di auto e autobus locali che la percorrono in continuazione. Oltre ad essere i campioni mondiali del pic nic, gli iraniani a quanto vedo se la caverebbero bene anche alle olimpiadi di mangiatori di gelati: ovunque è pieno di gelaterie dove c’è la coda, e gente di ogni età che passeggia per strada con coni o coppette. Torno ad Imam Square, e qui incontro Ali (Isfahantourguide@gmail.com), un uomo magro e anziano con gli occhiali, in sella ad una vecchia bicicletta, che mi racconta di essere stato professore e che ora fa la guida culturale come ama definirsi: parla perfettamente inglese e francese, contratto un pò con lui, anzi un bel pò visto che dai 50 euro iniziali arriviamo a circa 20, per farmi dare da lui un passaggio domani con la sua auto fino a Toudeshk, nel deserto, la mia prossima tappa. Andando col taxi fino alla stazione dei bus e da lì col bus stesso avrei risparmiato indubbiamente, ma con lo zaino pesante al seguito preferisco optare per una volta ad un pò di “comodità”, in più Ali conosce personalmente Mohammad Jalali, citato sulla Lonely Planet come l’unico che può trovarti un posto dove dormire nel piccolo villaggio di Toudeshk. Stretta di mano e l’affare è fatto, ci rivedremo domani di fronte al Sahel Hotel. Riprendo a vagare nella piazza, gli spazi erbosi cominciano ad essere “occupati” dai pic nic dei locali, mentre io mi ritrovo a scambiare due piacevoli chiacchere stavolta con un viaggiatore solitario dalla Polonia, d’altronde qui è facile riconoscersi talmente siam pochi e rari. Anche lui, come il tedesco Willy nella Valle di Alamut, sottolinea l’eccezionale ospitalità di questo popolo e la chiusura ottusa della nostra società, condizionata dai media e ottusamente alla ricerca del profitto; così l’Iran viene visto (per interessi...) come il “regno del male”...è buffo pensarlo essendo qui in questo “male”. ma ahimè solo chi viaggia e vede coi propri occhi può sapere e conoscere...Anche il polacco è un grande: è entrato in Iran dal nord, in bus, proveniente dall’Armenia, e stanotte ripartirà verso Shiraz: good luck! I profili delle montagne dietro al minareto della Moschea dell’Imam si fanno più definiti, il sole sta cominciando la sua lenta discesa; mentre attendo seduto su una panchina guardando i riflessi di acqua delle fontane, si siede accanto a me, timidamente e con discrezione, un giovane iraniano, per le “solite” due chiacchere di piacere suppongo:quando gli dico che sono italiano, apre la sua valigetta tirando fuori il block notes e chiedendomi se posso aiutarlo ad imparare un pò la mia lingua, visto che la sta già studiando da autodidatta, ed in effetti qualche frase già la sa. Così iniziamo una lunga lezione di italiano, dai numeri alle frasi. Io italian teacher su una panchina di Esfahan, centro Iran, 2013...chi l’avrebbe mai detto! Scende la notte, Imam Square illuminata è stupenda, sembra davvero un luogo fiabesco: in particolare il grande portale di accesso alla Moschea dell’Imam col grande portone in legno, i due minareti e l’imponente facciata di piastrelle dalle tonalità blu e azzurre è stupefacente. Ricorderò a lungo questa meraviglia che saluto tornandomene verso l’Hotel col traffico che nel frattempo è diventato intenso e i marciapiedi affollati di gente e le luci al neon che un pò mi stordiscono stasera.
23 Settembre
Perfettamente d’accordo con la Lonely Planet: la signora del Sahel Hotel che mi trovo davanti aprendo la porta della mia camera, sembra davvero uscita da una favola: è una signora anziana, un pò gobba col suo foulard in testa, mi arriva si e no al petto e sembra proprio la strega di Biancaneve, però è gentilissima, mi saluta calorosamente come se fossi un suo nipote! Dopo la colazione saldo il conto ma...caspita mi son dimenticato completamente di spostare indietro le lancette dell’orologio di un’ora per il ritorno dell’ora legale, così mi tocca aspettare più di un’ora l’arrivo di Alì, seduto sulla poltrona della piccola hall ad osservare il via vai della gente, proprio davanti ad un capolinea dei colorati autobus cittadini, rosa, gialli, azzurri, e taluni trasformati, come da noi, in grandi pubblicità viaggianti. Ecco finalmente Alì, immancabile berretto in testo: salgo sulla sua lunga e vecchia Bmw anni 60, dai vetri sporchi e il motore che fatica a tenere il minimo. Prima di uscire dalla città ci fermiamo a fare benzina in una vecchia stazione di rifornimento, con tutte le pompe dotate di bancomat locali; qui la benzina costa 700 Tomam al litro, meno di 22 centesimi di euro, roba da portarsi via una tanica come souvenir! Usciamo dal traffico cittadino e ci instradiamo lungo una dritta statale a due corsie poco trafficata eccezion fatta per alcuni camion Mercedes. Il paesaggio attorno è arido e deserto. Dopo meno di due ore la borbottante Bmw mi ha portato a Toudeshk: Mohammad Jalali (Silkroadugogmail.com) ci raggiunge col suo scooter per guidarci fino alla sua abitazione, dove mi ospiterà in una sorta di piccolo caravanserraglio poco distante dalla statale: racchiusa da alte mura di fango essicato, una semicorte attorno ad un piccolo cortile con due piante di melograno, una vera e propria casa tradizionale; stanotte dormirò qui, in una grande stanza riservata per gli ospiti, coi tappeti per terra dove sono posti due materassi con cuscini, una scrivania, e un angolo divano fatto sempre di tappeti e cuscini, con un vecchio samovar per il tè e qualche antico oggetto. Ci sediamo, io Alì e Mohammad, su un tappeto steso fuori nel portico della corte, mentre la cognata di Mohammad, Fatma, ci serve del tè insieme a delle fette di anguria. Poi, dopo un pò di chiacchere, il bizzarro Alì saluta e torna (vecchia Bmw permettendo) ad Esfahan dopo avermi lasciato il suo indirizzo email. Arriva anche Reza, fratello e padre della piccola Nastaran, due anni e mezzo, dagli occhi grandi color nocciola.. E’ buffo e tenero vedere suo papà, di professione insegnante, capelli e folta barba nerissimi e occhi chiari, insomma il perfetto identikit del nostro stereotipo di terrorista, mentre coccola, gioca e bacia amabilmente la sua piccola. Della famiglia fanno parte anche altri due figli di Reza e Fatma, un maschio e una femmina, più grandicelli, lei in età adoscenziale col suo hejab un pò improvvisato giusto perchè ci sono io, e un fratello di Reza e Mohammad, decisamente robusto, col suo bambino. Fatima ci serve il pranzo, niente kebap oggi ma un pasticcio di verdure servite con riso ed insalata e da bere...coca cola! Finito il pranzo Mohammad, che non si separa mai dal suo Iphone che squilla in continuazione, mi accompagna a fare due passi a piedi per il villaggio: Toudeshk è fatta tutta di vicoli polverosi circondati da mura di fango color biscotto, che racchiudono le abitazioni nelle quali si entra attraverso massicce porte in legno ed ottone, con le maniglie antiche, divise a seconda se il commensale sia uomo (un lungo chiavistello che rappresenterebbe il pene) o donna (a forma di goccia allungata, ovvero la vagina), sistema ormai non più usato. Alcuni bambini improvvisamente animano le deserte e polverose stradine, sono appena usciti da scuola, le femmine sembrano tante piccole suore col velo rosa in testa. Vedo il mio primo bagdir (torre del vento), una piccola torre bucata da lunghe fessure nella parte superiore, antichi ed ingegnosi sistemi tipici delle zone desertiche che servivano e tutt’ora servono per incanalare nelle stanze sottostanti qualsiasi movimento d’aria, un pò gli antenati dei moderni condizionatori. Una volta rientrati in casa, è Reza stavolta che si offre di portarmi in auto fino al deserto di sabbia, ad una cinquantina di km da qui. Salgo in auto e partiamo lungo l’assolata strada che dopo non molto si addentra in un grande spazio desertico dove alcuni operai stanno lavorando nella costruzione di un ristorante, proprio qui dove inizia il deserto di dune sabbiose (uno scempio). Anche gli operai stessi mi accolgono salutandomi con una stretta di mano uno alla volta! Reza mi aspetterà qui, io me ne andrò per qualche ora da solo nel deserto. Tolte le scarpe mi incammino su per una duna fino ad arrivarne, faticosamente, in cima. E così via, passo dopo passo, con il peso che mi fa sprofondare sia in salita che in discesa quasi fino al ginocchio, per fortuna a quest’ora la sabbia non scotta più. Cammino fino a godermi dall’alto di una delle dune il panorama sconfinato del deserto, qualche raro cespuglio e sabbia, solo sabbia e niente altro; mi ricorda il Soussuslevi in Namibia, certo qui ammetto non è la stessa cosa, ma il panorama è bello e me lo godo in totale solitudine fino a vedere il sole tramontare all’orizzonte. Con la luce del crepuscolo e prima che arrivi il buio totale, ripercorro la strada fatta a ritroso fino a riscendere verso l’auto, divertendomi a correre in discesa sulla sabbia fino quasi a sprofondarci dentro! Reza è lì sdraiato sotto l’auto che si improvvisa meccanico, in compagnia di alcuni degli operai, i quali mi offrono dei gustosi ma salatissimi semi da masticare, non proprio il cibo ideale in un deserto. Reza si sfila la tuta da meccanico e ripartiamo, ora è buio, facciamo una provvidenziale sosta in un paese per la benzina, giusto in tempo, e poi rieccoci nella buia e silenziosissima Toudeshk a casa Jalali. Vengo invitato nella loro grande stanza piena di tappeti, le scarpe come in tutte le altre stanze, lasciate fuori nel patio, e dentro grandi cuscini dove appoggiarsi. Mentre i bambini giocano, la più grande è intenta a rattoppare un quaderno di scuola con dello scotch. Fatma ci porta del tè servito in bicchierini di vetro, mentre il fratello robusto della famiglia mi intrattiene (anche lui parla abbastanza bene l’inglese) facendomi ascoltare della musica tradizionale dal suo cellulare, mentre Mohammad naviga da suo portatile. Anche qui la Lonely ci ha preso: Mohammad conosce bene la zona ed ha agganci un pò ovunque, ne son riprova i tre quaderni di guestbook nella mia stanza, pieni di commenti entusiasti da tutto il mondo; non sembra proprio, ma poco alla volta ne son passati di viaggiatori zaino in spalla in questa casa. Fatma ora stende sui tappeti una grande tovaglia in plastica, è pronta la cena, la mia prima cena tradizionale ospite in famiglia: una grande forma di Num al centro, poi frittata di uova e verdure, e una zuppa con aglio, olio e menta e del pane croccante di segale da scioglierci dentro. Senza dubbio la pietanza più buona mangiata fin ora qui in Iran. Restiamo a chiaccherare, mi sento un pò in imbarazzo perchè non so bene quando togliere il disturbo; dopo un pò di tempo mi alzo salutando e ringraziando per la cena e mi ritiro nella mia grande stanza di tappeti; la cena tipica in famiglia è stata una bella esperienza, ne sono felice. Stanotte dormirò su di un materasso steso per terra ai confini del deserto di Dasht- e Kavir. C’è un bel cielo stella fuori, notte da deserto...
24 Settembre
Dopo la colazione in casa Jalali, è ora di ripartire e lasciare il deserto. Ho concordato il passaggio con Mohammad che con la sua piccola toyota di famiglia mi accompagnerà fino a Yadz, distante quasi 200km in direzione sud. La strada a due corsie e semideserta, come il paesaggio che la contorna. Dopo 40km ci fermiamo nella cittadina di Na’in, già più città ripsetto alla piccolissima Toudeshk, per una veloce visita alla piccola Moschea del Jameh: Mohammad mi aspetta fuori, io entro, l’interno rivestito di mattoni così come il bel minareto; ci sono dei lavori di ristrutturazione, alcuni scorci sono comunque interessanti, come i corridoi sotterranei, decisamente freschi, usati dai fedeli per pregare al riparo dalla calura del deserto. Riprendiamo l’autostrada, il sole picchia forte tanto che la troppa luce offusca fino a nascondere i profili delle montagne in lontananza. Attorno più nulla, l’arido vuoto totale. Ad un certo punto, lungo la strada, sorpassiamo una moto con targa tedesca: Mohammad eccitato, gli fa cenno di accostare e il motociclista lo fa; è un tedesco, viaggiatore solitario, a cui Mohammad chiede dove sia diretto e così comincia a dargli tutta una serie di utili “dritte” e di indirizzi! Lui è affascinato da tutto ciò che riguarda viaggi e viaggiatori; siamo accostati ai bordi della strada assolata sull’asfalto che cuoce, con il viaggiatore tedesco che apre la sua dettagliata mappa: è diretto con la sua Honda nera fino al confine con il Pakystan, distante 600km, che vorrebbe nelle intenzioni attraversare già domani. Approfitta della cordialità e della competenza di Mohammad per chiedergli informazioni e visto che c’è gli domanda sempre in inglese il perchè si sia fermato solo per aiutarlo; poi, rivolgendosi a me, mi dice “ questa gente è meravigliosa!”. Lo so, e lo sento ogni giorno di più. Il tedesco è un gran viaggiatore, ci dice che ha preso un anno sabbatico dal lavoro e che è diretto con la sua moto fino in...Australia! Lungo la strada viaggiando a volte si incontrano personaggi davvero affascinanti, Mohammad ha avuto fiuto. Casco nero di nuovo in testa, in sella alla moto, e pollice alzato, ci saluta così il viaggiatore che riparte per il suo lungo viaggio, good luck great voyager! Anche noi riprendiamo la strada, ora il mio di viaggio mi sembra talmente piccolo piccolo...Arriviamo a Meybod, una cittadina distante 50km da Yadz. Qui Mohammad che ormai mi fa da guida oggi, si ferma prima per farmi visitare la torre degli uccelli, che un tempo ospitava nelle sue piccole nicchie interne fino a 4mila piccioni per ricavarne fertilizzante dal guano, e poi le rovine poco distanti del castello di fango e mattoni di Nareiu, dove entro da solo, nel vero senso della parola visto che a parte l’anziano custode all’entrata, non c’è anima viva (il panorama dall’alto su tutta Meybod con le sue case basse in fango merita davvero). Infine veloce visita ad un caravanserraglio in mattoni completamente ricostruito, quindi un pò finto, con qualche negozietto e nulla più. Brevi soste, fuori fa molto caldo, siamo in zona desertica, seppur a 1200 metri di altitudine (non si direbbe) e si sente. Ed ecco finalmente Yadz! Chiedendo un pò in giro, troviamo alla fine il Silk Road Hotel (il solo nome mi affascina da morire), che da fuori appare come una semplice porta lungo uno dei tanti muri di fango, e una scritta a murales gialla e blu, proprio alle spalle della bella e grande cupola azzurra del Bogheh-ye Sayed Rocknadiu, e due passi dalla Moschea del jameh. Da fuori non diresti, ma una volta scese le scale si apre all’interno un grande e bel cortile con piante e ampie panche/divani in legno rcioperte da tappeti e cuscini, grandi come dei letti quasi matrimoniali, e anche una sala ristoro al coperto con i tavoli. Oltrepassata questa corte, ce ne è una più piccola ed intima con delle porte attorno, una delle quali sarà la mia piccola ma graziosa stanza, arredata in stile antico, con il bagno annesso; mi fermerò qui due notti. Saluto Mohammad, ragazzo un pò taciturno ma efficentissimo: mi lascia i suoi biglietti da visita da dare agli altri viaggiatori che incontro lungo la mia strada. Mi sistemo ed esco per la mia prima esplorazione della parte vecchia della città: Yadz è una città molto più grande di come me la immaginassi, e a prima vista anche la più conservatrice delle città finora visitate; la maggiorparte delle donne qui sono avvolte nei loro neri chador, come tanti fantasmi. Percorro a piedi la centrale Imam Khomeini Street, un viale alberato con i negozi ancora chiusi e poca gente in giro. Parto dalla bella Torre dell’orologio e arrivo fino alla rotatoria Beheshti, al centro della quale tra le fontane campeggia una scultura raffigurante il simbolo della bandiera iraniana. Rispetto ad Esfahan gli spazi verdi sono rari, in attesa che i negozi aprano e la città si animi (non prima delle 17), me ne torno a rilassarmi sulle grandi panche del Silk Road Hotel, nel cortile interno, con una leggera musica di opera in sottofondo, l’ideale per riposare un pò e riprendersi dal caldo soffocante. Sono quasi le 17 quando esco nuovamente e mi addentro tra gli antichi vicoli nel labirinto di mura di fango e qualche passaggio a volta: c’è poca gente, sembra di fare un salto nel passato, mentre mi perdo tra le stradine polverose, ma in qualche modo arrivo alla Prigione di Alessandro, che non è nulla di interessante eccezion fatta per la bella cupola di mattoni visibile dall’esterno. Tra i vicoli, mi ferma qualche ragazzino curioso; qui è impossibile non perdersi, visto che le mura nascondono qualsiasi punto di riferimento. Quasi per caso, mi ritrovo in Imam Khomeini Street, più animata ora che i negozi hanno aperto; c’è qualche anziano seduto per terra che vende vecchi orologi e anelli, tra le botteghe che vendono invece soprattutto dolci, spezie e scarpe. La modernità e la vivacità di Esfahan qui non si vede; in giro incrocio piccoli gruppi di soldati in uniforme mimetica chiara da deserto, kefiah al collo, giovanissimi, penso in libera uscita. Già che ci sono, faccio in un’agenzia viaggi il biglietto del treno per dopodomani, per Tehran: purtroppo i treni sono tutti pieni e mi toccherà per forza prendere l’espresso con partenza alle 6.35 del mattino, levataccia. Costo del biglietto, l’equivalente di 5 euro! Passeggio per questa città, un pò “chiusa”, prima di concedermi una cena con pollo fritto e riso al semplice e senza fronzoli Baharestan Restaurant, come un qualsiasi locale.
25 Settembre
Non male la scelta della colazione a buffet del Silk Road Hotel; c’è anche qualche altro viaggiatore, perfino dei giapponesi (mi stavo quasi preoccupando a non averne ancora incontrati). Esco prima che il sole sia troppo forte, passo accanto alla vicina Moschea del Jameh, dove sia la cupola che l’alto e stretto portale di ingresso con i due minareti rivestiti di piastrelle azzurre, sono in ristrutturazione. Mi addentro tra i vicoli dell’antica città, deserti, tra le mura di fango color biscotto e le numerose torrette dei bagdir, con i pali della luce in legno e qualche necrologio appiccicato sopra. Qualcuno passa in moto tra gli stretti vicoli, mentre qualche anziano espone della frutta da vendere all’ombra dei sottopassaggi a volta, per il resto non c’è anima viva in questa che a detta dell’Unesco, è uno dei più antichi insediamenti umani. Camminare tra i vicoli è suggestivo. Mi ritrovo per caso in un piccolo bazar al coperto, poco caratteristico, per finire poi nuovamente in Imam Khomeini Street che percorro in lungo fin oltre la rotatoria per poi fermarmi a sedere in un piccolo locale dotato come tutti di lavandino per lavarsi le mani, a prendere una fresca spremuta di melograno. Ora il caldo comincia a farsi sentire e stare in giro è faticoso, tanto che preferisco una ritirata nella mia piccola camera nell’oasi del Silk Road Hotel per poi riuscire quando il sole comincia a calare e ritrovarmi nuovamente tra i vicoli della città vecchia, che sembrano quasi disabitati, eppure dietro a queste mura vivono famiglie, c’è gente, ma il labirinto sembra nascondere tutto e tutti. Però è proprio qui che mi capita di fare un incontro inusuale pensando ai nostri luoghi comuni: incrocio due ragazze, con il loro hejab in testa e soprabiti alla moda; mi salutano e mi chiedono da dove vengo, una delle due parla un perfetto inglese, così cominciamo a chiaccherare, si fanno fare una foto e con una ci scambiamo perfino il contatto facebook. Continuo così nella mia esplorazione tra i vicoli, ora la luce del sole sembra quasi tingere di arancione le mura. Spunto di nuovo nella via principale, di fronte alla Moschea Hariez, stranamente presidiata da due giovani soldati armati; chiedo se è possibile entrare, quasi cogliendoli di sorpresa, tanto che non san che dirmi ma dopo essersi consultati e avermi chiesto la provenienza, sorridono e mi danno il benvenuto facendomi cenno di entrare, mah...una volta nel cortile, con mia sorpresa ed imbarazzo, mi accorgo che dentro ci son solo militari e ufficiali dell’esercito in una sorta di brindisi, infatti tutt’attorno è allestita una mostra a pannelli: l’ufficiale più vicino, rimane spiazzato quanto me nel vedermi, il giovane piantone da dietro gli dice “italian tourist”, allora la sua espressione di stupore si tramuta in un sorriso e in un invito a fare tutte le fotografie che voglio per portarle poi al mio Paese! E’ incredibile! La mostra è dedicata ad immagini di martiri di guerra e contro l’occidente, in particolare contro i crimini commessi dagli israeliani in Palestina e dagli Usa in tutto il Medio Oriente, con immagini anche crude ma che ben testimoniano, se ancora ce ne fosse bisogno, le atrocità commesse in terre poco lontane da qui. Sono l’unico occidentale qua dentro in mezzo a solo militari, ma ora non mi sento per nulla a disagio e loro neanche; scatto foto, poi ringrazio e me ne esco dalla moschea, quando il giovane militare che mi ha dato l’ok per entrare mi chiama da dietro e mi sussurra un “I love Francesco Totti”. Credo che questo pomeriggio con questi due incontri uno in seguito all’altro, lo ricorderò come uno dei più surreali ma piacevoli! Arrivo all’ultima cosa che mi resta da visitare qua in città, ovvero il complesso di Amir Chakhmaq, che altro non è che una bella facciata a tre piani di file di nicchie che si estende in lunghezza; dentro un corridoio con una fila di modesti negozi di kebap, dove mi fermo a sedere in uno di essi, gestito da due anziani uomini. Il richiamo alla preghiera del muezin diffuso dagli altoparlanti delle moschee annuncia l’arrivo della sera, lungo il trafficato viale principale un fornaio sforna grandi forme di num e c’è la fila per comprarle. Yadz è strana, i vicoli della città vecchia sono qualcosa di unico, in generale però, seppur anche qui sono tutti gentili e affabili come altrove, si avverte un pò più di distanza in questa città conservatrice, ma forse è solo una mia impressione.
26 Settembre
Panico: sono le 5.55 del mattino e sono fuori da oltre 10 minuti dal Silk Road Hotel, tutti dormono, io aspetto il taxi prenotato ieri che ancora non si vede. Decido allora di camminare fino all’incrocio con la principale Imam Khomeini Street, la città a quest’ora è ancora deserta. Provo a fare l’autostop alle poche auto che transitano: si fermano giusto un taxi, ma l’autista non parla inglese e perdo qualche minuto per fargli capire cos’è un treno, alla fine idea geniale, provo col classico “ciuf ciuff” che funziona sempre! Salgo a bordo e in poco più di 5 minuti di strada sono alla sala d’attesa della piccola stazione ferroviaria, giusto in tempo! Dei controllori verificano il biglietto e fanno salire a bordo del moderno treno che ha i posti assegnati; sono l’unico straniero a bordo. Puntuale alle 6.35 il treno parte, così lascio Yadz, ultima tappa del mio itinerario, per risalire fino alla capitale Tehran. I binari scorrono lungo il piatto e arido deserto con le montagne in lontananza. Due brevi fermate a Meybod e Ardakan, da qui in poi il paesaggio si fa sempre più verde, qualche cespuglio e i primi rari alberi. Sono le 10 quando il treno passa per Kashan e qui si che il paesaggio diventa bellissimo, il treno infatti corre vicino alle montagne dalle forme e dai colori straordinari; leggo, mentre il personale del treno dopo aver offerto una piccola colazione gratuita, fa avanti e indietro a vendere tè o caffè. Ci sono quasi, il treno comincia a rallentare mentre percorre l’infinita periferia di Tehran, arrivando pochi minuti dopo alla grande ed affollata stazione. Scendo e dopo esserne uscito, entro subito alle prese con un gruppo di tassisti per contrattare il prezzo della corsa; estenuante, ecco forse i tassisti sono l’unica categoria di persone in Iran che provano a “fregarti” qualche Rial. Alla fine parto, ritrovandomi subito nell’infernale traffico di una delle capitali più popolose al mondo coi suoi oltre 15 milioni di abitanti, e auto, moto e motocicli che sfrecciano da tutte le parti. Arrivo al Firouzeh Hotel, dove stavolta faccio conoscenza con Mr. Moussavi, il cordiale proprietario con cui mi ero scritto via email dall’Italia, e che al mio arrivo qualche giorno fa non era presente. Mi sistemo nella mia piccola e semplice camera, doccia e di nuovo via per la strada; fuori dall’hotel la via è piena di gommisti e venditori di accessori auto, vecchie case con decine e decine di malandati condizionatori sulle facciate. Mi dirigo a sud verso la parte vecchia della città, direzione Bazar. Arrivo alla Moschea dell’Imam, due minareti color giallo non tanto alti e una torretta dell’orologio al centro: il cortile con al centro la vasca delle abluzioni è praticamente all’interno del bazar stesso, il passaggio di gente è continuo, e da qui entro anche io nell’antichissimo bazar, diverso da quello di Esfahan. Qui è un piccolo inferno: piccole strade coperte da alti e improvvisati tetti di lamiera, colme di merci divise anche qui per genere, ed un frenetico andirivieni di carretti trainati a mano e a fatica, anche essi strapieni di pacchi e scatoloni! E’ un’impresa camminare tranquillamente, si rischia di essere sempre investiti da questi carretti. Curioso un pò fino ad uscire nuovamente all’aperto da una delle stradine laterali ritrovandomi lungo una via di negozi dediti interamente alla vendita di moderne macchine da cucire: qui come in molte parti dell’Asia, ogni via è divisa commercialmente per genere di merce. Cammino fino ad arrivare al Park-e Shahr, una vera grande oasi di verde e di pace all’interno della città: alberi secolari, aiuole, belle fontane e anche qui una piccola mostra a pannelli sulla passata guerra con l’Iraq. Non ho nulla da fare, e camminare tra il caos di motori e clacson per cercare musei proprio non mi va, così me ne sto un pò qui, seduto su una panchina all’ombra, ad osservare la gente; ci sono uomini d’affari in camicia con le loro valigette, anziani seduti che sembrano discutere dei destini del mondo, ragazze a gruppetti, chi in chador, chi con solo l’hejab che passeggiano, coppie di giovani che si tengono teneramente per mano e bambini che si divertono sugli scivoli colorati, sulle giostre o sui buffi attrezzi per fare ginnastica. Ci sono anche dei tavoli da ping pong usati da gente di ogni età e qualche gatto che si infila tra le piante. Insomma, scene di vita quotidiana di un Paese che non è proprio come qualcuno ce lo vuole dipingere. Esco da questo grande parco cittadino e trovo in un negozio di articoli militari, anche la toppa della bandiera iraniana per la mia collezione, e compro anche, poco distante in un mercatino rionale, un paio di scatole di squisiti datteri, dal sapore decisamente diverso e migliore di quelli venduti da noi. Torno verso l’hotel, essendo nella parte vecchia della città, c’è poca scelta qui di posti dove mangiare, così entro e mi siedo a mangiare un kebap in uno dei pochi piccoli e malandati locali vicini alle fermate degli autobus. Il sole tramonta proprio alle spalle della colonna con a capo il simbolo della bandiera iraniana, al centro della grande e trafficata rotatoria di Imam Khomeini Square. Ora attraversare le strade a sei corsie e senza semafori di questa parte della città, diventa davvero un’impresa.
27 Settembre
Amo la metropolitana di Teharn! A 5 minuti di cammino dal Firouzeh Hotel c’è la fermata Mellat della Linea 2 (blu) dell’economica (un biglietto 400 tomam, 12 centesimi) moderna e pulitissima metropolitana, le cui fermate sono anche scritte in inglese, e ciascuna col relativo tempo mancante di percorrenza, very good! Ci sono vagani riservati a sole donne, ma diverse le vedo anche nei vagoni misti, tanto che ne entrano tre e un signore si alza per fare sedere quella più anziana. In effetti il rispetto per gli anziani si vede che è molto sentito, la gente senza batter ciglio nè domandare, si alza appena si avvicina una persona più anziana, come un automatico meccanismo collaudato, l’esatto contrario che da noi. Scendo alla fermata Azadi, ma da qui all’omonima piazza verso cui sono diretto, c’è un bel pò di strada da fare, lungo un ampio doppio viale che assomiglia ad una tangenziale, tanto che per attraversare ci si serve dei numerosi ponti pedonali sopraelevati, alcuni perfino dotati di scale mobili. Questa parte di città è decisamente più moderna. Arrivo nella grande Azadi Square, una rotatoria stradale con al centro, contornata da aiuole, fiori e grandi drappi verticali coi colori della bandiera iraniana, la torre bianca di Azadi, alta 50 metri, che termina aprendosi alla base creando un arco, è il simbolo della città. E’ qui che si tengono le più grandi manifestazioni, ed è qui, in questo immenso spiazzo, che nacquero le prime sommosse che portarono alla Rivoluzione del 1979. Mentre faccio delle foto mi ferma un giovane soldato, ma solo perchè vuole che glie ne faccia una, anzi due, una insieme a me. Per salire in cima alla torre bisogna pagare anche il biglietto per il museo di pietre preziose che è alla sua base: dall’alto la vista di Tehran attraverso le vetrate è impressionante, con lo sfondo delle montagne a nord, dove spicca anche l’alta torre della tv, gli immensi viali a più corsie con le auto che sembrano tante formiche impazzite, e case a perdita d’occhio. Tehran è davvero grande! Lo spiazzo vuoto sottostante è pressochè vuoto di pedoni, non essendo qui un’arteria pedonale. Scendo e ripercorro a ritroso la strada (concedendomi un gelato) verso la fermata della metro: oltre ai carretti che vendono melograni e uva, si vedono grandi murales o cartelli appesi ai pali della luce, che commemorano i martiri della guerra con l’Iraq o raffigurano i volti dell’austero Khomeini e dell’attuale Imam Ali Khamenei. Riprendo la metro linea blu, per interscambiare poi con la linea rossa in direzione nord, fino alla fermata Taleghani. La rete della metropolitana è molto vasta. Una volte in superficie, percorro un grande viale con grandi palazzi e banche, fin dove sorgeva una volta l’ambasciata statunitense, almeno fino al 1980, anno in cui gli studenti iraniani in rivolta ne rapirono l’intero personale per ben 444 giorni (in risposta allo stato di asilo politico concesso allo Scià dagli Stati Uniti, pronti attraverso un piano di colpo di stato, a reintrodurlo nel Paese). Oggi il luogo è sede di un museo dei martiri, sul quale campeggia la bandiera nazionale, e le mura di cinta sono dipinte con murales anti americani e sionisti. Chiedo e ottengo di fare delle fotografie. Arrivo fino ad Enqelab Avenue, ampio ma poco interessante viale, se non fosse per la serie di negozi di scarpe di tutte le marche e tutte a buon mercato, e poi arrivo ad Vailars Avenue, una lunghissima via commerciale considerata una delle vie di negozi più lunga al mondo. Questo è un altro volto di Tehran: la parte sud, quella più antica, grigia e conservatrice, sembra distante anni luce; qui invece tanti negozi alla moda, locali, ristoranti anche etnici, gelaterie e frullaterie ovunque, e soprattutto tantissimi giovani, le ragazze vestite alla moda e con minimalisti e colorati hejab. Una Teharn dalla vitalità incredibile, frizzante! Non me lo aspettavo. Questa città è strana, non si può amare, ma dopo averla odiata riesco ad apprezzarne i tanti volti positivi ed inaspettata (santa metropolitana!). Riprendo la metro per arrivare all’estrema parte settentrionale della città, a ridosso delle montagne, al capolinea della Linea 1, Tairish. Incontro sul vagone il primo italiano da quando sono qui, un signore bresciano che mi riconosce dalla maglietta che indosso: chiaccheriamo un pò, lui è già stato a Tairish e mi preannuncia che lì troverò un’altra faccia ancora della città, e aggiunge queste parole che riporto: ”in nessuna altra parte del mondo si trova un popolo più cordiale, che ti dà tutto senza chiederti nulla in cambio; e quando lo si racconterà in Italia, nessuno ci crederà, penseranno che abbiamo noi dei preconcetti...solo chi lo vive può capire...”...e aggiungo io, solo che non “assimila” le verità dettategli, ma le cerca, le verifica, le scopre...Questo è l’Iran, un Paese pieno di energia, e non certo quella che manda in paranoia pretestuosa Israele e gli Usa. Sono finalmente a Tairish, saluto il bresciano e salgo in superficie. La zona è tutta in salita, circondata da vicino dalle montagne ( da qui si può salire con gli skylift fino a 3000 metri!); mi inoltro in uno stretto piccolo bazar coperto, tanta merce ad ottimi prezzi, e nonostante sia affollato, mi appare meno opprimente di quello a sud e soprattutto senza i carretti killer. E’ molto piccolo, e finisce a lato di una bella moschea color azzurro carta da zucchero, tra lustrascarpe e venditori di datteri e noci; la moschea sembra bardata a festa, con tante bandierine colorate e tanta gente. Le donne per entrare si coprono con dei veli bianchi, molta gente è stesa e seduta a terra a fare pic nic tutto attorno, ci deve essere una ricorrenza che ignoro. Chiedo informazioni per arrivare al complesso museale di Sa’d Abad, l’ex residenza estiva dello Scià di Persia, e anche queste sono occasioni per scambiare due chiacchere e stringere mani, come con due signori che parlano inglese e conoscono la storia dell’arte italiana. Dopo un lungo tratto in salita arrivo fino all’ingresso del Palazzo, ma un gendarme mi dice che oggi è chiuso, peccato, ma in compenso ci sono poco distanti nel parco una serie di stand con in vendita prodotti tradizionali del Kurdistan iraniano! Anche grandi tende dove donne dai costumi tipici cucinano in grandi pentoloni, e uomini armati di spade che eseguono balli e canti attorniati da gente entusiasta che applaude e partecipa: insomma, ogni passo una sorpresa oggi! L’atmosfera è bella, ci sono anche dei depliant turistici sul Kurdistan iraniano, con foto di paesaggi straordinari, e le rotelle della mia testa cominciano a girare più velocemente pensando a futuri viaggi...approfondirò! Mi concedo un pò di tempo qui poi scendo di nuovo verso la piazza, il sole sta tramontando, si accendono le luci e l’intero quartiere di Tairish brulica sempre più di gente, aveva ragione il viaggiatore bresciano incontrato qualche ora fa. Ceno qua, e poi scendo i ben 4 lunghi dislivelli di scale mobili per riprendere la metropolitana: a bordo tanta gente, qualcuno passa tra i vagoni vendendo mappe della città, qualcun’altro cicche da masticare e caramelle o ancora penne e porta documenti. Arrivo dopo un lungo viaggio sotterraneo (qui le distanze son enormi) fino in Amir Kabir Street, la via dei gommisti e ricambisti d’ auto, ormai tutti chiusi visto che è buio. Mentre cammino verso l’hotel un signore anziano mi chiede qualcosa, la via è deserta e capisco che vuole una mano ad attraversare la strada: lo prendo a braccetto, e come se fossi ormai uno del posto, lo aiuto ad attraversare questo inferno di auto e moto che per lui sarebbe stato impossibile. Lentamente arriviamo al lato opposto dell’ampia strada, lui mi ringrazia mettendosi la mano sul cuore e dicendomi qualcosa in farsi che non capisco; ma in realtà sono io che ringrazio lui come simbolo di un popolo che mi sta dando tanto, e che mi sta regalando un senso di umanità che ancora non conoscevo...
28 Settembre
A quest’ora del mattino la metropolitana non è ancora piena, sono le 8.20 ed è venerdì, giorno festivo quindi. Prendo la Linea 1 e scendo alla fermata Mirdamar, e da qui mi faccio un lungo tratto a piedi tra vie e viali pressochè deserti fino a Vanak Square; da qui riscendo per farmi un altro tratto della lunghissima Valiasr Street, ma non è stata una grande idea, questo a nord è un tratto con pochi negozi e per di più chiusi. E mi capita anche il “trucco” già descritto dalla Lonely Planet del finto poliziotto: sono solo nella via e vengo avvicinato da un ragazzo con il berretto e gli occhiali scuri che mi saluta gentilmente e mi mostra una specie di biglietto da visita spacciandolo per il tesserino della polizia turistica e chiedendomi di fornirgli il passaporto (ovviamente per rubarselo); la Lonely infatti descrive questo stratagemma come l’unico possibile rischio che possa capitare da queste parti, solo in vie deserte ed in effetti vista l’ora e la giornata festiva...però lo so e non ci casco ed è sufficiente un secco no da parte mia perchè il tipo si dilegui nel nulla blaterando qualcosa (in Iran la polizia si presenta solo in divisa). Continuo la mia camminata fino a riprendere la metropolitana e cercare un pò di vita ancora a Tairish: e il quartiere che mi è proprio piaciuto ieri, non mi delude. Qui c’è molta gente a spasso, i tassisti a bordo strada aspettano come avvoltoi i clienti chiamando a voce le destinazioni più vicine, quelle verso la montagna, e sia i negozi che le botteghe del piccolo bazar sono aperte. L’aria è molto tersa oggi, la temperatura è gradevole e i profili delle vicine montagne sono nettamente delineati nel cielo di un blu intenso. Rifaccio la salita fatta ieri fino a raggiungere il complesso di Sa’d Abad, oggi aperto; tante le famiglie a passeggio lungo le strade che attraverso un bel parco portano fin su alle varie palazzine oggi musei che furono residenza estiva dello Scià prima della sua cacciata avvenuta nel 1979. Entro in una di queste, tutta in marmo bianco e con una fontana nel giardino antistante: l’interno è di uno sfarzo esagerato, enormi sale con intere pareti di vetro e cristalli preziosi, grandi tappeti ovunque, mobilia e lampadari degni di una reggia...insomma lo Scià, amico degli americani, se la passava mica male quassù sulle verdi e silenziose alture mentre il popolo era affamato. Scendo ora fino alle bancarelle dei curdi viste ieri, tra cibi e artigianato c’è anche quella che promuove il turismo nella zona curda (in Iran, a differenza di altrove dove vengono perseguitati, i curdi pare siano ben integrati) e un gentile addetto mi regala un dvd informativo tradotto in inglese. C’è una bella atmosfera, mentre in uno stand si canta e si suonano tamburi e cornamusa tipiche al ritmo festante di battimani e grida da concerto, in un altro stand altre donne anziane coi loro tradizionali costumi, cucinano cibi curdi. Faccio qualche acquisto e intanto formulo possibili futuri viaggi nella zona...Scendo nuovamente fino a Tairish, devo anche finire in qualche modo i miei ultimi Rial visto che non posso ricambiarli, così vago per i banchi colmi di merce avanti ed indietro più volte. La bella moschea color carta da zucchero e addobbata a festa, oggi è ancora più affollata, c’è un via vai continuo, tante le donne e i bambini, alcuni dei quali giocano accanto alla piccola vasca per le abluzioni; tutti portano con sè sacchi di sale, venduti tutt’attorno alla zona, deve esserci qualche ricorrenza particolare, e nessuno fa caso alla mia presenza curiosa. Il tempo passa tra uno scatto e l’altro, fino quasi al tramonto; tanti giovani scendono dalle montagne con gli scarponcini da trekking legati agli zaini, Tairish si anima sempre di più col passare del tempo, diventa difficile camminare nel piccolo bazar, dove spuntano anche persone che vendono jeans e maglie gettate per terra su teli di plastica, probabilmente di contrabbando visto che si guardano intorno mentre la gente si accalca per comprare. Mi fermo a cenare in un locale, con l’ultimo kebap iraniano di questo mio viaggio, il classico spiedino di carne alla griglia e pollo, affondati in una montagna di riso con l’immancabile pomodoro grigliato. Dò così il mio saluto a questa bella parte della città. Dalle scale mobili della metropolitana sale un fiume impressionante di gente, si nota una certa mescolanza di etnie e tratti somatici differenti: turkmeni, armeni, afgani, curdi...anche in direzione contraria, la mia, c’è tanta gente che torna. Dopo il lungo viaggio in metro, arrivo alla fermata di Imam Khomeini, la piazza qui invece è pressochè deserta di pedoni, solo auto: se non fosse che perdere sarebbe alquanto doloroso, l’attraversamento delle ampie strade qui, tra auto e motocicli che sfrecciano senza rallentare, sarebbe anche un gioco divertente, però un pò lo sta comunque diventando per me. Ormai con una certa spavalderia, mi faccio l’ultima attraversata da un marciapiede all’altro di Kabir Street, e vinco ancora io, arrivando salvo sul lato opposto, in questa piccola avventura di questo straordinario viaggio in Iran. Questa è la mia ultima notte qui a Tehran.
29 Settembre
E’ la prima volta che vedo le strade di Tehran così vuote, sono le 5.45 del mattino mentre il taxi che taxi non è (ma l’auto privata di un amico del receptionist del Firouzeh che me l’ha prenotato) mi sta portando all’aeroporto. Dopo 15 giorni di bel tempo, stanotte c’è stato un forte temporale, per terra l’asfalto è ancora bagnato, ma sta tornando il sereno. Che dire, anche questa avventura sta volgendo al termine, un altro sogno realizzato, un’altra esperienza di vita che mi ha regalato tante emozioni e di cui spero di fare tesoro. Tanti i pensieri nella testa in questo momento: le silenziose e stupende montagne della Valle di Alamut, la modernità e l’inaspettata efficenza di questo Paese dai mille volti, i vicoli misteriosi di Yadz, il deserto, l’immensa e affascinante Imam Square ad Esfahan...e i viaggiatori folli incontrati lungo questo breve cammino, dal tedesco Willy che parla il farsi ed è al suo secondo viaggio qui dopo aver girato mezzo mondo, quel mondo che ora un altro suo connazionale (chissà dove sarà ora) si sta girando in sella alla sua moto Honda, al polacco arrivato in bus dall’Armenia, al bresciano “profeta”...a volte al cospetto di questa gente mi sento così piccolo, però nel mio piccolo sono orgoglioso di esserci arrivato anche io in questa magnifica terra, di averci messo il naso e vare visto coi miei occhi per sfatare i luoghi comuni e le menzogne che ora a ragion veduta posso definire tali. Per molti sembra un’impresa o una pazzia venir fin qui, ma una volta che ci sei, capisci che questo è uno dei viaggi più sicuri che possano esistere! Ma più di tutto ciò, dell’Iran ricorderò e mi porterò dentro per sempre, la genuina, spensierata ed infinita cordialità di questo Popolo, che non può essere descritta in nessun modo, che va vissuta, trasmessa, e conservata gelosamente nel proprio cuore...