RTW 2014
Canada,  Stati Uniti, Australia, 
Filippine, Ethiopia

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Canada
S.Francisco
Australia
Filippine
Ethiopia

07 Aprile 2014   


Comincia così, da un semi deserto aeroporto di Milano Malpensa, in attesa al Gate B37 di un volo diretto ad Istanbul, alle 05.30 di un uggiosa mattinata, un sogno coltivato da anni: il mio Giro del Mondo! Un piccolo giro del mondo, per via dell’impossibilità di avere più giorni causa lavoro, che comincerà da Toronto, in Canada, per finire in Ethiopia, in 40 giorni in cui toccherò tutti i continenti, passando anche per gli Stati Uniti, l’Australia e le Filippine. Ancora prevale in me la tensione tipica di ogni partenza, mista alla stanchezza dopo una notte quasi insonne. Il Gate comincia lentamente ad animarsi di facce sonnolenti e silenziose, tra uno sbadiglio e l’altro faccio mente locale se ho preso tutto l’occorrente con me, ma poco importa ormai, e l’adrenalina comincia a salire...si parte!

...Sono le 11.20 ora canadese, le 17.20 in Italia, mancano ancora 7 ore a destinazione; il volo 0017 della Turkish Airlines sembra un piccolo ombelico del mondo, con a bordo un mix di etnie e colori che raramente mi è capitato di vedere su di un aereo: due ragazze indiane che sembrano uscite da un film di Bollywood, una famiglia sik con le donne avvolte nei loro saari coloratissimi e gli uomini col caratteristico turbante in testa, diversi ebrei con al capo la chippà, e un gruppo di iraniani che già avevo notato in coda al controllo passaporti nello scalo ad Istanbul, e ancora uomini e donne di colore, occidentali e nella mia fila un tizio che sembra in procinto di tornare nei boschi alla sua baita, tipico boscaiolo con barba e capelli rossi e camicia a quadri! Bizzarro! Il volo, per quanto sia confortevole, sarà lungo, arriverò a tarda sera, ma già un pò comincio a realizzare di non essere più nella mia “piccola” e ovattata realtà occidentale. Sonno, tanto sonno. Sono le 18.30 ora locale quando finalmente, sotto ad una pioggia battente, atterro all’aeroporto di Toronto, in Canada. Il controllo passaporti è veloce, molto meno invece il ritiro dei bagagli, che arrivano alla spicciolata, tranne il mio e pochi altri, tanto che, complice anche la stanchezza, comincio a dipingermi nella testa gli scenari più cupi avvolto da un alone di pessimismo: come farò a fare il mio giro del mondo senza nulla, dai vestiti alle scarpe, alle medicine...ma mentre la mia testa vaga in questi cupi pensieri, finalmente eccolo spuntare il mio mitico zaino, che li caccia tutti via e l’avventura può cominciare! Cambio i miei primi dollari canadesi e prendo subito il biglietto dell’Airport Express (27 Cad), il bus navetta che porta in città, e che prendo di lì a poco. Sono in Nord America, per la prima volta, e si vede: una volta entrato in città a bordo del bus, comincio a vedere nonostante il buio della sera, i grattacieli e le enormi insegne al neon un pò ovunque. Scendo, mappa alla mano, alla fermata vicino a Dundan Street. Piove a dirotto, ed ho due alternative per arrivare alla Chinatown Traveller’s Home Guesthouse (dove ho prenotato la camera dall’Italia), nel quartiere cinese: cercare un taxi e cominciare il viaggio facendomi spennare economicamente, o farmela a piedi sotto questo acquazzone carico di zaini avanti e dietro. Ci penso giusto pochi secondi e mi ritrovo a barcollare carico come un mulo nelle strade pressochè deserte, arrivando fradicio nella via della guesthouse, che non ha insegna ma solo un citofono/telefono con il quale chiamo il giovane proprietario cinese che trafelato arriva da fuori aprendomi con le chiavi la porta di quella che è una casa con più camere, un piccolo bagno in comune (con il rotolo della carta igienica legata addirittura con un vero lucchetto per biciclette), una sporca cucina e...piccole telecamere a circuito chiuso messe un pò ovunque! Insomma una cinesata in piena regola, non proprio tipica del luogo, ma a questi costi qui a Toronto non si trova altro. Mi accontento per questa notte di queste 4 mura spoglie e bianche con incastrato tra loro un letto dalle lenzuola viola. Domani al mio risveglio, dopo quasi due notti insonni, forse mi renderò davvero conto che questo è l’inizio di un sogno...


8 Aprile


Sono riuscito a dormire, anche se non quanto avrei voluto; fuori piove a tratti, e fa freddo. Il cielo sopra Toronto è grigio quando esco di buon mattino lungo Financial District: le strade sono trafficate ma non eccessivamente, in molti si spostano in bicicletta, tutti, ma proprio tutti, coi loro caschi da ciclisti, mentre diversi passanti si recano al lavoro o a scuola con in mano grandi bicchieri di carta pieni di cappuccio o tè caldo. La prima cosa che salta all’occhio è la disparità sociale, ci sono diversi homeless sdraiati per terra e sommersi da cumuli di vecchie e sporche coperte per ripararsi dal freddo, il chè stride non poco vedendoli tra i grattacieli e gli alti palazzi di questo quartiere. A piedi mi dirigo verso la baia, dopo essere prima passato dalla stazione degli autobus a chiedere informazioni ed orari per andare l’indomani a Niagara Falls. Harbourfront, dove c’è la baia appunto, è un cantiere a cielo aperto, con operai (tutti col casco protettivo) e alte gru ovunque; stanno rifacendo il look a questa parte di città. In pochi minuti da qui sono ai piedi della Cn Tower, l’alta torre simbolo della città di Toronto, ora semicoperta dalle nuvole; sembra un’enorme lancia di cemento puntata verso il cielo, proprio a lato dello stadio della locale squadra di baseball, il Roger Center e di un museo ferroviario. Decisamente più interessante visto da qui è lo skyline  della città coi suoi grattacieli di vetro, peccato solo per il cielo grigio. Mappa alla mano, continuo a girovagare, ma più per orientarmi che non per andare verso un luogo preciso. Intanto smette di piovere e il cielo comincia finalmente a fare intravedere qualche squarcio di azzurro; fuori dai portoni dei grandi palazzi del quartiere finanziario, uomini e donne in abiti eleganti battono i denti dal freddo per fumarsi la sigaretta, sembra quasi una moda a giudicare da quanti sono, ed in effetti l’aria è pungente, tira un vento gelido e la colonnina di mercurio segna -3 gradi a mezzogiorno. Asiatici (tanti), indiani, afroamericani...Toronto mi appare come una città multietnica e sembrano tutti perfettamente integrati: il tassista con la lunga tunica bianca e il copricapo islamico che aiuta una elegante signora/manager occidentale a caricare le borse sul suo taxi, o il poliziotto sik col turbante in testa, scene neanche immaginabili da noi; d’altronde anche alcuni gonfaloni appesi ai pali riportano la scritta “benvenuti a Toronto” in molteplici lingue. Multietnica e, nonostante le dimensioni, non frenetica, quasi nessuno corre o va di fretta. Arrivo fino al St Lawrence Market, un antico mercato al coperto, con grandi banchi di frutta e verdura, pesce fresco e carni, negozi di souvenirs (quasi tutti gestiti da cinesi) e dolci, tra cui l’onnipresente specialità locale di sciroppo d’acero . In questa zona i grattacieli lasciano spazio a vecchie case di epoca vittoriana, tutte ben tenute, uno o due piani al massimo e col tetto stretto a spiovere; passo accanto all’antica St Lawrence Cathedral (dentro è vietato entrare con macchina fotografica) in stile gotico, e mi dirigo nuovamente verso Downtown: gli ampi marciapiedi si sono nel frattempo animati di giovani che escono dalle scuole e dalle università, e perfino di qualche scoiattolo che salta tra i rami degli alberi dei pochi e ben tenuti giardinetti della città. Dopo una sbirciata ai piani eleganti del grande centro commerciale Eaton Centre, le mie forze mi obbligano ad una sosta gastronomica: la scelta fra i numerosi fast food e ristoranti è notevole, ma opto per il meno frequentato ristorante arabo in Dundan St per un’abbondante porzione di keebap riso e verdure.

Il sole! Ora Toronto indossa un altro vestito, che le dona decisamente di più: con il cielo di un azzurro terso tutto ha un altro aspetto, lo skyline visto ora dall’ Harbourfront è molto bello, anche la CN Tower finalmente appare più slanciata ed elegante. Lungo la passeggiata pedonale in legno che costeggia le calme acque della baia, c’è chi fa jogging (perfino in tenuta estiva), chi va in bici o a passeggio e chi, come me, se ne sta seduto sulle panchine di marmo a leggere, scrivere o semplicemente ad osservare papere e gabbiani. E’ un luogo tranquillo qui, non corre nessuno se non per fare jogging, Toronto è una metropoli poco frenetica, anch’essa con le sue stranezze: pulita, a misura disabili, dove tutti gli operai e i ciclisti indossano i caschetti protettivi, perfino un bambino sul triciclo lo ha su; una città senza edicole, dove giornali e riviste vengono venduti in apposite colonnine con lo stesso meccanismo dei parchimetri. Dall’Harbourfront risalgo verso Downtown, oggi c’è la partita di baseball della squadra locale, i Blue Jays, e fuori dai cancelli del Roger Center arrivano i tifosi, con le felpe e i berretti blu, senza scorte, c’è solo un poliziotto ad ognuna delle 4 entrate dello stadio, non c’è di sicuro il clima pre partita delle nostre partite calcistiche, nel male e nel bene. Tutto attorno al complesso i bagarini provano a vendere i biglietti, a fianco ai chioschi che vendono il merchandising ufficiale ed ai venditori ambulanti di hotdogs; per un attimo mi balena pure la curiosità di assistere all’incontro, ma sono all’inizio del viaggio e prevale il buon senso, quello del risparmio. Così me ne ritorno a sedere lungo lungo la tranquilla baia ad aspettare il tramonto in compagnia di gabbiani e papere starnazzanti, osservando gli aerei che atterrano poco distanti nel locale aeroporto cittadino. Sono ormai le 20.30 e ancora il cielo non è completamente buio, ma già si accendono le mille luci dei grattacieli e lo skyline si veste a sera. Sono al termine del primo giorno di questo lungo viaggio, penso a quanto è lontana da qui l’Ethiopia, la mia tappa finale, in tutti i sensi, e a come sarà strano attraversare mondi così diversi tra loro in un unico giro. Sto entrando, anzi già lo sono, nella dimensione che più mi appartiene, quella del viaggiatore. Le mie gambe faticano ma l’adrenalina giusta è già in circolo, ed i miei occhi ed il mio cuore hanno fame di nuove scoperte.


9 Aprile


C’è un bel sole in cielo e poco traffico stamattina lungo la strada che da Toronto conduce a Niagara Falls; poco più di un’ora e mezza di strada e il vecchio pullman della compagnia Greyhound, diretto a New York City, ferma in una piccola stazione, l’ultima prima del confine tra Canada e Stati Uniti. Scendo e carico dei miei zaini mi incammino verso sud, lungo River Road, la strada che costeggia il Niagara River, il fiume dalle impetuose acque color verde smeraldo. Attorno qualche bel cottage e tanta quiete, qui non ci sono i grattacieli e tutto sembra più spazioso; non mi aspettavo però tutta questa strada tra il piccolo terminal e la parte nuova del paese Niagara Falls. Mi trascino faticosamente, passo accanto al Rainbow Bridge, il ponte che collega Canada e Stati Uniti, ed accanto ad esso, sul versante yankee, ammiro le belle Bridal Veil Falls, meglio conosciute come American Falls, grandi cascate con ancora enormi blocchi di neve ghiacciata che sembrano icebergs. Poco distanti, in lontananza, eccole le maestose Niagara Falls, ma il peso sulle spalle si fa doloroso e ora la priorità è arrivare a Main St all’hotel e posare i fardelli. Pure il tratto di strada in salita, ci mancava, ma alla fine, col passo lento di uno sherpa, finalmente sono allo Knights Inn, un Motel con le camere allineate a formare un arco attorno ad un vuoto parcheggio centrale, dove affacciano le porte di ingresso delle stesse, di color lilla. Una giovane donna indiana registra la mia prenotazione, pago le due notti ed entro nella mia camera, la numero 105: parquet in legno, un comodo letto matrimoniale, due poltrone, la tv, un forno a microonde e perfino un’ asse da stiro! Ma soprattutto il bagno in camera, pulito e dotato di vasca...come si vede che non sono più a chinatown. Libero dai pesanti zaini, esco e scendo lungo la strada che in breve mi porta alle maestose Cascate del Niagara: eccole, davanti a me in tutto il loro splendore, non sono altissime (50 metri) ma la potenza e il fragore dell’enorme portata d’acqua che riversano nel sottostante river sono uno spettacolo della natura! Hanno una perfetta forma ad arco, il bianco intenso dell’acqua che si getta fragorosa e la grande nube di vapore acqueo che si eleva in cielo, fanno da contrasto con il verde smeraldo delle acque sottostanti; c’è un pò di gente lungo la passeggiata che costeggia il fiume dall’alto, molta meno però di quanto temessi, cosicchè non mi è difficile affatto trovare angoli per perfette inquadrature, e lo spettacolo è unico da qualsiasi punto le si osservi, così come per le vicine American Falls. Anche qui sui bordi del fiume c’è ancora tanta neve, a rendere ancora più suggestivo lo scenario. Arrivo al punto panoramico per eccellenza, Table Rock, dove i gelidi schizzi di acqua portati dal vento, fan sembrare che piova di traverso: da qui osservo da vicino le acque del Niagara River nel loro scorrere veloce fino allo strapiombo per poi precipitare giù in basso. Scatto foto a ripetizione, faccio avanti e indietro più volte approfittando della bella giornata. Fino a che, il freddo e gli schizzi di acqua, mi costringono di tanto in tanto a rifugiarmi nei numerosi negozi stile centro commerciale, coperti e riscaldati e colmi di souvenirs di ogni genere. Oggi il mio pranzo consisterà in uno spiedino di...mushmallons ricoperto di cioccolata bianca e un tozzo di cioccolato fudge alla vaniglia, divino! Avevo bisogno di zuccheri, o di vizi. Dopo una sosta in camera ed un lungo bagno caldo, eccomi di nuovo fuori ai piedi della Skylon Tower: pago il biglietto, poco meno di 10 euro, ed entro in quella che è una vera sala giochi deserta; da qui però sale l’ ascensore esterna di color giallo che l’uomo addetto ai pulsanti (che bel lavoro, lo invidio) aziona, portandomi in pochi secondi fin su in cima a 160 metri di altezza: “enjoy view” mi assicura il ragazzo prima di chiudere le porte e tornarsene giù; ed ha ragione! Quassù, dalla sommità circolare, il panorama a 360° sulle cascate è superlativo! Impressionante vedere dall’alto l’ampio letto del Niagara River che sfocia ad imbuto verso le cascate, così come la grande nuvola bianca di vapore che risale verso il cielo, uno spettacolo naturale davvero notevole, che in più mi sto godendo in perfetta solitudine, senza la presenza di altri turisti, ci sono solo io e le addette dei due negozietti in cima. Salire fin qui ne è valsa eccome la pena! Riscendo e a piedi mi incammino verso nord, fino ad arrivare all’altezza del Rainbow Bridge, di nome e di fatto visto che sia alle Niagara sia qui alle American Falls si formano degli incredibili arcobaleni. Da qui risalgo verso il quartiere di Clifton Hill e mi ritrovo in un mondo a parte, surreale e completamente diverso da dov’ero qualche centinaio di metri fa: nessuna abitazione, ma un vero e proprio parco divertimenti a cielo aperto, una mini Las Vegas con insegne bizzarre, grandi statue da Frankenstein a Dracula, dal Vascello dei pirati a King Kong appeso ad una casa rovesciata, musei delle cere, dinosauri, musei di leggende rock e di criminali storici, boowling, sale gioco, negozi di souvenirs, casinò, ristoranti e l’immancabile ruota panoramica! Cosa centra tutto ciò con lo spettacolo della natura delle cascate poco distanti non lo so, ma questo è. Bizzarro e surreale quanto basta, una città dei divertimenti più a misura di adulti che di bambini. Mi fermo a mangiare un buon fish and chips, sono l’unico cliente, ma qui in effetti ci son più ristoranti che turisti, almeno in questa fredda stagione. Si fa lentamente buio, il vento e l’aria ora sono gelidi, da far battere i denti; le cascate ora sono illuminate da grandi fasci di luce sparati dalla riva opposta, e sono pochi i temerari che ora sfidano gli schizzi gelidi e continui sulla faccia che sembrano tanti piccoli aghi. Anche io, dopo le ultime foto, congelato e con le gambe ancora affaticate dalla lunga camminata di questa mattina, mollo il colpo e risalgo lentamente la semi deserta strada che mi riporta allo Knights Inn, passando accanto ad un paio di locali bar a più piani, con tanto di finte palme e musica sparata ad alto volume, ad un casinò, per arrivare infine nella mia tiepida e silenziosa camera.


10 Aprile


Colazione a buffet in piedi nella piccola stanza ufficio dello Knights Inn, mentre la giovane ragazza indiana prenota per me la navetta shuttle per l’indomani verso l’aeroporto. Come si vede che questo posto è proprio un motel di passaggio. Oggi passo ancora tutta la giornata qui nella piccola e spaziosa cittadina di Niagara Falls; c’è il sole e un bel cielo terso spazzato da un forte vento che crea un pò ovunque piccoli mulinelli di foglie lungo le ampie e deserte strade. Scendo fino al fiume: a quest’ora, col sole ancora alto, le American Falls sono ancora più belle, la luce crea strabilianti effetti con gli icebergs che sembrano fumare vapore, filtrato dalla luce solare...Approfitto di un turista cinese per farmi fare una foto, lui ci prende gusto e continua a scattare a ripetizione: “flash? No flash?” No gentile turista cinese, il flash con la “A” aperta come lo pronuncia lei, con tutta questa luce e questo bagliore...perchè mai? Nel frattempo il suo amico ne approfitta a sua volta per scattare con la sua macchina fotografica delle foto a me! Proprio strani...Sono quasi le 10 del mattino, e per fortuna c’è ancora meno gente di ieri lungo la passeggiata che mi porta alle Niagara Falls: bellissime, da togliere il fiato con la luce mattutina; le acque color blu e verde smeraldo si gettano con una potenza incredibile e una quantità esagerata verso il precipizio, la nuvola di vapore oggi sale altissima e quasi nasconde parte delle cascate stesse. Il vento intanto porta acqua anche qui in cima a Table Rock, creando un’intensa e costante pioggerella  che bagna tutti e tutto, macchine fotografiche comprese. Sarà la luce diversa, ma oggi le cascate mi sembrano ancora più belle. Fisso l’acqua che scorre veloce e mi rendo conto, nonostante la presenza poco lontana di casinò e sale giochi, che questo è davvero un luogo naturale unico al mondo. Mi incammino dopo qualche acquisto di souvenirs, fino al Niagara Falls view, un elegante centro commerciale pieno di negozi (sublime quello di cioccolati), un casinò e un teatro con la fila di anziani in procinto di entrarvi. Fuori, oltre ai taxi, lussuose e lunghe limousine nere aspettano i clienti dell’omonimo hotel; americanata in grande stile che stride non poco con quanto presente a poche decine di metri...Il vento ora soffia ancora più forte tanto che a tratti faccio fatica a camminare dritto, sembra la bora! Forse mai mi era capitato di vedere e sentire una tale violenza ventosa! Meglio rintanarsi per un break in camera in attesa che si plachi un pò...

Il quartiere di Clifton Hill, che in realtà è poco più di una lunga via, è talmente paradossale che fatico a realizzare che esista davvero; intanto il vento si è calmato e il cielo annuvolato, cade anche qualche goccia di pioggia mentre me ne sto seduto su di una panchina sotto la grande ruota panoramica a pensare. Già, quando si viaggia da soli, inevitabilmente il tempo per pensare è tanto. Nonostante un freddo un pò inaspettato, posso ritenermi fortunato ad aver visto le cascate in questa stagione, evitando le folle di turisti e godendomi le stesso col fascino della neve e dei blocchi di ghiaccio non ancora sciolti. Stasera pizza, e poi me ne torno fra i giardini di Queen Victoria popolati da qualche timido scoiattolo in cerca di cibo; la passeggiata lungo il Niagara River ora è quasi deserta, questa è l’ultima mia notte qui in Canada, domani volerò verso gli Stati Uniti, seconda tappa di questo mio Round The World.


11 Aprile


Sveglia all’alba, il sole non è ancora sorto mentre sono già nella piccola cucina/ufficio del motel a bermi un tè caldo in compagnia di un uomo dalla barba bianca che assomiglia vagamente a Santa Claus, e che fa le veci della ragazza indiana. Fuori l’asfalto è ancora bagnato dalla pioggia scesa questa notte. Alle 06.30 puntuale arriva a prendermi la navetta per l’aeroporto di Toronto, che in realtà, con mia sorpresa, proprio navetta non è, ma è una vera grossa auto di lusso di color bianco, coi sedili in pelle e ovviamente autista in divisa, tutta per me. L’aeroporto è distante, dopo un’ora di autostrada a tre corsie (quasi nessuno oltre al limite dei 100km/h) piuttosto scorrevole, eco un pò di coda per via di alcuni lavori in corso, ma sono comunque in orario, e arrivo in aeroporto con tre ore di anticipo...e meno male: qui infatti ha inizio la surreale serie di controlli dedicata solo a chi vola verso gli Stati Uniti! Prima il check-in automatico, poi code, controlli, ancora controlli, con tanto di foto ed impronte digitali di ogni dito...sono proprio paranoici, mai fatto tutti questi controlli in uscita da un Paese. Finalmente, dopo aver ammesso anche di non avere finalità terroristiche (rilassatevi!), entro nell’area dei gate in attesa dell’imbarco del volo 757 della Air Canada diretto a San Francisco.

Ore 14.16, con qualche minuto di anticipo rispetto al previsto, sono atterrato per la prima volta in territorio “nemico”, negli Stati Uniti d’America. Con mia sorpresa, una volta ritirato il bagaglio, non c’è nessun tipo di controllo, neanche quello passaporti (niente timbro quindi), tanto che, ingenuamente prima di uscire dall’aeroporto, domando ad un addetto di un punto informazioni che serafico mi risponde “abbiamo già fatto tutti i controlli col nostro personale di polizia al luogo di partenza”, in effetti...Esco, c’è il sole, attendo in coda l’arrivo di uno dei mini van color blu che per 17$ fanno da spola con la città facendo tappa all’hotel richiesto: eccolo, salgo, a bordo tanto di webcam e di avviso che è attiva per la nostra sicurezza, questi proprio son fissati, forse per la sicurezza a bordo sarebbe più utile l’utilizzo della cintura...Fa caldo (finalmente), traffico e vastità sono le prime sensazioni che mi trasmette la città mentre il van percorre l’autostrada che porta verso il quartiere di Downtown. Una volta entratici, saltano subito all’occhio i numerosi mendicanti ad ogni semaforo, e gli homeless, i barboni di strada: se a Toronto mi aveva impressionato vederne tanti, qui il paragone non è neanche lontanamente sostenibile! Soli, a coppie, perfino a gruppi, soprattutto uomini e donne di colore, che vagano in evidente stato di degrado lungo i marciapiedi. Qui la differenza di classe e le disuguaglianze sociali sono fin troppo evidenti. Il Layne Hotel è proprio in questa zona, in Jonas St 545; l’hotel è un vero hotel con reception e vecchia ascensore con la porta in ferro che mi porta fino al 5° piano, stanza 151, una bella camera con bagno, dotata di tutto. Anche il Layne Hotel così come molte delle abitazioni della zona, hanno le caratteristiche scale in ferro che danno sull’esterno della facciata, passando di balcone in balcone, così come le si vede nelle scene di molti film americani. Come primo impatto con la città, posso dire che un pò mi inquieta ma allo stesso tempo lo trovo sfidante. Esco subito per un primo reale assaggio e mi dirigo a piedi verso in vicino quartiere di Chinatown, attraverso un continuo sali scendi (la città non è per nulla pianeggiante) lungo le vie dove ci sono, tra  gli altri esercizi commerciali, anche le mitiche lavanderie self service con enormi lavatrici, ed ecco anche il primo Cable Car che vedo passare, ovvero il colorato e antico piccolo tram su monorotaia, dall’aspetto un pò retrò, uno dei simboli che caratterizzano San Francisco; è stracarico con parte dei passeggeri appesi fuori alle maniglie, e sembra fare una fatica immane a risalire le ripide strade. Arrivo all’imbocco di Grant Avenue, qui un arco sormontato da due dragoni segna l’inizio dell’antico quartiere cinese, e qui sembra davvero di entrare in Cina! L’intera lunga via e le sue traverse, tutte addobbate da un lato all’altro della strada con lanterne rosse, sono completamente colme di negozi, alcuni davvero grandi, a più piani, che vendono tutte le cineserie immaginabili, commerci e occhi a mandorla ovunque, no qui sembra di non essere davvero più a San Francisco! Ci sono anche alcune ottime ed eleganti sale da tè, e tanti ristoranti. Alcune delle insegne riportano perfino solo gli ideogrammi cinesi, e perfino i mendicanti qui sono cinesi! Belle le casette, tutte sopra ai negozi, coi caratteristici tetti a pagoda. Non voglio comunque strafare, sono appena arrivato e avrò tre giorni pieni qui in città. Sulla strada del ritorno mi fermo ad un semplice ristorante la cui insegna recita “qui il vero hamburger americano”; entro, e vedo subito che il locale è gestito da una buffa e gentile coppia di cinesi, nonostante sia ben lontano da Chinatown... Così, nella mia prima notte americana, mi ritrovo a mangiare un cheeseburger  con patatine fritte, tra piante e fiori finti, addobbi natalizi ancora appesi, e maiali di ceramica che strizzano l’occhio!


12 Aprile


C’ è poca gente per strada, la città sembra ancora dormire, ore  7.30, sono sveglio da poco e guardo fuori alla grande finestra al 5à piano del Layne Hotel. Doccia veloce e sono per strada, alla fermata dell’autobus n.38: il cielo è grigio, lungo i marciapiedi di Downtown c’è solo qualche homeless che cerca qualcosa tra la spazzatura mentre si porta dietro carrelli carichi di vecchi e sporchi vestiti e coperte. Arriva il vecchio autobus, salgo pagando a bordo al conducente i 2$, e si parte. Conto le fermate e scendo alla quarta, ma qualcosa non mi torna con la mappa, mi sono perso. Ristudio il percorso, voglio arrivare il più possibile vicino al Golden Bridge, il ponte simbolo della città di San Francisco. Prendo allora il filobus n.1, abbastanza malandato ma con la pedana per la salita dei disabili perfettamente funzionante. Stavolta le fermate sono tante, siedo accanto ad una giovane ragazza asiatica, di fronte ho un ragazzo di colore, berretto di lana in testa e un vistoso anello al dito, grande più di una noce. Scendo al quartiere Presidio, da qui comincio a camminare tra vie alberate e silenziose, con villette dai piccoli giardini in fiore e gente che fa jogging: E’ un bel tratto di strada, pensavo meno, però finalmente arrivo prima ad un parco e da qui alla selvaggia Baker Beach, la spiaggia solitamente frequentata da nudisti, ma oggi il clima è fresco e lungo il sabbioso arenile c’è solo qualcuno che porta a spasso il proprio cane o che corre, e un gruppetto di giovani intenti a sistemare una scalinata di legno. Bella sensazione rivedere il mare da vicino e sentirne il meraviglioso suono della risacca; ciò non mi distoglie però dall’ammirare per la prima volta la vista in lontananza e dal basso del Golden Gate, peccato solo che il cielo sia ancora grigio, anche se a sprazzi sembra aprirsi al bello. Me ne sto un pò qua in spiaggia, prima di riprendere il cammino costeggiando dall’alto la costa, tra il profumo intenso dei pini marittimi; a mano a mano che mi avvicino, gli scorci e le vedute da diverse prospettive del lungo ponte in ferro color rosso, sono sempre più belle. Arrivo a Vista Point, il punto di accesso al ponte per le auto, le biciclette e i pedoni. Qui si concentrano tutti i turisti, ed in effetti la vista da questo punto è superlativa, il Golden Bridge appare imponente coi suoi alti piloni di acciaio e nel suo caratteristico color rosso/arancio. Decido di percorrerne un tratto lungo il lato pedonale, mentre al centro vi sfrecciano le auto; le mie solite improvvise vertigini mi fanno presente che non si sono dimenticate di me, così a metà me ne torno indietro. Tutti i turisti scattano e si auto scattano nelle maniere più buffe fotografie; anche il mio indice ha il suo bel da fare nello scattare in continuazione alla ricerca dell’inquadratura perfetta. Mi incammino seguendo la costa nord lungo Crissy Field, un tempo pista militare, oggi parco con vista sull’intero Golden Gate Bridge; esce finalmente il sole, e scopro qui un’altra faccia della città: qui di homeless coi loro carichi carrelli non vi è traccia, niente degrado, ma intere famiglie che fanno pic nic nei ben tenuti prati, formando un quadretto che sembra uscire da una pubblicità del Mulino Bianco, con gente di tutte le età che fa jogging, chi con le cuffie alle orecchie, chi col frequenziometro al braccio, chi ancora sfoggiando mini mise spesso dai colori accesi per mettere in risalto il fisico, e chi invece, e non pochi, che si trascina moribondo. E ancora tanti a spasso coi loro cani e in bicicletta, anche qui come a Toronto, tutti col caschetto in testa. Talmente perfetto che sembra, o forse lo è, quasi finto. Proseguo la mia lunga passeggiata, incrociando anche un torneo di calcetto con più cambi disposti uno accanto all’altro sul prato, dove piccoli bambini e bambine, sui 4/5 anni giocano con tanto di divise. Anche alcuni adulti poco più in là stanno giocando a calcio, anche loro misti, uomini e donne. Il pennone con la bandiera a stelle e strisce  domina l’intero quartiere, con alle spalle il profilo della città mostra le case dai tetti a punta in stile vittoriano che sembrano arrampicarsi lungo le colline da un lato, e un mix di grattacieli e ville dall’altro. Si, San Francisco ha almeno due facce distinte e distanti tra loro, troppo distanti direi. Ormai con le gambe che vanno da sole, mi ritrovo in Ghirardelli Square, una strana piazzetta con al centro una fontana, delimitata da caffè all’aperto, gelaterie, cioccolaterie e negozi che prendono tutti il nome dalla omonima piazza. Il sole ha intanto vinto la sua iniziale timidezza e ora splende nel cielo; da qui comincia Fisherman’s Wharf, una lunga zona commerciale, sempre a nord della città, affacciata sul mare, che si snoda lungo i vecchi moli in legno, con artisti di strada, suonatori, piccole bancarelle ed un’infinità di negozi di souvenirs e ristoranti coi tavoli all’aperto. C’è anche la zona dei banchi che vendono il pesce fresco, così con 8$, in uno di questi, mi faccio preparare un fish and chips che vado a mangiarmi su uno dei moli, dove è attraccata una nave della marina militare adibita a museo, e in compagnia di un gabbiano, più interessato agli avanzi del mio cibo che alla conversazione con me. Riprendo a camminare ritrovandomi dopo poche centinaia di metri a Pier 39 , piccolo molo famoso per l’ ”occupazione” storica, spontanea ed abusiva  da parte di una numerosa colonia di placidi e sonnolenti leoni marini e di foche, che infatti sono qui, accatastati quasi gli uni sugli altri mentre prendono il sole sulle chiatte di legno al centro del porticciolo , per la gioia dei turisti che dal molo accanto scattano fotografie; si i turisti, e qui oggi mi sento anche io un pò turista più che viaggiatore, inglobato in questa massa ahimè. Comincio ad essere un pò insofferente di tutta questa gente, ma qui è inevitabile, Da uno dei moli si vede abbastanza bene la piccola isola di Alcatraz, con quello che un tempo fu uno dei carceri di massima sicurezza più famosi e temuti; mi accontento di vederlo da qui, arrivarci con un escursione organizzata in traghetto è troppo costoso per le mie finanze.  Un ultimo giro fra le passerelle in legno di Pier 39 coi negozi disposti sui due piani della struttura, e con al centro una pittoresca e piccola giostra oltre ai venditori di zucchero filato e churros, prima di addentrarmi verso Downtown. Lungo la Jefferson St, la via che segue la costa a nord, passano tram di diversi colori e dalla forma bombata che li fa assomigliare a delle grandi supposte, molto diversi e più moderni dei caratteristici Cable Car; Lascio i moli e la moltitudine di turisti, ma ritrovo le ripide discese e salite fino al Washington Park, dove assisto ad una scena paradossale e tipicamente americana: di fronte alla facciata della bianca Cattedrale di San Pietro e Paolo c’è un massiccio schieramento di polizia, il cui compito arduo è quello di prevenire disordini visto che una ventina (!) di persone, quasi tutte donne, e di età media ben oltre i 40 anni, manifesta con dei cartelli in favore della libera scelta sull’aborto, circondata dall’indifferenza di giovani che fanno pic nic nel prato o giocano a frisbie, e da una decina di vecchiette asiatiche che praticano il Thai Chi. Insomma, nonostante la “pericolosità” della situazione scatto qualche foto e fortunatamente incolume proseguo passando per un breve tratto nel quartiere italiano, tra ristoranti e topless bar, per poi ritrovarmi a percorrere in lungo Grant Avenue, tra i tetti a pagoda e sotto alle lanterne rosse della Chinatown. Sono stanco, ho camminato per oltre 9 ore, stasera non ce la faccio a fermarmi fuori per cena, così opto per una piccola spesa in un minimarket della catena 7eleven e mi rifugio nella mia stanza di hotel.


13 Aprile


Tra gli homeless che vivono in città, non ci son solo persone senza una casa o un lavoro, ma anche tanti con evidenti problemi mentali, e fa specie vederli così, non curati e abbandonati al loro triste destino, alcuni un pò molesti, ma fondamentalmente innocui, ignorati da tutti fuorchè dalle loro paure persecutorie. Mi fa ancora più specie tutto ciò dopo aver visto due donne ed un uomo parlare con degli oggetti pochi metri prima di ritrovarmi davanti all’ingresso di uno dei tanti lussuosi hotel con tanto di maggiordomi grandi e grossi in eleganti divise, con una lunga limousine nera dai vetri oscurati che esce e gira l’angolo. Questi sono gli Stati Uniti d’America, Paese delle contraddizioni e dell’evidente fallimento di un sistema economico, quello capitalista, di un sogno americano che per la maggiorparte di loro e non solo, si è trasformato in un incubo. Intanto i turisti fanno pazienti la coda al capolinea di una delle tre linee di Cable Car , in Powell Station, io invece scendo giù all’omonima stazione della metropolitana Bart: i biglietti per oltrepassare i tornelli si possono fare solo alle macchinette automatiche, anche se poi non è semplice orientarsi su che direzione prendere. Chiedo un pò di volte a qualche passante e mi ritrovo ad aspettare il treno sotterraneo alla piattaforma n.1; oggi è domenica, i passaggi non sono frequenti. Quando arriva il vecchio treno, i vagoni sono semivuoti, c’è solo qualcuno col capo chino intento ad armeggiare col proprio cellulare. Vagoni vecchi e sporchi che ricordano molto quelli delle metropolitane nostrane. Poche fermate e riemergo in superficie a Mission, nell’omonimo quartiere: qui nessun grattacielo nè alti palazzi, ma solo file di case e ristoranti ad uno, massimo due piani. Questo è il quartiere dei Latinos e si vede: lungo alcune delle vie alberate sono appese fila di bandierine tricolore messicane, tra taquerie e negozi che vendono icone religiose; ovunque si sente parlare spagnolo e la differenza della gente nei suoi tratti somatici è evidente. Cammino lungo la 24 St fino ad arrivare all’incrocio con la piccola e stretta via di Balmy, lunga non più di 200 metri, le cui basse mura delle case, così come le porte dei garage, sono ricoperti da una serie di colorati e storici murales, divenuti ormai emblema dell’intero quartiere, da quando nacquero negli anni ’70, realizzati da alcune donne latine come strumento di protesta politica e sociale. Sono raffigurate scene di donne che si ribellano nei Paesi di origine all’occupazione Yankee, simboleggiata quest’ultima da un grande stivale militare,  e figure simbolo come quella del Cardinale Romero. Senza una mappa qui non ci si arriva, in questo luogo che per fortuna gli abitanti di San Francisco hanno lasciato così, dimostrando quel rispetto e quella diversità tipica di questa città al contrario di quanto avviene in qualunque altra parte degli Stati Uniti, tanto di farle meritare l’appellativo di “città di sinistra e anticonformista”.  Non c’è nessuno a parte me, due homeless un pò ubriachi ma innocui e una coppia di giovani turisti anch’essi intenti a fotografare. Riprendo a camminare lungo le strade di Mission fino all’incrocio con Valencia St che imbocco; dalle finestre di alcune piccole chiese metodiste fuoriesce musica accompagnata dai battiti di mani; giusto il tempo di arrivare a Clarion, e qui la “musica” cambia: dalle finestre la musica che fuoriesce è musica Cumbia, latina, lungo questa via molto simile a Balmy, con le mura dipinte da murales più recenti, alcuni dai messaggi criptici, altri dai messaggi di protesta sociale, contro lo sfruttamento del pianeta, contro gli Ogm, le tasse inique ecc. Tanto colore e tanta vita in queste poche decine di metri; continuo a camminare in direzione dell’antica Chiesa Mission Dolores, luogo di culto per i numerosi ispanici residenti qui; passo accanto al bel palazzo delle donne “Casa de las Mujeres”, una grande casa a tre piani anch’essa ricoperta da murales raffiguranti donne di diverse etnie come soggetto principale, dominate in alto dalla figura di Rigoberta Menciù. Cartina alla mano, proseguo fino al quartiere Castro, famoso per essere sede della più grande comunità di gay e lesbiche al mondo. Non esiste una vera e propria delimitazione del quartiere, ma a poco a poco che mi avvicino, lo si percepisce dalle bandiere arcobaleno appese alle finestre delle case o fuori dai locali, e da alcune inequivocabili coppie che passeggiano mano nella mano. Anche ciò fa di questa città un’oasi di apertura mentale rispetto al bigottismo yankee. Le salite e le discese lungo le strade si fanno sempre più ripide, passo a fianco al Parco Buena Vista, posto in cima ad una collina, il sole oggi picchia seppure soffi un costante venticello. Eccomi ad High Street, altra icona inusuale e storica della città più anticonformista d’America: qui infatti dai locali fuoriesce un intenso profumo di cannabis! E’ la zona hippy, negli anni ’60 da qui nacquero le prime battaglie per i diritti civili, ed ora, tra gruppi di giovani scalzi e coi dred che bivaccano lungo i marciapiedi, in negozi, come ad Amsterdam, vendono cannabis e merchandising per turisti con la foglia di marjuana in bella vista. Tra libertà sessuale, spiagge nudiste e zone psichedeliche San Francisco è indubbiamente la meno americana tra le città americane! Mi fermo a mangiare una omelette in un piccolo locale gestito, tanto per cambiare, da una coppia cinese, poi proseguo a camminare sotto il sole lungo un anonimo viale alberato di piccole case, fino a Japantown, che a differenza di Chinatown, è decisamente meno tipico, con abitazioni moderne ed eleganti, e se non fosse per un’alta pagoda e per la massiccia presenza della comunità giapponese, non ci si accorgerebbe della differenza con altri quartieri. Mi imbatto qiu in un piccolo palco all’aperto dove un gruppo un pò in là con l’età suona dal vivo musica blues, ascolto un pò e scatto qualche foto, poi, stanco, vado a prendere il filobus n.47 e mi lascio trasportare fino alla baia, all’altezza del Fort Mason. Sono come ieri a bordo Oceano, a pochi passi da qui c’è il Palazzo delle fini arti” che altro non è che un piacevole luogo all’aperto con una cupola sorretta da colonne e capitelli in stile neoclassico, che centra poco con l’ambiente circostante, ma il posto è tranquillo e piacevole, con prati, piante fiorite e un laghetto. Pare che qui vengano a farsi il book diverse coppie di neo sposi, a giudicare da quante ce ne sono e alle buffe e a volte ridicole pose a cui gli stessi sono “costretti” dai “fotografi”. Ancora due passi lungo la baia, vicino alla spiaggia di Marina Beach con famiglie e bambini che fanno volare in cielo i loro colorati aquiloni approfittando del vento, e con qualche temerario che in tuta d’acqua si getta nelle gelide acque dell’oceano a fare skite surf. Un ultimo sguardo al Golden Gate Bridge in lontananza e me ne torno a piedi prima e poi per un bel tratto nuovamente in filobus (ormai son diventato pratico della città), verso il Layne Hotel. Qui nei dintorni cerco un posto dove mangiare, ma in ciò gli americani son talmente dipendenti dalle cucine dei Paesi altrui, che di tipico e di loro, a parte i panini, non hanno davvero nulla! Trovo ristoranti cinesi, italiani, indiani, giapponesi, turchi e perfino afgani (ciò mi fa fare tetri retro pensieri...) ma di yankee nulla. Faccio allora una piccola spesa anche questa sera, nelle vie di Downtown, tra gruppi di homeless che bivaccano agli angoli delle strade; basterebbe passare un giorno in una qualsiasi città americana e uno all’Havana a Cuba, per capire tante cose...


14 Aprile


Questa è la mia ultima giornata qui negli Stati Uniti, e comincia come in un film americano, con due poliziotti, una donna ed un uomo, che entrano nell’ascensore del Layne Hotel proprio mentre sto scaricando i miei zaini. Ho sfruttato l’utilizzo della camera fino all’ultimo per il check out, ora lascio qui in custodia lo zaino e me ne esco a vivere le ultime cose che mi mancano della città, ho tempo fino alle 17 quando passerà la navetta shuttle per l’aeroporto. In Pawell Station, ad uno dei capolinea dei Cable Car, c’è la solita coda di turisti, inutile, ci rinuncio a farmi un giro sopra al vecchio tram. Ma caso o fortuna vuole che poco oltre, dopo un pò di cammino, mi ritrovo ad una fermata lungo la linea di un altro Cable Car, stranamente vuoto: non mi faccio pregare due volte e salto su, non so neanche in che direzione sia diretto ma poco importa. E’ busso, mi siedo su una delle due panche laterali messe per il lungo, mentre un energumeno di colore aziona le due grandi e centrali leve in ferro che fanno da freno e si parte: non sembra neanche fare troppa fatica nel fermarlo lungo le discese e fargli prendere la giusta spinta nelle ripide salite, sembra di essere al luna park. Fermata dopo fermata si riempie di turisti, fino a finire la sua corsa nei pressi della baia, a Fisherman’s Warf che oggi, essendo giorno feriale, è meno affollata di gente nonostante i friggitori di pesce, posti uno accanto all’altro, abbiano comunque il loro bel da fare, mentre tra qualche artista di strada e i bus turistici a due piani stile London, i numerosi gabbiani sembrano mettersi in posa per le foto ricordo. Cammino fino a Pier 39, i leoni marini se la dormono e oziano sempre al loro posto, sotto il sole cocente. Non mi manca ormai molto da vedere o provare, una volta fatta anche l’inaspettata esperienza del Cable Car; così mi spingo fino a Lombard St, la famosa strada in salita fatta di strettissimi tornanti e contornata da aiuole fiorite accanto alle ville dei miliardari. Le auto, per discenderla, devono affrontare le strette curve a gomito a passo d’uomo, ma anche a piedi, risalire la ripida scalinata lungo la sua pendenza è una faticaccia, in parte compensata dal bel panorama sulla città che si ammira da su. Ormai pratico, con la mia mappa in mano ormai mezza sgualcita, mi incammino da quassù in direzione della Coit Tower. I miei polpacci, tra continue salite e discese, implorano pietà, per di più l’ultimo tratto per arrivare alla piccola torre è quello più in pendenza, ma ormai ci sono: risalgo la collinetta fitta di vegetazione fino alla Coit Tower, che però, è chiusa! Poco importa, la torre in sè non è un granchè, e anche camminandoci attorno si può ammirare un bel panorama a 360° di tutta San Francisco con sullo sfondo in lontananza il Golden Gate Bridge. Qui su ne approfitto anche per usare uno dei bagni automatici e gratuiti, che non mi aspettavo così pulito ed efficente. Manca ancora più di un’ora all’appuntamento con la navetta, così, avvicinandomi comunque in zona, vado verso il quartiere del Financial District, ai piedi degli alti palazzi e grattacieli che mi fanno sentire piccolissimo. Da qui al Terminal dei traghetti (Ferry Building)  c’è poca strada; ci arrivo ed entro nel lungo edificio colo azzurro carta da zucchero con al centro la torre dell’orologio, che funge da terminal e con una serie di negozi al suo interno. Alle spalle, lungo i moli, una piccola quanto inusuale qui, statua di Ghandi, e l’imponente Bay Bridge, l’altro ponte della città, color grigio, molto più lungo ma meno pittoresco del suo fratello Golden Bridge, seppur molto bello. Non mi resta che fare ritorno verso il Layne Hotel, percorrendo gli ampi e animati marciapiedi di Market St; qui faccio un incontro di quelli che ti colpiscono e ti rimangono dentro per sempre: una donna, madre, vestita in maniera dignitosa, con accanto grandi sacchi e borsoni come tutti gli homeless, un bicchiere vuoto davanti a sè per l’elemosina, e seduta sulle sue gambe, una bambina di neanche 6 anni; la mamma le sta leggendo un libro di favole, le due sono teneramente abbracciate come qualsiasi madre con la propria figlia, incuranti dei passanti distratti che senza fermarsi vanno oltre. Mi chiedo dove passeranno la notte, se lì o in qualche altro marciapiede. Faccio qualche passo poi colto da rimorso torno indietro e lascio loro un paio di dollari, poco, forse nulla. La donna timidamente interrompe la lettura e ringrazia, mentre accanto la gente continua a camminare spedita, incurante di mamma e figlia e delle loro favole, che forse rimarranno tali. Questa è una delle facce meno reclamizzate in occidente ma più tristi e vere di questo Paese, la faccia di una libertà e di una giustizia di cui spesso si vanta di fronte al mondo, e allora penso alle strade di L’Havana ema anche di Tehran: no cari americani, finchè anche un solo bambino, un tuo figlio, non ha un tetto sotto al quale dormire, ecco fino ad allora potrai solo specchiarti e convincere chi non conosce o non vuole conoscere cosa e dove sia la vera libertà...

Eccomi al Layne Hotel, nella sua piccola hall, gestita anche qui da una famiglia di chiare origini indiane come a Niagara Falls. Seduto sul morbido divano sistemo nello zaino le ultime cose, e alle 17, puntuale, ecco la navetta per l’aeroporto. In breve tempo sono già lungo la trafficata tangenziale, in cielo si è alzata la tipica nube che ricopre la parte alta del Golden Bridge, dovuta all’aria calda che si forma nella baia e trova lì l’unico sbocco naturale per le nuvole, peccato perchè sarebbe stata la serata perfetta per le foto al ponte, ma sono in partenza, e con il consueto anticipo arrivo al moderno e tranquillo aeroporto di San Francisco, in attesa del volo 0007 della New Zeland Airline che mi porterà a Melbourne, in Australia: sarà una lunga notte nei cieli del Pacifico...


15 Aprile


In realtà questa pagina del mio diario dovrebbe essere bianca, non scritta, perchè io il 15 aprile 2014 non l’ho mai vissuto, nè in viaggio nè altrove, per via dello strano gioco dei fusi orari viaggiando verso ovest...


16 Aprile


Ore 10.22 del mattino del 16 aprile, finalmente atterro in territorio australiano! E’ stato un volo interminabile sull’Oceano Pacifico, con scalo ad Aukland in Nuova Zelanda. L’arrivo non è dei migliori grazie ad un paio di stupidi poliziotti doganali che prima di farmi uscire dall’aeroporto di Melbourne mi sottopongono ad un lungo quanto surreale interrogatorio. Qui in Australia so già che mi dissanguerò economicamente, un assaggio già ce l’ho pagando il tassista che mi porta fino all’hotel, che, rispetto alla prenotazione fatta dall’Italia, ha nel frattempo cambiato il nome, ed ora è lo Sleep and Go, un posto strano, in mezzo al nulla, a Preston, piccola località della periferia di Melbourne: un palazzo di vetro con una grande hall, sale, bar e ascensori, sembra più un luogo per convegni, ma che in realtà è usato dagli studenti universitari che fanno da pola con la città grazie al comodo servizio di navetta gratuita. La mia camera è la 502, al quinto piano, ed è in pratica un minuscolo e moderno monolocale dotato di tutto in pochissimo spazio: letto, tv, bagno, forno microonde scrivania e anche il bollitore! Non tocco un letto e non dormo da quasi 32 ore ormai, ma se lo faccio ora è finita e rischio di non abituarmi al nuovo, ennesimo fuso orario. Con le poche forze nervose rimaste faccio giusto un breve giro per capire che fuori dall’hotel a parte qualche casa e un fast food non c’è proprio nulla, così aspetto le ore 15 per sfruttare la navetta gratuita che mi porta a Melbourne in meno di 20 minuti. Eccola, Melbourne, capitale dello stato di Victoria; turisticamente parlando non ha grandi attrattive la città; percorro Swanston St, la via principale, attraversata dai bianchi tram e disseminata di negozi, locali e mini market della 7Eleven. Lungo i suoi marciapiedi si esibiscono artisti di strada e passeggiano tantissimi giovani, credo sia una delle città dall’età media più bassa in cui sia mai stato, e molti asiatici: si vede che è una città universitaria. Arrivo fino al cuore della città, in Feder Square, in riva al fiume Yarra, dove si mescolano diversi stili tra alti palazzi e grattacieli (non molti), e la vecchia e imponente stazione color giallo in stile vittoriano, così come alcune chiese presenti.Passeggio su e giù, passando per un piccolo parco dove alcuni giovani oziano seduti sul prato, mentre altri leggono seduti su buffe e comode poltrone gonfiabili di color rosso. L’ultima navetta per l’hotel è alle ore 18, la distanza è troppa per potersi permettere un taxi coi costi locali, così mi faccio trovare puntuale per il rientro, mentre qui, da questa parte del mondo, sta già venendo buio. Sono stanco, non so più che giorno sia e a quale fuso orario il mio corpo sia settato in questo momento...


17 Aprile


Zaini in spalla, di buon mattino, mi incammino lungo il Km e mezzo di strada che separa lo Sleep and Go Hotel e il Rent a Car della compagnia Atlos, dove ritirerò l’auto a noleggio per i prossimi tre giorni. Arrivo, il locale è piccolo e nel parcheggio ci son quasi solo furgoni commerciali, mentre al banco, una signora un pò impacciata compila le pratiche per il ritiro dell’auto prenotata tempo fa dall’Italia, ovvero una piccola Nissan Micra colore grigio chiaro, con cambio automatico e navigatore; sono le 9 del mattino e sono già al volante per le strade di Melbourne. Uscire dalla città è la parte più complicata per fare pratica con la guida a destra all’inglese, però va molto meglio del previsto, i miei ripassi mentali sono serviti, e l’andatura tranquilla e disciplinata degli australiani aiuta. Imbocco in breve tempo la tangenziale che aggira la città, quattro corsie poco trafficate e circondate da paesaggi verdi, non da paesi uno in fila all’altro nè da stabilimenti industriali come dalle nostre parti, qui l’idea di spazio la si avverte ovunque. Esco dalla tangenziale o autostrada che fosse, all’altezza della città di Geelong, e da qui ha inizio la mitica B100, meglio nota come Great Ocean Road, la strada che scorre lungo la costa sud australiana. La prima piccola cittadina che incontro è Anglesea, dove, nei pressi dei campi da golf così come cita la Loonely Planet, stazionano di solito i canguri, che provo a scorgere ma senza successo. Proseguo oltre e alla seconda tappa mi va molto meglio: parcheggio ad Ayreys, nei pressi di un’area giochi per bambini, perchè qui, a poca distanza, ho visto un faro, lo Split Point Lighthouse; lo raggiungo con una breve e facile camminata e da qui ho il mio primo assaggio da vicino dell’Oceano Pacifico. La strada da percorrere per arrivare alla mia meta programmata è ancora tanta, e tanti sono anche i luoghi di interesse che voglio fermarmi a vedere, quindi la sosta qui è breve, torno all’auto e riprendo a percorrere la B100. La strada diventa un susseguirsi di curve, salite e discese, con a lato la vista sull’Oceano prima dall’alto delle ripide scogliere a picco, per poi ritrovarselo a bordo strada delimitato da piccole spiagge sabbiose all’altezza di piccoli villaggi. Mi fermo nuovamente in uno di questi, Kennet River, lascio l’auto accanto ad un piccolo locale, dove poco distante, un gruppetto di persone è intento a guardare in sù verso i rami di un albero di eucalipto: mi avvicino, c’è un koala, tenerissimo, abbracciato al tronco che dorme placidamente aprendo di tanto in tanto un occhio per poi richiuderlo. pochi passi più avanti eccone un altro, sempre in cima ed abbracciato al tronco di un albero di eucalipto. Che belli, sembrano davvero dei morbidi peluches! Mi incammino un pò oltre lungo un sentiero in terra battuta circondato da una rigogliosa foresta nella speranza di scovarne degli altri, ma a parte qualche bell’esemplare di pappagallini colorati, nessun altro koala all’orizzonte. Mi accontento così, e prima di ripartire compro qualcosa da mangiare al piccolo locale. Sono di nuovo alla guida, in questo tratto di strada i panorami sono magnifici, c’è un bel sole in cielo e le acque del Pacifico variano dalle tonalità del blu intenso e del verde smeraldo! Ora capisco perchè i segnali stradali qui, dal pericolo attraversamento canguri alle continue curve pericolose, sono di dimensioni più grandi del comune e di un colore giallo fluorescente: distrarsi nell’ammirare panorami simili è facile. Forse anche per questa ragione gli australiani hanno una guida davvero tranquilla, a volte fin troppo. Arrivo all’altezza di Apollo Bay, paradiso per i surfisti; l’ampia e lunga spiaggia da un lato, con i giovani nelle loro mute e con le tavole da surf sottobraccio pronti a cavalcare le onde, e dall’altro la piccola cittadina, con qualche basso edificio che fa da negozio, ristoranti e parcheggi, tipico di un villaggio di mare. Da qui in poi la Great Ocean Road procede per un tratto nell’entroterra, salendo non poco e addentrandosi in una fitta foresta di alti e secolari alberi; dopo alcuni km prendo a sinistra la deviazione per Cape Otoway: 12 km di strada nella foresta, davvero suggestivi, sembra di passare sotto ad un lungo  e alto arco di fusti, fino ad arrivare al piccolo parcheggio sterrato dove termina la strada, davanti ad una casetta bianca che funge da negozio di souvenirs.  Lascio qui l’auto e a piedi, in 10 minuti, sono al Cape Otoway Lighthouse, il faro più antico d’Australia. 1848, è l’anno di costruzione, data riportata sopra la porta di ingresso di questo antico faro che domina l’Oceano dall’alto di una spettacolare e imponente scogliera a picco. Il fare pur essendo tutt’oggi funzionante, è comunque accessibile, così salgo la stretta scala a chiocciola fin su alla cima, dove la vista sulle acque agitate di questo tratto di Oceano, con le onde alte che si infrangono sulle rocce sottostanti, è davvero spettacolare e da vertigini! Il faro, di un colore bianco quasi verniciato a nuovo, non è altissimo, ma fa decisamente la sua scena, tappa obbligatoria direi. Mi fermo un pò qui in questo luogo silenzioso, poi però mi rendo conto che le ore passano e la strada da fare ancora tanta, così mi rimetto alla guida e ripercorro a ritroso i 12 km lungo la foresta per rimettermi così nuovamente a percorrere la Great Ocean Road in direzione ovest; la strada, tornante dopo tornante, comincia a scendere verso la costa. Non manca molto a quella che è l’attrattiva regina di questa parte d’Australia, ovvero i famosi 12 Apostoli. Finalmente un cartello marrone ne indica l’accesso, e il fatto che questo sia uno dei luoghi più fotografati del mondo lo si capisce subito dal grande parcheggio di auto (ma da dove saranno arrivati visto che le strade sembrano deserte?); tanti turisti, soprattutto famiglie e gruppi di indiani, cinesi, ma un pò da tutto il mondo. Per fortuna la passerella in legno che affaccia letteralmente lungo questo spettacolare tratto di costa vista dall’alto, è ampia e lunga, e i punti di osservazione sono diversi, c’è quindi spazio un pò per tutti: la vista di questi grandi faraglioni di roccia calcarea che le onde dell’Oceano scavano ed erodono incessantemente da sempre, è suggestiva ed emozionante. Il sole intanto sta cominciando a calare; dal lato opposto a quello di osservazione dei 12 Apostoli, altrettanto spettacolare è la veduta sempre dall’alto della Gibson Beach, una selvaggia spiaggia sabbiosa battuta dal vento e dalle continue maree, accessibile, ma ci tornerò domani, l’ostello dove son diretto è qui in zona ormai, e ci devo arrivare prima che venga buio. Riprendo l’auto dopo questo primo assaggio, e arrivo fino alla piccola località di Port Campbell: qui chiedo informazioni, il navigatore non mi indica il punto esatto dell’ostello, e dalle risposte capisco di essere andato oltre, così torno indietro, mentre dallo specchietto retrovisore vedo la palla rossa di sole andare a nascondersi dietro la linea dell’orizzonte, e il cielo che nel frattempo si è annuvolato, si fa buio. Eccolo finalmente, proprio a pochi km dai 12 Apostoli, c’è un piccolo cartello che indica 13th Apostle, si chiama proprio così l’ostello che ho riservato; già, stavolta un ostello, proverò per la prima volta la condivisione di una camera, il chè non mi entusiasma, ma coi costi di queste parti era l’unica soluzione che potevo permettermi. La casa però è chiusa, un cartello attaccato alla porta indica di rivolgersi al ristorante poco distante, che insieme ad un negozio e ad un paio di altre case, costituisce questo piccolo nucleo di costruzioni in cima a questa collina a poche decine di metri dalla Great Ocean Road. Mi rivolgo quindi al ristorante, qui un signore con occhiali e capelli lunghi ed unti, mi viene ad aprire la casa lasciandomi le chiavi della camera. E’ stata una lunga giornata, ho visto tante meraviglie e macinato tanti km, ora la fame e la stanchezza cominciano a farsi sentire.  Poso gli zaini in una piccola stanza con due letti a castello, ce ne sono altre di stanze nella struttura oltre ad una grande cucina e a bagni separati per uomini e donne. Per sedersi a mangiare ad un tavolo altra soluzione non c’è che il ristorante a pochi passi da qui, che sembra più un saloon, coi tavoli in legno e delle grandi ruote da vecchia carrozza appese come lampadari al soffitto; pizza (servita dopo un’interminabile attesa) e una ginger beer locale, ci voleva. Torno all’ostello dove nel frattempo nella stanza n.8 è arrivata una giovane coppia di australiani, con cui dividerò per questa notte la stanza.


18 Aprile


Piove e c’è vento questa mattina, lo sento forte dalla finestra dell’ostello; me la prendo quindi comoda, nonostante voglia sfruttarmi la giornata per godermi i panorami qui nei dintorni. Sono quasi le 9 e per fortuna smette di piovere, così mi armo di macchina fotografica, prendo l’auto e faccio appena i 10 km che mi dividono ad un piccolo parcheggio ancora deserto a lato della Great Ocean Road in prossimità della Gibson Beach. Da qui una breve passeggiata lungo un sentiero tra la bassa vegetazione mi porta direttamente alla passerella panoramica sui 12 Apostoli, e vuoi per l’ora, vuoi per il vento che sta soffiando forte, oggi il sito non è ancora pieno di turisti, così me lo godo con una luce diversa e in tutta tranquillità; mi faccio fare una foto da un turista indiano, che me la fa bene! Ed io che fino ad ora mi affidavo ai cinesi con risultati scarsi, finalmente ho una foto decente che non sia il solito autoscatto da braccio proteso...In realtà appena lasciata l’auto il mio intento era quello di scendere in basso fino alla Gibson Beach, ma evidentemente ho sbagliato qualcosa; torno indietro ed infatti qui al piccolo parcheggio, semi nascosta, inizia una lunga e stretta scalinata, in parte coperta da fango e sabbia, che porta fin giù alla spiaggia. Scendo con prudenza, e da qui giù la Gibson è bellissima, un lungo tratto di sabbia con alle spalle 70 metri di imponente parete rocciosa, e di fronte l’Oceano, con le onde che si susseguono una dopo l’altra incessantemente, e un grande faraglione a pochi metri dalle gelide acque. Qualche altro turista si spinge fino a quaggiù, pochi temerari, infatti la marea muta in continuazione e qualche onda più lunga fa brutti scherzi a chi cammina a riva e si ritrova improvvisamente bagnato fino alle ginocchia. Me ne resto un pò qua a godermi questo meraviglioso angolo di mondo osservando l’Oceano Pacifico, fino a chè non decido di risalire e rimettermi in auto alla ricerca, facile, di altri angoli da scoprire; così, dopo una 20ina di km appena, mi fermo nuovamente, i punti panoramici sono uno via l’altro; cartelli marroni indicano i loro nomi e l’accesso ai piccoli parcheggi a lato della strada, da dove partono le brevi passerelle in legno fatte di assi o ripide scalinate che conducono direttamente ai siti: Loch Ard George, The Arch e poi ancora lo spettacolare London Bridge, una formazione rocciosa a forma di lungo ponte, che sarà per la luce col sole che filtra tra le nuvole, trovo sia una delle vedute più spettacolari di tutta l’area, e fortuna vuole che in questo momento non ci sia nessuno, solo io e i gabbiani a sfidare un fortissimo ed incessante vento, che continua a spostare nuvoloni, alternando momenti di sole ad altri di pioggia. In questa specie di insenatura naturale, le onde sono altissime, come mai prima d’ora ne avevo mai viste; le acque dell’Oceano sembrano indemoniate vista da quassù, dall’alto del precipizio, e d’altronde questo è uno dei tratti di costa più pericolosi al mondo per la navigazione. Torno all’auto e proseguo per una sosta fino a Port Campbell, la piccola cittadina che conta una via di non più di 200 metri, qualche negozio, un mini market e un paio di ristoranti con anche una piccola spiaggia affacciata su di un tratto tranquillo di mare, riparato da una baia, ora deserta fatta eccezione per un muscoloso surf rescue che con la sua divisa gialla e rossa la sta ripulendo da qualche alga. Proseguo ancora oltre, fino al punto panoramico Grotto, dove una scalinata porta fin in basso ad una sorta di grotta scavata dalle onde nelle rocce; anche da qui il panorama è notevole, con il marrone ed il rosso delle rocce ed il blu intenso dell’Oceano a creare una tavolozza degna di un dipinto di Van Gogh. Mi spingo ancora oltre, fino alla località di Peterborough, e se Port Campbell mi sembrava piccola, bhè qui l’atmosfera è ancora più da minuscolo paesino per pochi fortunati: non c’è davvero nulla, solo qualche bella villetta con prati verdissimi delimitati da assi di legno, e nell’aria oltre al vento (che non si placa neanche per un minuto) si sente solo il cigolìo di un’altalena. Un’atmosfera tanto rilassante da fare invidia, non solo per la quiete, ma anche per l’ampia e bella spiaggia sabbiosa che la costeggia, e dove mi fermo un pò a contemplare questa pace. C’è solo una mamma che gioca col suo piccolo, poi arrivano altri tre bambini che corrono sulla sabbia, insomma l’ Eden. L’unica auto parcheggiata qui al parcheggio di fronte alla spiaggia è la mia e quella di una turista giapponese intenta a fotografare i gabbiani che passeggiano tranquillamente sul manto stradale. La mia intenzione è di non spingermi ancora troppo oltre, la prossima cittadina dista più di un’ora di strada, quindi proseguo giusto fino al successivo punto panoramico indicato lungo la Great Ocean Road, The Martirys: anche qui non c’è nessuno, tutti i turisti si concentrano solo ai 12 Apostoli, meglio così. Una scalinata mi porta giù fino ad una piccola spiaggia dove sono solo, e sempre una giovane giapponese, un’altra però stavolta. Ma proprio mentre sono intento io stavolta a fotografare dei gabbiani...cazzo, l’improvvisa marea ha fregato me; la risacca di un’onda lunga mi ha sorpreso e bagnato fino ai polpacci, risultato, scarpe e pantaloni fradici e piedi gelati! Ma si, me la sono un pò cercata, e in fondo è solo acqua (gelida!) dell’Oceano, così dentro di me mi faccio una grassa risata, potrò raccontare di aver fatto il bagno nelle gelide acque del Pacifico! Sono arrivato fin dove volevo, ora non mi resta che rientrare verso l’ostello per un cambio indumenti obbligato e per una doccia calda, visto che il vento mi sta rintronando.

Dopo la tappa in ostello esco che il sole sta già tramontando, presto rispetto a come ero abituato a San Francisco, alle 18 quasi fa già buio. Faccio in tempo ad un ultima sosta ai vicini 12 Apostoli, dove il parcheggio sembra quello di un centro commerciale al sabato pomeriggio: indubbiamente lo spettacolare panorama merita, ma molti si perdono altrettanti scorci unici lungo la strada. Le ultime foto, il vento si fa sempre più forte e fa freddo, così rientro in auto e mi spingo nuovamente fino a Port Campbell; i due ristoranti, oltre ad essera cari per le mie tasche, sono anche pieni, così opto per il take away a lato spiaggia, con una abbondante e salata porzione di fish and chips servitami avvolta in diversi strati di carta alimentare. Mangiare seduti in riva al mare sarebbe decisamente più suggestivo, ma il vento, assoluto protagonista della giornata, mi fa desistere, così apro i fogli di carta sul sedile della Micra, e chiuso in auto, con le mani consumo la mia selvaggia cena.


19 Aprile


Sembra che agli australiani piaccia molto dormire, un pò come ai koala: sono infatti le 7.30 del mattino, vero è presto, però le strade sono deserte nel vero senso della parola! Per tornare a Melbourne e riconsegnare l’auto, scelgo di fare una nuova strada, avendo già percorso e ammirato a sufficienza la mitica e spettacolare Great Ocean Road. La strada che sto percorrendo in direzione nord di Princetown, nell’entroterra, è però altrettanto spettacolare anche se diversa: basse colline e verdi pascoli a perdita d’occhio, con tante, tantissime mucche e pecore e solo di rado qualche semplice fattoria con i bidoni di latta per il latte, messi in orizzontale su paletti di legno ed usati come cassette per la posta a bordo strada. Scorci davvero belli e a rendere tutto ancora più magico con la prima luce del mattino, ecco un grande arcobaleno con le due estremità ben visibili e la parte superiore nascosta da nuvoloni grigi che a tratti velano anche il sole. Dopo un’ora di strada passata a far volare corvi e pappagalli che oziavano sull’asfalto deserto, incrocio la prima auto! Ancora pochi km  e la magia finisce e comincio a percorrere una normale statale fino ad imboccare la nuova Free Highway, decisamente più animata di auto (ma non trafficata). All’altezza di Geelong mi immetto sull’A1, l’autostrada diretta a Melbourne, dove arrivo dopo tre sole ore dalla partenza (decisamente meno che non percorrendo la Great Ocean Road). Faccio benzina (qui solo self service) e poi prendo l’uscita per Preston: sono in netto anticipo, il Ren a Car chiude alle14, così passo prima al moderno Sleep and Go hotel a rifare il chek-in per quest’altra notte, e soprattutto a depositare gli zaini, evitando così di dovermeli portare a mò di sheerpa nel tratto di strada a piedi. Lascio così tutto nella mia nuova stanza/monolocale, diversa solo nei colori (stavolta nero) e nella disposizione, ma sempre al 5° piano, e scendo di nuovo a recuperare l’auto e a fare i 2 km che mi separano dal Rent a Car: nonostante un pò di timori iniziali per la guida a destra, alla fine è andato tutto più che bene, e guidare su queste strade è stato uno spasso! Ho ora l’intero pomeriggio davanti, ma di scendere a Melbourne e rivederla di corsa per via deglo orari della navetta gratuita, proprio non ne ho voglia, e così mi faccio un giro al Preston Market, che visto da fuori, dal grande parcheggio esterno, sembrava un normale centro commerciale, invece è un vero mercato al coperto con banchi di frutta e verdura, pesce, dolci, vestiti e diversi locali dove mangiare. Qui la fanno da padrona sempre loro, i cinesi, che sono numerosi e gestiscono gran parte dell’area commerciale, e con i prezzi che in effetti son ben altra cosa rispetto agli standard locali. Se non ci fossero stati loro, anche questa sera avrei speso una fortuna per la cena, invece con meno di 10$ australiani mi preparerò in hotel una zuppa istantanea di noodles con carne, delle mele liofilizzate e due bevande all’aloe, insomma proprio una tipica cena locale per chiudere questa breve esperienza in territorio australiano. Si chiude con oggi una prima fase di questo mio viaggio attorno al mondo, la fase “occidentale” del nuovo mondo è andata: Canada, Stati Uniti ed Australia. Tanti posti belli, unici, maestosi, anche se poco contatto con popoli e culture, essendo noi molto simili e uniformati al loro modello di vita. Questo aspetto un pò mi è mancato  ma sono sicuro di trovarlo nelle prossime tappe. Comunque un’esperienza grandiosa, se solo ripenso alla natura che si esprime con tutto il suo impeto, alla forza inarrestabile dell’acqua alle Niagara Falls o alle alte onde che si infrangono e modellano la spettacolare e selvaggia costa sud australiana, o ancora ai grattacieli di Toronto, all’imponente Golden Gate Bridge e agli homeless di San Francisco...tutto “bagaglio” che mi porterò dentro. Sembra la fine di un viaggio, ma non lo è: domani mattina si apriranno nuove strade, nuovi capitoli di questa mia lunga e meravigliosa avventura intorno al mondo. Domani il viaggio continua ad Oriente, nel continente asiatico, e a quest’ora sarò già nella Filippine, a Manila...


20 Aprile


Stanotte ho dormito bene ma troppo poco, nell’incubo forse che la sveglia non suonasse, e così sono in piedi dalle 4! Ho fatto le cose con calma per poi prendere il taxi prenotato tramite la hall, e che in 20 minuti mi ha portato in aeroporto. E’ ancora buio fuori, oggi è la mattina di pasqua e per la strada non c’era in effetti ancora nessuno, in questo mio ultimo giorno, anzi, ultime ore, qui in Australia. Gli hangar degli aeroporti  stanno diventando una mia seconda casa, anche se forse, un viaggiatore, una vera ed unica casa non ce l’ha, o forse, la sua casa, è nelle strade del mondo che attraversa...Liberi pensieri in attesa dell’imbarco.

Ore 16.10, con un pò di ritardo, scendo dal vecchio aereo della Philippines Airlines, sono a Manila, capitale delle Filippine; passo i rapidi controlli passaporti e stavolta per fortuna il mio bagaglio è tra i primi a girare sul rullo, tutto molto veloce. Fuori dall’aeroporto c’è il sole e soprattutto afa, tanta afa: contratto al volo con un tassista, il tutto insolitamente rapido e finalmente economico, visto che la corsa fino al quartiere di Malate mi costa appena 200 pesos (neanche 4 euro), con tanto di lauta mancia, e considerando che questa mattina per l’equivalente di tempo a Melbourne ho speso almeno 10 volte tanto! Durante la corsa l’anziano e loquace tassista mi mette in guardia sui pericoli della città di Manila, ripetendomi gli stessi accorgimenti scritti sulla Lonely Planet, ed in effetti si capisce subito che qui è un altro mondo, traffico caotico e senza regole, centinaia di auto e motorette, vecchi risciò a triciclo e soprattutto un’infinità di jeepney, i locali e caratteristici mini autobus, che altro non sono che vecchie, sgangherate e coloratissime jeep dalla forma allungata, fatte di lamiera spesso mezza arrugginita, con due panche laterali una di fronte all’altra per il trasporto dei passeggeri, aperte lateralmente e dietro. Confusione e colori ovunque. Arrivo a Remedios Street, la via dove c’è la Chill-out Guesthouse; come si vede che son tornato nuovamente in Asia, la hall è un semplice bancone di legno messo lì quasi a caso, senza una vera entrata, tutto aperto. La mia stanza, se così si può definire, è al piano superiore vicino ai bagni in comune: due metri per tre di mura bianche, con un letto, senza finestre e con un ventilatore! Sono finite le comodità, e l’enorme catino pieno d’acqua nel bagno comune con dentro piccole bacinelle che vi galleggiano, mi lascia presagire docce non proprio comodissime. La stanza dentro è un forno, ho fame, ed esco subito per un primo assaggio del quartiere, ben accorto e senza nulla in evidenza: un impatto così forte però non me lo aspettavo, forse anche per via di dove arrivo ed ero fino a qualche ora fa; questa parte di Manila sembra una baraccopoli a cielo aperto, intervallata da qualche alto grattacielo e spicchi di forzato occidentalismo, un mix micidiale. Strade sporche, gente di tutte le età che bivacca sui cartoni stesi per terra agli angoli delle strade e lungo i marciapiedi, perfino bambini piccoli sdraiati a dormire per terra, sporchi e seminudi, mentre altri, sempre scalzi e a petto nudo, giocano con la palla nella Remedios Place. Strada o marciapiede poco cambia, la gente cammina e attraversa ovunque; ci sono vicino alcuni ristoranti climatizzati, tutti con fuori alle porte di vetro un gendarme in divisa bianca, così come davanti ad alcuni lussuosi hotel lungo la grande arteria stradale che costeggia la baia, Roxas Blv. Qui, dal lato opposto, un ampio marciapiede orlato da qualche alta palma, con venditori ambulanti di cibo, qualcuno che fa jogging e altri che, seduti sul muretto, aspettano di osservare il tramonto. Vado alla ricerca di uno sportello bancomat, tra le siepi mezze ricoperte da immondizia varia, alcune famiglie preparano la cena con grosse pentole su fornelletti, ma non stanno facendo un pic nic, qui ci vivono e quei cartoni sono le loro case. Il contrasto è forte, qualcuno dorme sdraiato in qualche modo nel suo risciò, proprio come avevo visto fare a Delhi in India. Si, proprio la capitale indiana mi ricorda in questi primi scorci Manila, stesso degrado e stessi contrasti. Finalmente dopo un paio di tentativi a vuoto che mi stavano facendo allarmare non poco, riesco a prelevare. Ora che ho qualche pesos in più in tasca posso finalmente pensare alla cena, visto che si è quasi fatta ora del tramonto. Salgo sulla terrazza coperta da un tendone di plastica di uno dei locali lungo Roxas Blv, un posto non tanto per turisti, molto spartano, ci siamo solo io e una coppia di filippini intenta a praticare quello che qui è lo sport nazionale, il karaoke! E qui lo prendono molto sul serio.Mi viene da ridere a pensare a dov’ero solo la scorsa notte, in un altro mondo, in ogni senso! Inizio ad avvertire la sensazione di avventura! Si è fatto in fretta buio il cielo, ancora devo prendere le misure alla città, così a piedi me ne torno verso la piccola guesthouse; la grande piazza di Remedios ora semi buia, è ancora piena di gente e bambini scalzi che giocano nella miseria assoluta, mentre poco distante sfavillano le luci delle insegne di alcuni locali abbastanza ambigui, con signorine molto poco vestite, e non solo per via dell’afa temo. Questa è la mia prima notte nell’inferno afoso di Manila.


21 Aprile


I costi qui in Oriente non sono decisamente gli stessi che ho affrontato in questa prima parte del viaggio, qui posso ora permettermi colazione, pranzo, cena e pure merenda! C’è il sole anche oggi e già di prima mattina fa caldissimo. Il traffico rumoroso e caotico già imperversa sulle grandi arterie, con i colorati jeepney che caricano e scaricano persone al volo ai bordi dei marciapiedi, pieni anche di gente che ozia appena svegliata dopo la notte trascorsa in strada; non ci metto molto tempo ad arrivare al Rizal Park, un grande parco cittadino intitolato all’eroe nazionale, ben tenuto ma a quest’ora esposto completamente al sole e con poche zone d’ombra; se voglio evitarmi un’insolazione, meglio che mi soffermo poco qui, così proseguo in direzione della parte vecchia della città, Intramuros, antico bastione cinto da alte mura e risalente all’epoca della dominazione spagnola. Entro attraverso una delle grandi porte d’accesso, il quartiere non è grandissimo, nelle sue strade interne c’è decisamente meno traffico soprattutto di auto, anche se non mancano, anzi abbondano, i tricicli a pedale e qualche via di vecchie baracche. Essendoci però anche diversi edifici governativi, la zona è sorvegliata e tranquilla, e a differenza delle altre zone di Manila, qui i turisti possono passeggiare con meno ansie. Arrivo all’estremità nord dove c’è il Fort Santiago: pago l’ingresso (75 pesos) ed entro; un giardinetto ben curato con panchine ed una fontana al centro, qualche statua, palme, alberi di fichi e bambù e poco altro da vedere, se non la piazzetta con la statua di Rizal, l’eroe nazionale, qui fucilato dagli spagnoli, e il bastione dal quale si vede lo sporco e stagnante fiume Pasig, sulla cui sponda opposta fa impressione la baraccopoli con alle spalle i grattacieli. Un pò deludente, mi aspettavo un quartiere storico meglio conservato. Un gruppetto di ragazze filippine, anche loro turiste qui, si ferma a fare delle foto con me, buffe! Faccio una breve sortita anche nella grande Cattedrale di Manila, appena fuori al forte, dove tra gente che prega e gente che osserva, c’è anche chi, e più di uno, parla tranquillamente al cellulare. Esco da Intramuros, la quantità di gente lungo le strade, ora che quasi ora di pranzo, è aumentata notevolmente, soprattutto all’altezza della fermata della vecchia metropolitana di superficie in United Nation Avenue, dove tanti giovani camminano sui marciapiedi che, come un pò ovunque in città, sono nel frattempo diventati anche dei piccoli mercati all’aperto, dove si vende di tutto: chi cuoce spiedini di carne o vende frutta o pannocchie bollite e altre fritture non meglio identificabili, altri che su cassette di plastica o polistirolo vendono scarpe usate, penne, dvd masterizzati e caramelle sfuse! Chissà quanto costerà una caramella al cambio di un euro. E non potevano mancare i venditori di occhiali Rayban, ovviamente tarocchi. Il tutto lungo marciapiedi sporchi, con gente che vi bivacca, compresi tanti bambini, e a qualche metro dal suolo, in altezza lungo i pali della luce, incredibili aggrovigliamenti di cavi elettrici come solo in Asia si possono vedere! Cammino perdendomi ma ritrovando sempre la strada maestra e arrivo ad uno degli ingressi dell’enorme centro commerciale di Malate, il Robinson’s Place, sormontato da tre alti grattacieli color beige. Per entrare faccio una lunga ma scorrevole ed ordinata fila indiana, divisa tra uomini e donne, non capisco ma mi ci infilo: ecco spiegato, si entra uno alla volta sotto il metal detector e con tanto di perquisizione! Una volta dentro scopro una città nella città: è davvero enorme, il più grande mai visto nei miei viaggi, ed è pieno di gente, giovani e famiglie, ma non della classe sociale vista fino ad ora, ma evidentemente della Manila “bene”, tutti ben vestiti ed alla moda. Di tipico c’è poco, ma tantissimi ristoranti e chioschi con le cucine di mezzo mondo, negozi di vestiti, scarpe, diverse catene di negozi giapponesi, la sala giochi e quella bingo, e l’immancabile karaoke, anzi no, in realtà è un negozio che vende televisori, ma uno degli addetti è intento a cantare anche qui, per pubblicizzarne la vendita. Mi fermo a mangiare un buon piatto di carne alla piastra rovente al Pepper Lunch, e prima di uscire di nuovo al caldo afoso dell’esterno (mai apprezzato così tanto un centro commerciale per la sua aria condizionata!) mi concedo una dolce ed abbondante merenda. Fuori fa sempre più caldo, e mi dirigo cercando angoli di ombra, verso la mia stanza (o cella...) del Chill Out.

E’ quasi ora del tramonto quando esco nuovamente, Remedios Circle adesso è animata soprattutto di gruppi di bambini che giocano. Io vado oltre, verso l’ampio marciapiede di Bay Walk, orlato dalle alte palme, ad aspettare lungo il suo muretto il tramonto del sole sulla baia di Manila; c’è un pescatore, qualche bambino povero che fa perfino il bagno nelle sporche acque sottostanti, e soprattutto coppie di fidanzati o gente seduta a contemplare l’orizzonte, mentre il sole a poco a poco diventa sempre più una palla rossa incandescente in lontananza. Non è certamente la cornice più romantica questa, con il traffico che scorre alle spalle, ma il tramonto ha sempre un qualcosa di magico, e anche questo un pò lo è, e sembra perfino calare il rumore mentre il sole lentamente scompare all’orizzonte, e il cielo sopra Manila si fa subito buio...


22 Aprile


In taxi sto andando verso il quartiere di Makati, attraversando ampie e trafficate strade a lato di una baraccopoli a cielo aperto fatta di basse case realizzate con un mix tra lamiere e cartoni, poi improvvisamente il paesaggio cambia, appaiono grandi pannelli pubblicitari e lo skyline di moderni grattacieli, sono in un’ altra Manila! Mi faccio lasciare in Ayala Triangle Gardens, un piccolo parco cittadino con prati perfettamente curati e video sorvegliati da piccole telecamere, con piante di bambù, palme e alberi in fiore; da qui mi incammino senza una precisa meta, lungo i puliti marciapiedi e dove il traffico perfino pare essere meno rumoroso che a Malate. I pochi jeepney colorati e sgangherati qui sembrano degli oggetti fuori luogo, la gente, soprattutto giovane, è ben vestita, le ragazze si riparano dal sole con gli ombrelli, e i gendarmi in camicia bianca  stazionano davanti alle entrate dei palazzi della finanza, con le mitragliette in bella vista. Nessuno in questa parte di città cammina scalzo, non ci sono i cartoni che fungono da letto, e i bambini sembrano non esistere, insomma qui vive la Manila “bene”, quella di una città in forte espansione economica che altro non fa che aumentare le già forti ed evidenti disparità sociali. Attraverso le grandi arterie del quartiere, servendomi dei comodi passaggi sotterranei pedonali, e mi ritrovo, tanto per cambiare, ad entrare in grandi centri commerciali a più piani, dove si trova di tutto, anche uno squisito cupcakes alla fragola ricoperto di crema alla cannella! Ho tempo fino alle 21 di questa sera, orario della partenza del bus notturno diretto a Banaue, nel nord del Paese, me la posso prendere comoda quindi, così dopo aver assaggiato questo quartiere moderno, decido di tornare verso Malate provando la vecchia metropolitana di superficie: acquisto per soli 15 pesos il biglietto, passo i tornelli dopo anche qui gli immancabili controlli col metaldetector , e mi ritrovo, unico straniero, in attesa della metro non certo a prova turisti, visto che non collega di fatto nessuna parte di interesse della città; alcune guardie sulla banchina hanno il compito di disciplinare la coda, c’è tanta gente. Il treno arriva, faccio due fermate fino alla stazione di Taft, e da qui, attraverso una affollata stazione di congiunzione fra più linee, con chioschi alimentari e di vestiario, mi dirigo verso la banchina in attesa dei treni della linea Lrt diretta a Malate; c’è una gran confusione, tutta la gente del posto tiene i propri zaini davanti al petto, e nei vecchi vagoni, per fortuna climatizzati, siamo tutti schiacciati come sardine in scatola, nonostante non sia affatto l’ora di punta. Scendo alla fermata Pedro Gil, in Malate, sano e salvo, così ho provato anche la poco comoda esperienza della metropolitana a Manila. Lungo gli affollati e disordinati marciapiedi di malate regna la solita confusione e il mercato all’aperto dove oggi c’è anche chi gira tra la gente cercando di vendere degli smartphone con tanto di scatola in mano; io mi fermo a comprare da uno dei tanti carretti, una piccola ananas sbucciata che un bambino che non avrà ancora 10 anni, mi taglia con un macete (io stesso avrei timore a maneggiarlo) e mi infila in un piccolo sacchetto di plastica trasparente. Cammino e arrivo a rifarmi un giro “rinfrescante” al Robinson’s Place, prima di rientrare per una sosta al patio usato come hall della Chill Out Guesthouse, che in fondo, pur essendo molto spartana, è un buon rifugio tranquillo, con il personale sempre gentile e disponibile. Ho ancora il tempo di godermi il tramonto sulla baia, così attraverso l’ampia Remedios Circle e arrivo a Bay Walk, accanto scorre il traffico della sera, mentre qui, sui suoi ampi marciapiedi, qualcuno fa jogging, qualcuno distribuisce gratuitamente piccoli testi islamici (impresa ardua qui, in uno dei Paesi più cattolici al mondo), e qualcuno aspetta clienti per un massaggio lì seduti sul muretto, col cartello a fianco scritto a penna sul cartoncino. Un uomo intanto, appena sotto, sugli scogli, in un equilibrio precario, lava i suoi stracci, mentre il sole tramonta. Passa anche l’omino che vende i gelati pedalando sul suo vecchio e arrugginito carretto azzurro accompagnato da una musica di carillon. E’ ormai ora di cena, in pochi passi attraverso Roxas Blv e arrivo ad uno dei locali che affacciano sulla baia, più spartani ma più tipici delle moderne e climatizzate catene di fast food. Sono l’unico cliente al momento, il giovane proprietario mi serve dei bocconcini di pollo fritto, mentre alla tv, ad un volume esageratamente alto, si susseguono video musicali: lui mi chiede se voglio cantare...anche no grazie! Si è fatta ormai quasi l’ora di andare verso la stazione dei bus, ormai è buio e in Remedios Circle i venditori ambulanti e i piccoli ristoranti all’aperto, ancora più spartani e degradati, friggono di tutto. Entro in uno dei mini market a comprarmi qualcosa da bere, mentre fuori, seduti per terra, bivaccano una giovane donna vestita di stracci con accanto probabilmente i suoi figli, due bambini, un maschietto ed una femminuccia. Sono lì in un angolo per i fatti loro, ma mi si stringe il cuore a vederli in quelle condizioni, così compro un paio di panini già pronti e dell’acqua che uscendo lascio loro: i piccoli hanno improvvisamente un’espressione di felicità e sorpresa per questo sacchetto inaspettato, come se fosse passato Babbo Natale a consegnare loro dei doni, e anche io seppur straziato dalla scena, sono contento. E’ ora del taxi, recupero in guesthouse gli zaini, e via; ogni volta che si attravesra una città in auto, ci si rende conto della sua vastità, e Manila è davvero grande e trafficata, con squadre di giovanissimi lavavetri ai semafori, e nella penombra bambini che giocano proprio ai bordi delle strade. In cittò non esiste un’unica stazione degli autobus, ogni compagnia privata ha il suo deposito, io sono diretto a quello della Ohayami, con già la prenotazione in tasca fatta il primo giorno tramite l’aiuto della guesthouse, così con quella ritiro il mio biglietto nella piccolissima e stracolma sala d’attesa, dove oltre a numerosa gente del posto, soprattutto donne, c’è anche qualche coppia di turisti occidentali, fra cui due francesi con ben 5 figli al seguito, di cui la più grande appena adolescente, chapeau! Salgo a occupare il mio posto in quello che è un normale autobus, coi sedili stretti e plasticosi, non certo quello che ci si immaginerebbe per lunghi tragitti. Ore 21.05, si parte, tempo previsto tra le 9 e le 11 ore, in questo viaggio il lungo tragitto via terra ancora mi mancava, ma se solo ripenso a quelli fatti nei miei ultimi 15 anni di viaggi, la notte mi sembra un pò meno lunga di quella che in realtà sarà...


23 Aprile


Ore 06.06, dopo 9 ore di tornanti e salite sono a Banaue, nord delle Filippine, lungo la catena montuosa della Cordillera! Appena sceso dal bus, è d’obbligo la registrazione allo spartano Tourist Information Centre con pagamento della relativa tassa ambientale, 20 pesos. Pratica veloce, in fondo a bordo eravamo solo una manciata di viaggiatori stranieri. Zaino in spalla e dopo un breve tratto in discesa trovo il Sanafe Lodge, facilmente individuabile, dove mi fermerò per le prossime 4 notti: sembra un posto molto bello e tranquillo, la camera che mi assegnano è tutta in legno con un piccolo bagno annesso (peccato solo che l’unica presa della corrente utilizzabile sia nella hall). Banaue, terra del popolo Ifugao, famosa nel mondo per le sue risaie a terrazza scavate sulle pendici delle montagne; c’è un piccolo slargo proprio usciti dalla guesthouse, Main Square, con parcheggiati 5 o 6 jeepney, appese ai fili della luce stracci di plastica gialla usati come addobbi e tutto attorno più che negozi, delle botteghe, anfratti simili a dei garage senza porta o saracinesca, dove si vendono generi alimentari, artigianato locale in legno o stoffe colorate, oltre al locale vino di riso. Qui non esistono nè bancomat nè aeroporti nei dintorni, le case, piccole, tante col tetto in lamiera, sembrano arrampicarsi in modo sparso e casuale lungo le verdi pendici delle montagne ricoperte da fitta giungla, mentre già dalla grande veranda del Sanafe Lodge, si vede un assaggio delle famose risaie a terrazza. Faccio una veloce colazione  ed esco subito a percorrere una delle poche strade che passano in questo tranquillo paese di montagna, pochi rumori, il canto dei galli e per strada qualche sonnolento cane randagio; fa caldo, e camminare in salita dopo una notte quasi in bianco non è stata un’idea geniale, ma la fatica viene compensata da qualche primo interessante scorcio panoramico, e soprattutto dai sorrisi e dagli “hello” dei bambini che incontro strada facendo. Qui il poco traffico locale è fatto solo di qualche motoretta o dei tricicli, tipo sidecar coperti, anch’essi a motore, che fungono da taxi del posto. Oggi è giornata di ambientamento, comincerò domani a girare seriamente alla ricerca delle meravigliose vedute che questa terra offre. Tutto intorno domina il colore verde, un verde intenso che mette pace, così come il lieve suono dei sonagli appena mossi dal leggero vento mentre me ne sto qui, rientrato al Sanafe, seduto sulla sua grande veranda, tra vasi di piante, bottiglie di vino usate come porta fiori e messe sui tavoli di legno, e con una musica lounge diffusa in sottofondo ed interrotta solamente di tanto in tanto dal cantare dei galli. Il cielo, come da prassi in montagna, si annuvola e schiarisce in continuazione, intanto scrivo rilassato le pagine del mio diario con davanti a me l’ampio panorama montano, per oggi non posso pretendere di più di questo piccolo Eden. Concludo la mia giornata qui in veranda con una cena tipica filippina, il pinakbet: stufato di diversi tipi di verdure servito con riso e una birra locale San Miguel.


24 Aprile


Ore 6 del mattino, Banaue è già sveglia e attiva da un pezzo, ad eccezione dei pochi turisti presenti, tanto che la gentile e sempre sorridente proprietaria del Sanafe Lodge, mi racconta che in genere gli stranieri si presentano qui in veranda a fare colazione a volte perfino alle 10. Invece io sono già qui sul patio veranda a godermi il primo sole del mattino che spunta da dietro le montagne. Voglio arrivare presto, con una buona luce, al punto panoramico per eccellenza, distante qualche km da Banaue, così una volta sulla piazza del mercato, appena fuori al Sanafe, non mi è difficile contrattare con uno dei numerosi sidecar: 100 pesos per salire su in cima. Monto su questo vecchio sidecar Honda con il lato passeggero coperto, che sgasa a fatica lungo la strada in salita   per una decina di minuti fino ad arrivare in cima, dove scendo proprio a fianco ad una serie di baracche di legno che vendono souvenirs. Non c’è nessuno in giro, se non qualche ragazza addetta alle botteghe. Da qui il panorama sulle risaie a terrazza è superlativo, da Nathional Geographic: scendo alcuni scalini in cemento che portano a qualche abitazione sottostante, tra colorati panni stesi e terrazze accessibili dalle quali si godono delle vedute incredibili. Scendo ancora fino ad una casa dove due cani abbagliando mi fanno desistere dal continuare, fino a quando il padrone di casa li richiama e comincia a chiedermi dove sono diretto e se voglio fare il sentiero attraverso le risaie e la selva che da qui riporta fino a Banaue; mi ci porterebbe lui anche perchè l’orientamento non è semplice e il sentiero non è tracciato. Contrattiamo un pò sul prezzo, alla fine accetto per poco più di 8 euro. Mi chiede di aspettarlo qui, lui entra in casa a cambiarsi, insomma una inaspettata e buona occasione per entrambi direi. Ecco che torna, ma l’unico indumento che si è cambiato sono i pantaloni, ha ora indosso un paio di jeans, si è messo un berretto bianco in testa, ed è rimasto con ai piedi un paio di vecchie infradito in plastica, bianche e piuttosto vissute. Si chiama Tony, ha 54 anni, e ci vede solo da un occhio (mi accorgo solo ora che si sfila gli occhiali da sole, che ha una protesi), e soffre di diabete, insomma, miglior guida non potevo scegliere! Però è gentile, mastica bene l’inglese, e mastica e sputa in continuazione, come tutti da queste parti, una strana pasta marrone che una volta masticata fa sembrare denti e gengive sanguinanti, quasi come il volto di un pugile dopo un montante preso in piena faccia, fa un pò impressione, ora capisco cos’erano quelle macchie rosse che ho notato già da ieri sull’asfalto. Tony è in gamba, sa dove andare; il sentiero scende attraverso una lunga scalinata che da cemento diventa via via scavata direttamente nel terreno, reso ancora umido in alcuni tratti all’ombra, dalla rugiada del mattino, fino ad arrivare ad una piccola cascata.. Da qui comincia a salire, in modo anche ripido e faticoso, Tony mi avverte che questo è il tratto più impegnativo, e meno male visto che comincio ad arrancare. Finalmente ora il sentiero prosegue in piano, e cammino sul bordo in pietra di un piccolo canale di irrigazione: la sensazione di sentire solo il canto di grilli e cicale oltre allo scorrere dell’acqua, ed essere nel bel mezzo di una fitta giungla, mi fa passare la sensazione di fatica. Camminando arriviamo alle prime risaie e ai primi scorci panoramici su di esse: oltre ad essere uno spettacolo della natura (e Patrimonio dell’Unesco), queste risaie risalgono a più di duemila anni fa , costruite e scavate sui pendii delle montagne dal popolo Ifugao; è uno spettacolo, ora camminiamo per un bel tratto lungo gli stretti muretti di fango dei terrazzamenti, in alcuni tratti diventa un gioco di equilibrio e non mi capacito di come faccia Tony a camminare con disinvoltura come se fosse sul velluto, con quelle vecchie ciabatte mezze distrutte, tanto che io, dopo l’involontario bagno nell’Oceano in Australia di qualche giorno fa, non mi faccio mancare neanche la scivolata col piede nel terreno fangoso di una risaia. Poco importa, è proprio qui, nella seconda parte del sentiero, che il panorama dà il meglio di sé: le terrazze sembrano delle enormi scalinate piene di acqua e fango, con i ciuffi verdissimi delle piantine di riso che spuntano. Le case di Banaue sono sempre più visibili ormai, da qui il sentiero torna ad essere una serie di sali e scendi attraverso alti gradini che passano fra alcune vecchie case tradizionali Ifugao, palafitte quadrate con un tetto spiovente che quasi scende fino ad altezza del piano orizzontale della abitazione. Qualche cane, tanti cuccioli, galli, galline e i bambini che salutano: “hallo, hallo!”, mi sembra di essere tornato in Tibet. Qualche adulto a poca distanza è intento a piantare riso immerso nel fango fino alle ginocchia, siamo ormai vicinissimi a Banaue, e in breve arriviamo allo stretto ponte pedonale costruito con assi di lamiera bucata...non vorrà mica passare proprio di qui Tony? Invece si, per lui è normale, per le mie vertigini un pò meno, ma ormai sono qui, fisso avanti e nonostante le assi continuino ad oscillare nel vuoto, arrivo dall’altra parte! Come al ponte tibetano in Laos, inevitabile che ad ogni viaggio affiorino nitidi ricordi con viaggi passati...Saluto Tony, lo ringrazio anche con una mancia, e sono di nuovo a Banaue, avendo fatto uno dei sentieri che mi ero prefissato passando attraverso le risaie, e sono solo le 10 del mattino, l’ora della sveglia per gli altri turisti. Non sono così allenato, le mie gambe risentono un pò della fatica; vado a cambiare un pò di dollari in pesos nell’unica guesthouse che offre questo servizio, e qui adescato da un ragazzo, trovo facilmente anche il passaggio per domani mattina per andare ai villaggi di Hapao e Hungduan. La piazza del mercato si è nel frattempo animata di gente e jeepney stracarichi di merci e persone fin sul tetto: tutto il movimento si concentra qui, nel cuore del paese, e proprio qui mi fermo a mangiare una pizza (surgelata) in uno dei piccoli locali per la gente del posto, qualche vecchio tavolino in plastica misto ad altri in legno, verniciati di verde, e semplici sgabelli. Oltre a me ci sono due bambini che giocano con un telefonino, e un anziano mezzo addormentato proprio sotto ad una mensola semi imbarcata dal carico di bottiglie di acqua e Gatorade poste sopra di essa. Il cielo, nel pomeriggio, comincia puntuale ad annuvolarsi; dato l’esiguo costo, mi faccio riportare da un sidecar fin su nuovamente al punto panoramico, una volta su però, stavolta decido di riscendere camminando lungo  i 5 km di strada asfaltata tutta in discesa. Con una luce diversa le terrazze assumono un fascino ancora diverso, anche se il sole va e viene. Qui in cima, sedute su una panca accanto ad una delle botteghe di souvenirs, ci sono tre anziane donne Ifugao vestite coi tradizionali abiti di stoffa rossa e i copricapo somiglianti a corone fatte di piume sparate verso l’alto; sono qui per farsi fotografare in cambio di qualche pesos, è il segno dei tempi e della globalizzazione. Hanno i volti pieni di rughe, una di loro, la più anziana e senza denti, ha un volto dolcissimi dal quale spiccano i piccolissimi occhi azzurri; sorridono e sembrano divertirsi nel farsi fotografare, così come i bambini che incontro camminando lungo la strada in discesa. Cammino nel silenzio assoluto, interrotto solo di rado dal passare di qualche sidecar, ed incontrando piccoli gruppi di baracche, quasi tutte in lamiera e qualcuna in cemento o legno, dove tra galline e pulcini, ci sono gruppetti di bambini divertiti ed incuriositi dal mio passaggio: con alcuni giochiamo a farci degli autoscatti, e quando rivedono la propria immagine nel piccolo schermo della macchina fotografica si stupiscono e ridono come matti; c’è anche qualche donna intenta ad intagliare il legno, mentre altre cullano dei neonati. Poco oltre, al successivo insediamento, un gruppo di uomini, donne e perfino qualche ragazzino, stanno sistemando il ciglio della strada che da sulla parete rocciosa della montagna. Incrocio altri punti panoramici lungo il cammino, indicati da vecchi e sbiaditi cartelli, tutti con a lato qualche bottega di souvenirs che funge anche da abitazione. Passo accanto ad altre baracche costruite proprio sul precipizio, il sole intanto è completamente coperto da nuvoloni minacciosi; un nutrito gruppo di persone sta seduto sul ciglio della strada, intento a mangiare con le mani piatti di riso e carne, a fianco a grosse pentole all’aria aperta sul fuoco ancora acceso, ci deve essere qualche ricorrenza a giudicare anche dalle bottiglie di alcolici vuote una accanto all’altra, e infatti sembrano, anzi sono, tutti un pò alticci e ridono. Faccio le ultime curve, sempre più vicino al paese, con da un lato la parete della montagna ricoperta da fitta vegetazione, tra grandi foglie di banani, felci, bambù e alberi di ogni specie, e dall’altra le risaie a terrazza; dopo un paio d’ore di camminata rieccomi a Banaue, soddisfatto di questa passeggiata che mi ha permesso di ritrovare quel contatto umano e di entrare più a contatto con le persone del luogo, che mi è mancato in tutta la prima parte del viaggio. Scende la notte, si accendono le poche luci mentre la terrazza veranda del Sanafe Lodge stasera è affollata da un gruppo di famiglie filippine in vacanza che è venuto a cenare proprio qui.


25 Aprile


W il 25 Aprile, Festa della Liberazione in Italia. Quest’anno non la trascorrerò fra risaie e sentieri Partigiani, bensì fra quelli dell’antico popolo Ifugao. Terzo giorno qui a Banaue, alle 7 mi faccio trovare davanti alla People Guesthouse dove ieri ho preso appuntamento per andare ad Hapao e Hungduan; il giovane con cui ho stretto accordi è qui indaffarato con altra gente del posto ma appena mi vede si premura di andare a chiamare colui che mi condurrà, e cioè un ragazzino, forse neanche maggiorenne, che mi porterà con la sua moto di piccola cilindrata e col contachilometri rotto, lei si sicuramente maggiorenne eccome; infradito ai piedi e jeans mezzi abbassati per mettere in mostra la marca dei boxer, un adolescente in piena regola. Salto su dietro di lui, ovviamente siamo entrambi senza casco come tutti da queste parti, e partiamo lungo la salita che porta al punto panoramico, deviando a metà di essa e seguendo una strada che, sempre in salita, curva dopo curva, procede verso un altro versante della montagna, a quanto pare molto franoso, infatti dopo qualche centinaia di metri, la strada non c’è più, o meglio, diventa una pista di sterrato con terra e grosse pietre, ma non importa, il ragazzino come ad una gara di motocross, continua a dare gas; in alcuni punti ci sono vecchie ruspe al lavoro, e ci tocca guadare dei veri laghi di melma e fango. Ho le gambe rigidissime, non so come faccia la moto a procedere su questo terreno, eppure incrociamo perfino dei sidecar che scendono. La strada sembra non finire mai, finalmente dopo quasi n’ora, ci fermiamo ad Hapao: qualche baracca sul bordo strada e nulla più. Da qui mi incammino da solo, il giovane motociclista mi aspetterà qui; scendo lungo una strada, stavolta asfaltata che passa a lato della scuola elementare da dove parte il sentiero che risalendo arriva direttamente alle risaie, aprendo uno scenario bellissimo, diverso da quelli visti ieri. Le montagne sono terrazzate fino a metà altezza, in cima sono infatti ricoperte da fitta boscaglia, ed in mezzo c’è la stretta e verde valle con qualche casetta ed altre risaie in piano. I muretti che delimitano i terrazzamenti, a differenza di quelli di Banaue in fango, sono fatti in pietra, ed è proprio lungo uno di questi stretti passaggi che cammino per arrivare fino a raggiungere il torrente che scorre più in basso: il cielo è blu intenso così come il verde delle piantine di riso, qui molto più avanti nella crescita, tanto da misurare ad occhio una quarantina di centimetri, creando, viste dall’alto, l’effetto di tanti piccoli prati all’inglese. Tra un muretto ed una scalinata arrivo in perfetta solitudine al torrente che scorre impetuoso tra le rocce: c’è un uomo che sta lavando dei panni, passa un’anziana donna con un pesante sacco in testa, decisamente più pratica di me tanto da fermarsi in equilibrio per farmi passare visto che in due sul muretto non si passa ed io sarei sicuramente caduto nella risaia! Faccio qualche foto, mi riposo un pò e comincio a tornare indietro; lungo l’ultimo tratto di sentiero, una volta oltrepassate le risaie, c’è un gruppo di persone, fra cui alcune ragazzine e due bambini, che piegati lavorano per ricostruire l’argine di un muretto, spostando terra e grosse pietre. Fa specie vedere dei bambini lavorare, non è certo la prima volta che mi capita ma ogni volta è come se lo fosse; è un pò il loro senso di comunità, dove tutti sono utili in base alle proprie forze, sarà... Arrivo sul ciglio della strada, ma il giovane e la sua moto non ci sono. Li aspetto e intanto mi disseto comprando da bere in una delle baracche e attirando l’attenzione di qualche autista di sidecar che da queste parti non vede passare molti turisti. Intanto arriva il giovane, era andato nel frattempo a prendersi un gelato; rimonto in sella e ripartiamo per altri 6 km di strada talmente accidentata e tutta a tornanti, che sembrano infiniti. Ecco Hungduan: non è un vero paese ma un gruppetto di baracche sparse lungo il ciglio della strada, con alcune donne e bambini che giocano. Qui si aprono delle vedute mozzafiato sulle terrazze a ragnatela, che in alcuni punti sembrano formare un grande anfiteatro scavato tra le montagne e di un verde brillantissimo! Non c’è un vero punto panoramico, ma lungo la strada, tra qualche ramo e qualche pianta di felce, lo spettacolo è notevole; il giovane ragazzo si ferma a suggerirmi i punti migliori, arrivare fin quassù è stato faticoso ma caspita se ne è valsa la pena! Si torna indietro lungo i 25 km che ci separano da Banaue. Proprio nel tratto finale di strada però ecco l’imprevisto: poco prima del bivio e per di più ancora in salita fra i sassi, la moto si ferma: qualche guasto penso io, e invece no, capisco dopo un pò che è finita la benzina! Il giovane, con la bocca rossa dovuta al continuo masticare e sputare quella roba che qui tutti masticano e sputano, apre il serbatoio e prova ad aspirare l’aria ma senza successo, così ci tocca spingere, sotto il sole, sui sassi ed in salita! Non ho la percezione di quanta strada manchi al bivio e quindi all’asfalto, e la cosa un pò mi preoccupa; per fortuna però dopo qualche centinaia di metri, anche se ancora su sterrato, comincia la discesa. Lui rimonta in sella e ripartiamo...in folle! Si, avventura  (o disavventura?) allo stato puro. Ecco il bivio, e finalmente la strada asfaltata e la discesa che porta a Banaue, dove arriviamo non so come, ma sani e salvi, anche se un pò acciaccati ed infangati. Di strade ne ho percorse tante nei miei viaggi, ma una in queste condizioni fatico a ricordarla. Ci salutiamo, e continuo a girovagare un pò per le poche strade del paese, cercando di respirarne il più possibile l’atmosfera; nei piccoli negozi/bottega, tutti discretamente bui e spartani, ci sono alcune donne che levigano le numerose sculture in legno tipiche di questa zona, dai costi che sembrano più rivolti al turismo locale visto la loro esiguità rispetto al resto delle merci. I guidatori di sidecar aspettano qualche locale o turista (davvero pochi) da portare, seduti o semi sdraiati sui loro mezzi (tutti personalizzati con adesivi e aggeggi vari) parcheggiati alla rinfusa lungo la strada, mentre passa anche qualche jeepney in partenza, stracarico di merci e persone accampate anche sul tetto: si questo è proprio un altro mondo. Percorro la discesa che porta al ponte sospeso, c’è un grande capannone in cemento coperto dall’alto dove alcuni giovani stanno giocando a basket, mentre altri loro coetanei assistono e fanno il tifo seduti tutt’attorno alle gradinate . Anche le semplici moto viaggiano stracariche, non è raro vederne passare alcune cariche anche con 4 persone e piccoli bambini seduti sul manubrio; da queste parti guidano giovanissimi, sia ragazzi che ragazze. Dopo aver assaporato un pò di vita locale torno in camera, giusto in tempo per non prendermi il forte temporale che si abbatte su Banaue: osservo dalla finestra la gente che sembra non preoccuparsene più di tanto di bagnarsi e continua a girare più o meno tranquillamente appena l’intensità della pioggia cala. Farò una doccia anche io, e poi cena in veranda.

Sono già due notti che prima di andare a letto sento provenire da non lontano dei suoni ritmici tribali, tipo dei gong, così, terminata la cena, decido di uscire e capire da dove arrivano: fuori è buio, ha smesso di piovere, mi faccio guidare dalla musica che proviene chiaramente dall’alto del Banaue Market, una vecchia struttura in cemento affacciata sulla piazza e che ospita qualche bottega; salgo una buia scalinata e mi ritrovo accanto a delle vetrate di quella che sembra una aula scolastica, appena più grande, addobbata con dei cuori rossi di carta alle pareti, e con delle sedie di plastica come platea. Ecco da dove proveniva la musica, infatti dentro un gruppo di ragazzi fra cui un paio di bambini, sta provando dei passi di una danza tradizionale, quando uno di loro, accorgendosi della mia presenza, mi invita ad entrare: mi racconta in inglese che fra meno di una mezz’ora faranno uno spettacolo di danze Ifugao nei loro costumi tradizionali. Kelvin, questo è il suo nome, mi intrattiene raccontandomi in modo fiero che ogni sera fanno questa iniziativa, purtroppo a mio avviso scarsamente pubblicizzata visto che ci son capitato per puro caso dovuto alla mia curiosità. Ha quasi inizio lo spettacolo, lui va a prepararsi, e nel frattempo arriva anche una famiglia di turisti filippini ed una giovane ragazza occidentale. Lo spettacolo comincia, introdotto in un perfetto inglese da un aitante giovane: uomini e donne, col sottofondo del suono di gong e tamburi, esegue danze e rituali tipici della tradizione Ifugao, vestiti in abiti tradizionali, gli uomini solo con due fasce di stoffa rossa, una legata in vita a scendere sul davanti ed una in diagonale sul petto con in testa una corona sempre in stoffa e con le piume verso l’alto, mentre le donne con una gonna di stoffa dalle tonalità rosse e blu, una camicia bianca, in fronte e al collo vari monili, tutti a piedi nudi. La cosa bella è che sono rappresentate tutte le generazioni, c’è una donna molto anziana e dei bambini, il più piccolo forse non avrà neanche 6 anni, e tutti ballano a ritmo le danze sciamaniche, usando anche scudi e lance nella rappresentazione. Tradizioni che, con un certo orgoglio che traspare soprattutto fra i più giovani, vengono conservate e tramandate, molto bello tutto ciò! L’aspetto tragicomico è che, a fine spettacolo, gli ospiti (in realtà oltre alla famiglia di locali, ci siamo solo io e la giovane occidentale) vengono invitati a danzare con loro: non so se con il mio danzare si sia rischiato l’incidente diplomatico, fatto sta che nessuno ha visto nè può documentare la cosa, quindi reputazione salva! E in più, non so come, ma ad un certo punto della danza mi son ritrovato a ballare con due giovani poliziotti arrivati nel frattempo ad assistere, cioè io che ballo e in più insieme a dei gendarmi? Succedono cose davvero impensabili viaggiando...Mi manca solo il karaoke (e ci sono andato vicino a Manila giorni fa) e ho fatto bingo. Foto ricordo ed un’offerta libera, bella sorpresa questa serata, bella ed intensa giornata di viaggio quella di oggi. Scendo nella piccola piazza ora deserta, sono appena le 21.20 ma qui le giornate, in montagna, finiscono presto.


26 Aprile


Ieri sera grazie ai ragazzi danzatori che me lo hanno spiegato, ho finalmente scoperto come quella pasta che tutti masticano e sputano: Moma, è un quadrato di pasta molle fatto di burro, lime, tabacco e qualche altro intruglio, venduto insieme ad una foglia in piccoli sacchetti di plastica. Ecco così risolto anche il mistero dei cartelli scritti a mano “No spitting moma” messi davanti alle scuole e ad alcune guesthouse. E visto che sono in tema di curiosità finisco con l “helo helo”, il gelato di queste parti, ovvero una palla di gelato mista a frutta sciroppata, cocco, mais dolce e ghiaccio tritato, servito in bicchieri di plastica. Esco presto anche questa mattina, domani qui a Banaue comincerà   l’Himbayah, quattro giorni di festa con balli, canti e giochi della tradizione Ifugao, e il paese sembra in fermento, tutto addobbato con i fili di plastica gialla che penzolano dai grovigli di cavi sopra alle vie, e le botteghe con le stoffe rosse dei costumi Ifugao in bella vista. Cammino in direzione sud uscendo da Banaue fino ad arrivare al minuscolo villaggio di Tam-an, che raggiungo scendendo una lunga scalinata fino ad alcune piccole risaie: quattro tipiche baracche in legno, con adulti che giocano a bocce con dei sassi, e uno di loro che salutandomi mi domanda se sono pakistano per via della barba. Da qui il sentiero sale e si fa leggermente scivoloso e molto stretto in alcuni punti; in completa solitudine e completamente immerso nel verde della giungla con qualche scorcio su alcune risaie, dopo 45 minuti rispunto a Banaue. Non ho molto da fare, giornata lenta oggi, “a volte i viaggiatori si fermano stanchi” recitano i versi di una nota canzone dei Modena City Ramblers, ed oggi, che sono al giro di boa di questo viaggio attorno al mondo, questo vale un pò anche per me. Ne approfitto per osservare ed assimilare questi luoghi, questa quotidianità così diversa dal nostro modo di vivere. La piazza del mercato è sempre animata e colorata, jeepney carichi con gente fin sul tetto che partono e arrivano, sidecar, il venditore di palloncini e bambini che vendono gelati confezionati portati a tracolla dentro a scatole di polistirolo, attirando l’attenzione della gente agitando piccole campanelle. Mi rifugio pochi metri più in là ad osservare questo movimento di gente seduto su un tavolino della terrazza del ristorante Las Vegas, un posto buffo ed originale nella sua eccentricità: il pavimento in cemento grezzo, ricoperto in parte da stuoie di plastica, le pareti e gli arredi formano una cozzaglia unica di oggetti di tutti i tipi, fra cui una bandiera tedesca autografata, uno sbiadito poster di Elvis e tra le statue di legno Ifugao perfino una palla psichedelica da discoteca. Serve e fa cassa una giovane ragazzina che mi fa la ricevuta su un foglio a quadretti scritto a mano e strappato da un quaderno; questi sono i luoghi che più mi appartengono nei miei viaggi, e me ne rendo ancora più conto ora che sono qui a scrivere queste pagine affacciato al patio del Sanafe Lodge, mentre osservo, stavolta da lontano, i ritmi lenti della gente al di là del torrente, tra le case che disordinatamente si arrampicano tra il verde fitto delle montagne, mentre dall’alto di un balcone alcune ragazzine sedute sul bordo del parapetto mi salutano divertite. Vite semplici, che non vanno di corsa come noi in occidente, che non riusciamo a fermarci e goderci la vita fino in fondo. Il cielo si annuvola anche oggi, e puntuale alle 16.30 ecco il solito rinfrescante temporale, o forse qualcosa di più visto che ad un certo punto la forte pioggia impedisce addirittura di vedere la montagna di fronte. Si fanno le 20, e tuoni ed acqua stasera non accennano a diminuire...


27 Aprile


Oggi comincia il festival Himbayah, e qui a Banaue si respira un’ aria di attesa: la piazza del mercato, solitamente occupata dai jeepney, è vuota, con due cartelli che ne impediscono l’accesso ai veicoli. I venditori di palloncini si sono moltiplicati e qualcuno già prende posto lungo i gradini in cemento del Public Market; a amano a mano che passano i minuti arriva sempre più gente, tanti i turisti filippini armati di macchina fotografica al collo, fra loro, appena arrivati col bus notturno da Manila, alcuni turisti si aggirano zaino in spalla, sguardo stupito da tale strana atmosfera, mentre cercano guesthouse dove stare. Alle 8 dovrebbe partire la parata  dalla vicina scuola dell’Immacolata Concezione, ma qualcuno sussurra che non partirà prima delle 9. Mi aggiro per cercare l’angolo migliore dove appostarmi, intanto arrivano alla spicciolata dalla strada a lato i jeepney carichi anche sul tetto di uomini in costume tradizionale, sono diretti verso la scuola così come qualche bambino e bambina anche loro vestiti con le stoffe Ifugao. Il clima che si respira è davvero eccitante, da festa di paese che coinvolge tutte le generazioni; perfino la polizia turistica è coinvolta, fatta eccezione per un paio di gendarmi che con fischietto alla bocca hanno il loro bel da fare nell’impedire che i sidecar che continuano ad arrivare e scaricare gente non intasino la via d’accesso alla piazza, gli altri poliziotti scendono dalla piccola caserma con indosso la polo azzurra di ordinanza e sotto...le donne la gonna in stoffa rossa a righe orizzontali, gli uomini con la fascia in stoffa con gli stessi motivi indossata a mò di perizoma; si poliziotti così conciati non li avevo mai visti, ma ciò me li rende più simpatici. Sono le 8.40, ormai la piazza è assiepata di gente in tutti i suoi quattro lati, coi bambini seduti per terra in prima fila: in fretta e furia arriva una jeep della polizia e si mette di traverso bloccando l’accesso dei veicoli anche alla via laterale, segno che sta arrivando il corteo! Eccolo finalmente, ad aprirlo proprio lo stendardo della polizia di Banaue, portato a mano da ragazze e ragazzi, seguiti a ruota dai “piccoli amici della polizia”, bambini e bambine con la medesima uniforme a metà. E di seguito il corteo vero e proprio, con i vari gruppi divisi per paese o tribù, che sfilano lentamente ognuno portando a mano il proprio piccolo striscione fatto di stoffa, tutti rigorosamente a piedi scalzi e tutti coi costumi tradizionali che si differenziano per qualche particolare da tribù a tribù; c’è chi sfila coi cesti di grano e di riso, chi li porta in testa, chi è vestito di pelli di animali e ne simula nei movimenti la caccia con lunghe lance e scudi di legno, e chi suona i tradizionali flauti, tamburi e gong. Sono rappresentate anche oggi tutte le fasce di età, che bella festa! Qui la tradizione è ancora viva, non è solo una carnevalata, lo si percepisce dal totale coinvolgimento della gente. Si, ho fatto bene a non partire stamattina presto e a godermi l’atmosfera di questo atteso festival. Alle 9.15 hanno sfilato tutti i gruppi, ha inizio così l’Himbayah, che continuerà con le varie prove di lotta, canto, corse nei prossimi quattro giorni, quindi farò a tempo a vedere qualcosa, ma intanto, lasciato il pesante zaino in custodia al Sanafe Lodge, vado alla vicina People Guesthouse dove il solito ragazzo cattura turisti, ora che la strada è di nuovo libera, smista i vari minivan e sidecar per le escursioni. Scambio qualche chiacchera con un anziano viaggiatore appena arrivato a Banaue, lui è di Madrid, uno tosto a quanto pare, gli do giusto qualche dritta su cosa vedere qui nei dintorni, poi arriva il minivan diretto a Sagada, lo saluto e riparto alla volta della mia prossima meta. Sono le 9.50, a bordo solo 5 persone oltre a me e l’autista: 3 filippini e una coppia di occidentali. Si va verso nord, la strada sale arrampicandosi tornante dopo tornante lungo i fianchi delle montagne: belli i panorami, c’è qualche piccolo tratto di sterrato forse dovuto a qualche frana, e dopo due ore di viaggio passiamo per l’animata cittadina di Bontoc; da qui non manca molto. La strada riprende a salire, fiancheggiando alcuni grossi massi franati, e gli ultimi 7 km di sterrato sono davvero tosti; il minivan sale a fatica tra prima e seconda, e dopo neanche tre ore dalla partenza ecco Sagada, paese a quasi 1500 metri di altitudine nella Mountain Province. Prendo il mio zainetto e vado a piedi alla ricerca di una camera per le prossime due notti: dopo due tentativi a vuoto, al terzo trovo una semplice camera con bagno in comune al Residential Lodge, una casa di cemento color azzurro, lo stesso delle pareti delle stanze, all’irrisoria cifra di 250 pesos per notte. Sagada non è grande, le case costruite in maniera disordinata lungo la strada principale, alcune delle quali sembrano ancora in costruzione o lasciate lì a metà coi piloni di cemento verso l’alto; case piccole e molto semplici, tutto attorno le montagne e la fitta giungla. In sè il paese non è esteticamente bello, c’è una piccola chiesa immersa in una pineta con qualche mucca che pascola, un piccolo ospedale e una serie di guesthouse spartane oltre alle botteghe che vendono souvenirs, tra cui un paio di laboratori dove uomini e donne sono intenti a lavorare sulle vecchie macchine da cucire  per la produzione delle colorate borse tipiche del luogo. Il pezzo forte di Sagada però è la sua atmosfera di pace e tranquillità che vi si respira: non c’è il via vai incessante di sidecar o jeepney di Banaue, pochi i rumori e tanta quiete; approfitto ora che ancora c’è il sole (nonostante i nuvoloni all’orizzonte) per incamminarmi, sbagliando due volte strada, lungo il breve sentiero non indicato che scende nella pineta fino all’ingresso di una grotta, la Lumiang Burial Cave: l’ultimo tratto è particolarmente scivoloso, non c’è nessuno, solo gli enormi massi che delimitano il buio accesso alla grotta, a fianco al quale sono accatastate da centinaia di anni delle antiche bare in pietra. Mi limito a vedere da qua, il terreno è troppo umido e scivoloso per andare oltre a curiosare. Risalgo ad altezza della strada e cammino un pò su e già per l’unica via di Sagada, fermandomi a provare la locale torta Lemon Pie; si odono i primi tuoni in lontananza, e un pò in ritardo rispetto ai giorni scorsi, ecco che arriva la pioggia; breve ritirata in camera, ma smette in fretta permettendomi di uscire per la cena. Trovo posto in un semplice ristorante con terrazza che affaccia sul precipizio, tavoli e arredamento tutto in legno; mi affaccio giù e mi accorgo che ho a lato i panni stesi di qualcuno, e come compagno di cena un piccolo gatto dall’aspetto un pò malconcio, con cui divido la cena. Fuori la strada è ancora bagnata, c’è una quiete impressionante e la scarsa illuminazione mi permette di ammirare un bel cielo stellato.


28 Aprile


A differenza di Banaue, sembra che a Sagada alle 7 del mattino gli unici sveglia siamo io, polli e pollastri e la numerosa e pacifica comunità di cani randagi che vagano per la strada. Alle 5 però erano svegli anche i turisti filippini ospiti del Residential che si chiamavano ad alta voce da una stanza all’altra! Dopo una breve colazione mi incammino giù per la strada che porta fuori dal paese, destinazione le piccole cascate di Bokong: passa di rado qualche stracarico jeepney, con addirittura una bambina sul tetto con la sua famiglia, gambe a penzoloni e pacchetto di patatine in mano! Meno male che c’è la Lonely Planet, perchè il punto dove ha inizio il sentiero non è affatto indicato; si comincia con una breve scalinata che passa accanto a piccole abitazioni, poi da qui in poi il sentiero diventa una striscia sempre più sottile di terra tra la vegetazione. Percorro un paio di centinaia di metri, il terreno è sempre più fangoso, ad un certo punto scompare  letteralmente, continuare diventa un azzardo, peccato, ci devo rinunciare e ritorno verso la strada principale che comincio a discendere: in discesa, tornante dopo tornante, quasi non mi accorgo di aver percorso quasi 1 km e mezzo e arrivo all’imbocco di un altro sentiero, stavolta segnalato da un’asse di legno con una rudimentale scritta. Un paio di operai sta cominciando a costruire proprio qui una casa, dove ha inizio una pista in terra battuta e sassi, transitabile anche da veicoli 4x4 ed immersa in una fitta pineta. E’ ancora presto ma il sole è già alto in cielo e si fa sentire. Stavolta porto a termine la mia meta, ed arrivo dopo una tranquilla passeggiata  in cima al monte Kiltepan (1636 metri): qui c’è uno spiazzo con un piccolo locale che funge da bar, ma soprattutto un bel panorama affacciato su di una stretta vallata, con attorno le imponenti montagne ricoperte dalla foresta, e la luce del mattino crea quell’effetto magico di leggere strisce di foschia tra le cime delle montagne più lontane, che crea un quadro ancora più suggestivo. Ho fatto anche oggi una bella camminata, me ne resto un pò di tempo quassù, seduto a dissetarmi e a contemplare in quasi solitudine, oltre a me ci sono solo le due giovani ragazze addette al bar; poi arriva una coppia di turisti locali, lui in mountanbike, lei a piedi di corsa, evidentemente in allenamento. Comincio a riscendere lungo la strada sterrata, in alcuni punti si mescolano i suoni dei canti dei grilli e delle cicale con quelli degli uccellini, interrotti in parte dai miei passi sui sassi; mi fermo per godermi questo idillio.

I ritmi quassù a Sagada sono lenti, io mi adeguo anche perchè oltre a curiosare tra le botteghe di souvenir non mi rimane molto da vedere. Torno verso il paese arrivando al piccolo ospedale con a fianco l’ufficio del turismo e sedute fuori le guide locali, facilmente riconoscibili da quella che è la tenuta ufficiale di queste parti: tshirt, pantaloni lunghi impermeabili, ed infradito! Qualcuno ha perfino in testa dei leggeri berretti di lana, il chè, vista la temperatura, mi sembra un pò eccessivo. E’ quasi ora di pranzo, mi fermo nella semi nascosta casetta dello Strawberry Caffè: entro ed in pratica mi rendo conto di essere in fondo in quella che è la casa dei proprietari adibita a ristorante, con 4 tavoli di legno con sopra i menù, e in uno di questi una bambina che sta guardando i cartoni animati davanti alla tv mentre un altra a fianco scrive su un quaderno. Un posto carino, con le pareti decorate da disegni dipinti e con i prodotti home made, tra cui le squisite fragole con cui vengono fatte anche le marmellate. Sono l’unico anche qui, bizzarro ma davvero piacevole come luogo. Mi manca ormai solo un sentiero da provare, quello che porta alle Hanging Coffins, le bare in legno sospese sul fianco di una montagna: trovare dove parte senza chiedere informazioni in giro è impossibile, infatti comincia con una stretta scalinata in pietra che scende a lato dell’ingresso di alcune casette con tanto di panni stesi ad asciugare. Ad un certo punto della discesa, tra i rovi, mi trovo a poca distanza da un bufalo, sta pascolando proprio lì, cosa faccio, passo o non passo? Ormai entrambi ci siamo visti, in più lui è su un prato ad un metro di altezza dal sentiero, tanto vale provare a passare, non salterà! Poco oltre il sentiero risale, e diventa sempre più intuitivo mentre cammino su strati di aghi di pino caduti dagli alberi. Troppo intuitivo tanto che mi perdo più di una volta; intravedo le rocce che come grandi pinnacoli salgono in su, però nessuna traccia delle bare, e neanche del sentiero. Evidentemente qui non ci passa nessuno da un pò, così per la seconda volta nella giornata, mi tocca desistere e tornare in qualche modo verso la strada, giusto in tempo per prendermi qualche goccia di pioggia, infatti il cielo si è velocemente coperto e comincia un forte temporale che dura qualche ora.

E’ un luogo strano Sagada, difficile da definire: la Lonely Planet lo definisce come un paradiso dei backpaker, in realtà in questi due giorni ne ho visti ben pochi; però indubbiamente è un luogo che emana una certa tranquillità, con le sue case tipiche da zona rurale e la classica atmosfera da paese di montagna. Smette di piovere, in tempo per uscire dalla camera e cenare, facendo gli ultimi passi su e giù per la poco illuminata e tranquilla strada principale, senza marciapiede, che attraversa questa sonnolenta oasi di quiete.


29 Aprile


Ci sono delle cose e dei sapori che è impossibile descrivere in un diario di viaggio, ed uno di questi è quello della chocolat cave, un sublime ed abbondante tortino al cioccolato fondente e bianco, ripieni di cioccolata liquida e calda ed accompagnato da un buon tè di montagna...da orgasmo, credo sia questa la colazione più ipercalorica mai fatta fino ad ora, qui nel piccolo locale lounge (l’unico del genere) Bread Bakery. Sono le 7, splende il sole come ogni mattina, ormai potrei fare il meteorologo di questa regione: sole fino al pomeriggio, e verso sera improvvisi e violenti rovesci temporaleschi. Percorro per l’ultima volta la strada di Sagada, tra qualche cane che gioca ed un papà che accompagna il proprio piccolo a scuola, entrambi con zainetti in spalla decisamente vissuti. Arrivo con il mio zaino in cima alla via dove sono parcheggiati i colorati e sgangherati jeepney in partenza: non c’è un servizio diretto per Banaue, quindi dovrò arrivare a Bontoc e da lì proseguire con un altro mezzo. Uno di questi jeepney è in partenza, salgo su, dove sedute sulle due panche laterali una di fronte all’altra, ci sono solo donne, quasi tutte di una certa età, alcune con delle grandi borse. Sale altra gente, c’è anche un’anziana con un bambino legato in fascia, che si siede accanto a me; ora il jeepney è pieno, e parte, siamo su in  compresi tre bambini. Anzi no, siamo di più...infatti qualche metro più avanti il jeepney si ferma lungo la strada e carica su altra gente che prende il posto sul tettuccio di lamiera! Fantastico, questo è un viaggio nel viaggio; il jeepney comincia ad affrontare i tornanti in discesa, dentro siamo stipati come polli in batteria, ed essendo aperto lateralmente fa anche un certo freddo. L’unico movimento che riesco a fare è quello di alzare il braccio per afferrare la sbarra di ferro a cui tenermi; di fronte a me, alle spalle delle donne che ho davanti, il panorama è incredibile, con una fitta fascia di nebbia che sembra tagliare in due le montagne e in cui improvvisamente ci immergiamo e pare di essere in Val Padana una mattina di novembre! Il piccolo accanto a me, vestito con un pigiamino pieno di macchie, si è nel frattempo addormentato e la nonna lo avvolge in una coperta, anch’essa bella vissuta: le faccio cenno che può sdraiargli le gambe sulle mie, almeno sta più comodo. Ecco, questo viaggio in jeepney è uno di quei momenti in cui davvero assaporo in pieno l’essenza stessa di un viaggio, entrando completamente in sintonia con il posto, con la gente, e nonostante la scomodità, mi sento bene e felice. Un’ora di strada ed arriviamo a Bontoc; pago all’autista i miei 45 pesos, neanche 75 centesimi di euro, e lui mi indica un jeepney che da qui a poco dovrebbe partire per Banaue, distante un paio d’ore di viaggio. Il jeepney in questione, di color grigio e rinforzato con para urti tubolari sul davanti, è un pò più grande di quello con cui sono arrivato fino a qui, dentro ha perfino due rudimentali e vecchie casse stereo. Tempo venti minuti per aspettare che arrivino altri passeggeri e si parte, stavolta per nulla stipati, anzi, c’è l’intera famiglia dell’autista con moglie e due bambine in braccio davanti e tre ragazzini dietro, un gruppo di sei cordiali turisti filippini (5 ragazze d un ragazzo) provenienti dall’isola di Mindanao, ed una turista giapponese che conosce Milano avendoci vissuto un anno, ed ora vive in Cina; scambiamo qualche chiacchera catturati dalla curiosità reciproca nell’avere la stessa macchina fotografica al collo. Poco dopo Bontoc ci fermiamo per caricare a bordo un’ anziana donna che chiede un passaggio a bordo strada e, nonostante dietro posto ci sia, l’autista fa scendere i tre suoi ragazzini, poco più che bambini, e li fa salire sopra al tetto tra i pacchi legati, pazzesco ma divertente. L’anziana tra l’altro scende poco oltre, ma i ragazzini rimangono su. Curve su curve e e scorci di belle vedute dall’alto su alcune risaie. Le basse panche non sono per nulla comode, in più sembra di essere shekerati in continuazione. A metà strada ci fermiamo per una sosta sul picco al confine tra le province di Mountain e di Ifugao: ci sono una dozzina di baracche in cemento con tetto in lamiera, piene di frutta e verdura in vendita, soprattutto cavoli, oltre ad un paio di spartani locali dove mangiare e al grande ripetitore ai piedi del quale c’è una statua della Madonna con dei bambini che vi giocano attorno. Tutto il luogo quassù è avvolto in una fitta foschia nebbiosa, i tre ragazzini sono sempre sopra al tetto del jeepney, per fortuna non sono caduti! Riprendiamo il viaggio, l’autista mette su della musica country, ora la strada è tutta in discesa ed usciamo così dal grigiore e torniamo ad essere illuminati dal sole; dopo un paio di ore dalla partenza, come previsto, riecco Banaue. Mi fa una bella sensazione tornarci , mi sono affezionato a questo paese di montagna. Si avverte ancora per le strade l’atmosfera festosa dell’Himbayah, tanto che nella piazza principale sono parcheggiati dei furgoni e dei jeepney completamente rivestiti di fogliame che li fanno assomigliare alle auto dei Flintstones e c’è gente, tanta gente di ogni età; torno a farmi riaccogliere dai gentili gestori del Sanafe Lodge, e sono di nuovo fuori a godermi questa atmosfera. A lato della piazza c’è quella che viene definita come la palestra municipale, un grande tetto in lamiera a coprire un ampio spiazzo in cemento con due piccole gradinate laterali che con l’andare dei minuti si vanno riempiendo; prendo anche io posto e subito mi si siedono accanto dei bambini, divertiti ed incuriositi dalla mia strana presenza, che cominciano un pò timidamente a dialogare con me in inglese. Inizia la cerimonia del pomeriggio, le due gradinate e soprattutto lo spiazzo di accesso alla piazza sono gremiti di gente, c’è qualche turista, pochi in realtà e facilmente riconoscibili fra la folla. Lo speaker presenta i giochi anche in inglese: prima la rappresentazione di una danza di caccia, con gli uomini in costume tradizionale, poi una lotta in stile greco/romana che suscita l’entusiasmo  e anche l’ilarità del pubblico, assai partecipe, e poi ancora una rappresentazione di come nasce la Moma e alcuni elementari giochi stile tiro al bersaglio, che appaiono un pò la versione locale dei vecchi giochi senza frontiere nostrani. Sono buffi, ma già come avvertivo giorni fa, si percepisce il coinvolgimento, la festa  e l’attesa che tutto ciò provoca nelle persone di ogni età. Ad un certo punto il piccolo seduto accanto a me, convinto di non farsene accorgere, mi accarezza lievemente i peli delle gambe, che pare lo incuriosiscano molto, che buffo. Mamma mia che giornata, oggi completamente immerso e assorbito dal luogo e dalla gente, è questo il bello del viaggiare così, il contatto con le culture, con la gente, quello che mi era mancato nella prima parte “occidentale” del viaggio, e di cui ora mi sto nutrendo. Finisce intanto questa lunga tornata di giochi e me ne torno a vagare per l’animata piazza e per le vie circostanti , col sottofondo continuo delle campanelle agitate dai piccoli venditori di gelati. C’è un tavolo di legno sul quale ci sono delle foto di giovani partecipanti, ragazze e ragazzi, al concorso di bellezza, e dei ragazzini raccolgono i foglietti di carta dei voti che chiunque può dare pagando due pesos, tutto molto semplice, quasi da festa scolastica. Mi siedo un attimo in disparte e perfino una bambina di soli 4 anni mi si siede accanto e comincia a parlarmi nel suo elementare inglese, ma già migliore del mio; si diverte a farlo, ed io pure! Sono quasi le quattro del pomeriggio di questa intensa giornata, ricca di emozioni, e puntuale arriva la pioggia: ritirata in camera! Viene presto sera, dalla finestra della mia stanza in legno, si sentono forte dalla vicina palestra municipale le urla dei teenagers, stasera c’è il concorso canoro dei giovani, una sorta di grande karaoke con tifo da stadio, ma sono già sazio di emozioni e anche stanco, per oggi può bastare così.


30 Aprile


Giornata decisamente no, forse è il contrappasso dopo il picco di entusiasmo di ieri, o più realisticamente, un colpo di freddo che mi ha messo ko lo stomaco; proprio oggi con ci voleva visto che ho il check out della camera alle 12 e dovrò poi attendere fino alle 19 prima di prendere il bus notturno che in 9, 10, 11 o quante ore saranno, mi riporterà a Manila. Passo più tempo possibile in camera, poi esco a vagare su e giù per le vie del paese: è l’ultimo giorno dell’Himbayah, sento esibirsi ancora teenagers che vestiti nei loro costumi tradizionali cantano canzoni occidentali in un perfetto inglese, e alcune sembrano davvero in gamba. C’è aria però di smobilitazione, e dal pomeriggio, lentamente, sidecar e jeepney tornano ad occupare la piazza del mercato come parcheggio. Ho avuto un bel colpo di fortuna a capitare qui a Banaue proprio durante questo festival. Al coperto della palestra municipale, dove un gruppo sta suonando della musica country, gli spalti sono ormai semi deserti; scendo lungo la strada che porta al di sotto della palestra stessa in quello che sembra un parcheggio sotterraneo abbandonato, ma occupato ancora da qualche piccolo banco di artigianato locale, diviso per villaggi. Il tempo scorre lentamente, giornata interlocutoria in attesa della partenza serale. Niente sole oggi, le montagne sono ricoperte dalla foschia e la quotidiana pioggia non si fa attendere, così mi rintano a fare scorrere il tempo sulla terrazza veranda del Sanafe Lodge, sdraiato sulla grande amaca in corda, e sorseggiando un tè caldo per tenere a bada lo stomaco; stasera niente cena, non si sa mai. Arrivano le 19, sotto ad una leggera pioggia mi faccio portare in sidecar gli zaini su per la breve ma ripida salita fino alla fermata del bus bianco e viola della compagnia Ohayami, già lì in attesa. Sono stato davvero molto bene in questi giorni fra queste montagne e la gente della Cordigliera, è stata un’esperienza che non dimenticherà. Ora però non vedo l’ora di essere al più presto in un letto, a Manila; davanti a me ho ancora una decina di interminabili ore di viaggio su strada...


1 Maggio


Arrivare ad una piccola, buia e confusa stazione degli autobus a Manila alle 4.30 del mattino, e prendere nel marasma generale un taxi che poi non è un vero taxi ma un’auto privata, è sicuramente una di quelle esperienza da raccontare. Per fortuna sono abbastanza tagliato dopo anni di esperienza a queste situazioni, sennò non immagino che fine avrebbero potuto fare i miei bagagli! Il viaggio notturno è stato lungo, per fortuna il mio stomaco va molto meglio. Per strada a quest’ora, ancora col buio, c’è poca gente ma già tanta afa. Per mia fortuna la camera alla Chill Out guesthouse è libera, così posso finalmente sdraiarmi un pò...

Strana metropoli Manila, capitale dalle mille facce con un denominatore comune, il sottofondo di miseria presente un pò ovunque. Qui la quiete di Sagada è un ricordo lontano, le strade sono invase dai jeepney e dai tricicli stavolta a pedale; c’è qualcuno che spazza il proprio angolo di strada, famiglie intere che passano il tempo per terra sui loro cartoni, con i panni stesi al muro e lavati chissà dove, e perfino un gruppo di ragazzi che han fatto il loro campo da basket in mezzo ad una strada, con tanto di vero canestro. Mi concedo una tappa con pranzo nell’enorme e climatizzato Robinson’s Place, e ora mi incammino lungo Roxas Blv, andando ben oltre alla baia: c’è una grande installazione lunga centinaia di metri, super presidiata dalla polizia...è l’ambasciata degli Stati Uniti, c’era da aspettarselo. Eppure faccio fatica a comprendere fino in fondo i così buoni rapporti tra i due Paesi considerando ciò che qui hanno combinato gli americani sul finire della II Guerra Mondiale. Passo oltre, attraversando il Rizal Park ed arrivando all’Ocean Park, un grande parco acquatico con qualche negozio a tema, destinato ai bambini ed alle famiglie più fortunate rispetto a quelle che si vedono solo a poche centinaia di metri da qui. Mi ero abituato ai sorrisi spensierati dei bambini della Cordigliera, forse sarà per la stanchezza, ma faccio fatica emotivamente quando incrocio certi bambini, da soli, alcuni piccolissimi e in condizioni di povertà assoluta. E’ disarmante. C’è una bambina, non avrà più di 6 anni, vestita di stracci sporchi più che di vestiti, a fatica porta in spalla una grande borsa più grande di lei e sull’altro braccio un contenitore di polistirolo: è sola, non ce la fa ed è evidente, tanto che si ferma a riposarsi un attimo; vorrei fare qualcosa, magari aiutarla a trasportare i pesi ma evidentemente non è abituata ad essere aiutata e declina riprendendo tutto in spalla e ripartendo. Non ho parole se non tanta tristezza nel cuore. Torno verso la baia, il viale pedonale si è riempito di piccoli carretti che vendono strani cibi, e di gente che sembra vivere accampata qui con a fianco i cartelli “massage” scritti a pennarello su pezzi di cartone; non può mancare anche il solito venditore di gelati che pedala sul suo carretto richiamando l’attenzione con il suonare della sua campanella. Stasera voglio evitare troppi sbalzi con l’aria condizionata, così per quest’ultima cena qui nelle Filippine, scelgo la terrazza coperta di uno dei locali affacciati lungo Roxas Blv. Da quassù vedo alcune delle famiglie che vivono accampate lungo lo spartitraffico, alcune vendono sacchetti di arachidi e noccioline, con i bambini che, scalzi, giocano con quello che trovano come tappi di bottiglie raccolti per terra...poi qui sulla terrazza arriva una distinta famiglia di filippini, e mentre io divido la mia misera cena con due gatti accampatisi sotto al mio tavolino, loro accendono il grande televisore e con serietà ed impegno, a turno cominciano il karaoke...


2 Maggio


Ultimo giorno a Manila. Mentre faccio colazione con due squisiti donuts e un succo di mango (meno di un euro...) seduto al banco di uno dei tanti mini market della /Eleven, guardo fuori dal vetro lo scorrere della vita qui al quartiere di Malate. Le Filippine mi hanno piacevolmente colpito, non le avevo mai prese in considerazione prima, eppure hanno davvero tanto da offrire: montagne, gente semplice, villaggi dove il tempo sembra essersi fermato e, anche se non ci sono stato, spiagge e località marine da paradiso in terra. E poi Manila. Ecco, forse no, Manila come città in sé non ha nulla da vedere, è una cittadaccia, però ad un viaggiatore che non è solo in cerca di bellezze artistiche e monumenti, bhè allora anche Manila in fondo coi suoi colori e le sue forti contraddizioni sa regalare emozioni e inviti alla riflessione. Intanto qua fuori i guidatori dei tricicli  mezzi malandati continuano faticosamente a pedalare, tra gli strombazzanti jeepney e il solito disordinato traffico. Faccio un ultima breve passeggiata e ne approfitto per regalare un paio di magliette ad una famiglia di strada, poi me ne torno nella soffocante camera/cella della Chill Out: chi ha progettato queste stanze è un genio, almeno un buco nella parete che da nel corridoio, in alto, lo poteva pensare per fare circolare l’aria, in fondo siamo a Manila non a Stoccolma! Sistemo lo zaino, con parte della biancheria fatta lavare qui in guesthouse, e sono pronto per cercare un taxi con tutta calma; il primo che fermo per strada mi spara la cifra di n500 pesos, follia! Il secondo aziona il tassametro, così salgo su: un ultimo sguardo fugace alla ampia rotatoria di cemento di Remedios Place e ai “disperati” che la abitano, e in poco più di mezz’ora e per soli 152 pesos arrotondati con mancia a 200, sono al Terminal 1 del Quinoy Aquino Itz Airport di Manila. C’è tanta gente e confusione, mi metto in coda dopo una lunga attesa per il check in quando un impiegato della compagnia aerea Saudia mi fa gentilmente presente che sarebbe opportuno cambiare i pantaloni; caspita non ci avevo pensato che farò scalo dagli arabi! Cambio mise nei bagni dell’aeroporto. Sarà questa che ho davanti, l’ultima lunga tratta di questo viaggio, da Manila a Jeddah, con breve scalo a Damman, e poi da Jeddah ad Addis Abeba, in Ethiopia, dove arriverò domani. L’Africa, ultimo continente di questo Round The World, mi aspetta...


3 Maggio


Descrivere cosa si provi ogni volta che si riabbraccia mamma Africa è impossibile.

Il mio arrivo è stato tra i più tragicomici: dapprima sull’aereo partito da Jeddah in Arabia Saudita dopo un lungo scalo notturno, mi sono ritrovato come vicine di posto un nutrito gruppo di donne etiopi, differenti età ma tutte avvolte in lunghi veli neri, insolito per i costumi tradizionali d’ Ethiopia; Evidentemente nessuna di loro aveva mai preso prima un aereo a giudicare dalle scene comiche al momento dei pasti, per la disperazione della povera hostess. Dopo circa un’ora dal decollo e da lì fino all’atterraggio, una di esse ha cominciato ad avere delle irrefrenabili crisi mistiche, con urla, svenimenti ed invocazioni ad Allah, tanto che in tre non riuscivano a tenerla ferma! Ma non è finita qui: all’arrivo in aeroporto l’addetto ai visti non c’è, non si sa dove sia finito, il personale lo cerca su sollecito mio e di una donna indiana col suo bambino, unici stranieri appena atterrati; il personale dell’aeroporto, imbarazzato, continua a scusarsi, mentre io nel frattempo e illegalmente entro almeno a recuperare lo zaino visto che è lì a vagare da un bel pò sul nastro bagagli, e non si sa mai...Dopo un’ora eccolo finalmente l’addetto ai visti, addirittura sono in due, e così pagando i 20$ ora il mio passaporto si arricchisce di un’altra importante pagina, e soprattutto posso entrare in Ethiopia! Ho appuntamento con Tebeje, il guardiano di casa di Armando: Armando è un collega di lavoro, una bravissima persona la cui compagna Gabriella si è trasferita qua ad Addis Abeba per lavoro (come insegnante) insieme alle sue due figlie piccole, e lui fa la spola tra Italia ed Ethiopia. Mi ha quindi dato una grossa mano nell’organizzazione di quest’ultima parte del viaggio, fornendomi per l’arrivo ospitalità nella sua abitazione (al momento sia Armando che Gabriella con le bimbe sono in Italia per il ponte del Primo Maggio). Ma il problema è che neanche Tebeje c’è! Qui fuori dall’aeroporto infatti non c’è nessun cartello col mio nome, e dire che per il contrattempo del visto sono anche abbondantemente in ritardo. Lo cerco tra i taxi gialli parcheggiati, ma senza risultato, così quando dopo vari tentativi il cellulare riesce ad agganciarsi alla rete locale, chiamo Armando in Italia che a sua volta, contattandolo, scopre che Tebeje si era dimenticato il giorno esatto del mio arrivo. Aiuto, sono due giorni che tra voli aerei e visti non faccio che passare ore ad aspettare...welcome to Africa Davide! Dopo ben tre lunghe ore ad aspettare in un angolo all’ombra, ecco arrivare Tebeje, un giovane ragazzo, molto alto e magro come un pò tutti da queste parti: si scusa ma non sono certo il tipo che si arrabbia per questo tipo di contrattempi che fanno parte del viaggio. Sono ad Addis Abeba, Africa...

Insieme (lui non ha auto ed è arrivato coi mezzi qua in aeroporto) prendiamo un vecchio taxi giallo, mezzo arrugginito e senza le maniglie e le manopole dei vetri, tappezzato internamente di immaginette e adesivi raffiguranti Gesù, e con un dito di polvere perfino sui sedili di pelle nera. Ho i miei primi scorci della capitale, mentre percorro le sue ampie e polverose strade, gente ovunque, baracche di lamiera e semplici case alcune che sembrano costruite a metà, disordine e terra ovunque. Il cielo intanto si annuvola, lungo gli incroci il caos è totale, i pochi semafori rossi sembrano rispettati da pochi, vince il più audace. Arriviamo alla casa, sita in fondo ad una stretta via sterrata a poca distanza dalla ambasciata egiziana, in un posto appartato e tranquillo. E’ una casa grande, cinta da mura, coi seggioloni e i dvd dei cartoni animati per le bimbe che sono curioso di conoscere a fine viaggio, quando tornerò qui al termine del mio giro; dietro all’abitazione c’è una depandance per Tebeje e per altre due giovani e timide ragazze che si occupano della casa stessa. Comincia a piovere, accompagnato da Tebeje vado a piedi fino alla vicina banca presidiata da due poliziotti che perquisiscono chi entra, e dentro tanta gente in fila agli sportelli; cambio i dollari che avevo in Birr, la moneta locale, grazie ad un impiegato poco incline come me alla matematica, che conta e riconta dieci volte per poi fare l’operazione a mano su un foglio di carta. Torno verso casa, lungo la strada fangosa dove incrocio perfino un ragazzo con una capra viva in spalla! Sono molto stanco, la notte di attesa a Jeddah e i lunghi voli, cominciano a faresi sentire. Tebeje e le due ragazze sono fin troppo gentili, a tanta riverenza non sono abituato e un pò quasi mi imbarazza; mi preparano un intero pacco di pasta da 500g stracotti e solo per me, infatti loro cenano a parte nonostante il mio invito, ma evidentemente qua si usa così. A queste dosi di pasta neanche mia mamma era mai arrivata!


4 Maggio


Parto presto, ho il volo interno diretto a Bahr Dar, a nord; oltrepassata una doppia serie di controlli, salgo sul piccolo ma moderno aereo Forcaz ad elica della Ethiopian Airlines, che puntuale, alle 7.40, decolla. Oggi c’è il sole e subito dall’alto si può ammirare la capitale Addis Abeba in tutta la sua vastità d’estensione; per un volo così breve servono a bordo pure un panino con bibita, niente male, e dopo soli 50 minuti atterro nella deserta pista del piccolo aeroporto di Bahar Dar. Qui ho un altro appuntamento, con Destaw, contattato dall’Italia sempre grazie all’aiuto di Armando: è un giovane muscoloso, maglietta bianca e jeans, parla un perfetto inglese e mi guiderà lui da qui fino a Lalibela, dove vive, poi la seconda parte del viaggio la continuerò da solo verso est. Con un mini van guidato da un suo giovane amico arriviamo in città, posta sulle sponde del più grande lago d’Ethiopia, il Tana. La strada principale vi corre a fianco, orlata di palme e percorsa da piccole Ape Cross a tre ruote di color bianco e azzurro e da numerosi van che fungono da trasporto pubblico, raro trovare altre auto private. Non c’è caos, sembra regnare un’atmosfera tranquilla. Affacciato proprio lungo questa strada, il Summerland Hotel dove pernotterò, è proprio un classico hotel, con una vera hall, un maggiordomo all’entrata ed un’ampia camera con bagno in marmo ed una piccola terrazza dalla quale, semi nascosto dalle palme, si intravede il Lago Tana. Lasciati i bagagli in camera, è proprio al Tana che sono diretto con Destaw, fin sulle sue placide rive dove tra un paio di locali all’ombra coi tavolini all’aperto, sono ormeggiate una manciata di semplici barche a motore col tetto in legno. Destaw parla con uno dei ragazzi qui seduti che armeggiano coi loro telefoni cellulari, contrattano sul prezzo; saliamo io lui ed uno dei ragazzi guiderà la barca, le acque di questo vasto lago sono leggermente mosse, all’orizzonte c’è uno stormo di pellicani adagiati a pelo d’acqua, ma ciò che più mi colpisce è il cielo: un cielo così mi è capitato di vederlo in Patagonia, in Mongolia, in Kyrgyzstan...e una delle cose che più ti colpisce anche in Africa è proprio il cielo che ti sembra di poter toccare, con le sue soffici nuvole bianche che scorrono sullo sfondo azzurro pastello vivo, intenso e luminoso, come gli occhi di questa gente. Incrociamo nel navigare una vecchia piroga  a remi tradizionale, fatta di papiro, e dopo una mezz’ora il giovane skipper spegne il motore attraccando ad una banchina in legno, o meglio, tenendo ferma con un piede la barca mentre lui si tiene aggrappato ad un palo per farci scendere. Insieme a Destaw comincio a camminare lungo un sentiero in terra battuta e pietre, circondato dalla fitta vegetazione e con qualche bancarella in legno che espone in vendita artigianato locale, stoffe e argenti oltre al caffè e ad incenso. Arrivo al piccolo monastero Ura Kidane Meret: ha una forma circolare con un tetto a punta a spiovere, sembra una capanna gigante e consiste in un corridoio circolare lungo le sue mura ricche di colorati dipinti risalenti al XIV secolo, e che ripercorrono le fasi di vita di Gesù e i fatti narrati nella Bibbia. Osservo, camminando, senza le scarpe lasciate appena fuori, su lunghe e vecchie stuoie messe sul nudo terreno e all’ombra dei portici in parte coperti da grandi teloni da cui filtra appena una luce che rende il tutto davvero suggestivo. La visita non richiede molto tempo, così io e Destaw torniamo verso la barca e da qui con un’altra breve navigazione, siamo su un’altra piccola isola promontorio ricoperta da alberi: qui dopo una breve passeggiata in salita c’è un altro monastero dalle mura però spoglie, e soprattutto c’è l’antico museo di Kebran Gabriel il cui accesso per ragioni storico religiose (incomprensibili quanto assurde) è consentito solo agli uomini. Ci sono tre sacerdoti uomini avvolti nelle loro lunghe tuniche bianche e azzurre, seduti all’ombra di un albero; uno di essi su nostra richiesta recupera un mazzo di chiavi e ci apre una piccola porta in legno: pazzesco, è il museo più piccolo che abbia mai visto, una sola stanzina buia e umida di non più di un metro e mezzo quadro, con alcuni antichi ed enormi manoscritti impolverati, delle vecchie corone in ottone e qualche altra reliquia come brucia incensi risalente al XIII secolo; davvero ricco di atmosfera! Il sacerdote che ci ha aperto ci spiega in un confuso inglese la storia degli oggetti qui presenti poi richiude dietro sè la piccola porta e noi torniamo verso il molo; la barca accende il rumoroso motore interrompendo l’assoluta pace di questo luogo e ripartiamo alla volta di Bahr Dar dove arriviamo dopo mezz’ora. Qui mi saluto con Destaw per la pausa pranzo, ho finalmente il mio primo assaggio solitario della vita etiope: mi siedo ad un semplice tavolino in plastica all’aperto in uno dei locali che affacciano sulla strada principale e in attesa di un piatto di maccheroni alle verdure, mi godo la vita locale che scorre; Avevo già notato ciò ad Addis Abeba ieri al mio arrivo, ed anche qui passano spesso cortei di auto e moto strombazzanti con gente che balla e canta: maggio in Ethiopia è il mese dei matrimoni, tutte le coppie si sposano entro questi 30 giorni! Cortei a parte, l’atmosfera qui è rilassata, qualcuno come a Manila si ripara dal forte sole sotto all’ombrello colorato, mentre tra i tavolini è un via vai di bambini che passano a vendere pacchetti di cicche. Dopo ben 1 ora (si, 1 ora!) arrivano i miei maccheroni, che in realtà sono poi fusilli ma poco importa, son tra l’altro fatti bene. Riecco Destaw e il suo amico autista con il mini van su cui risalgo, siamo diretti stavolta alle cascate del Nilo Azzurro; giusto il tempo di lasciarci alle spalle un improvvisato mercato ed una discarica a cielo aperto, che eccola dietro l’angolo l’Africa che ti aspetti: la strada diventa una malandata ampia pista sterrata, tra pietre, terra rossa e qualche grande pozza di fango, mucche magrissime chinate a cercare la poca erba tra la polvere e i cespugli spinosi, e poi gli alberi, baobab, alcuni dalle forme bizzarre, che sembrano vere poesie incastonati in un cielo così azzurro...e la gente, che cammina a bordo pista e spesso al centro, donne con in bilico sulla testa grandi ceste o che trasportano pesanti taniche legandosi i lacci in fronte, pastori Ahimara coperti dai loro scialli bianchi usati sulle spalle e come turbanti in testa accompagnandosi nel lento camminare da lunghi bastoni di legno mentre seguono greggi di capre, mucche o asini stracarichi a loro volta. Quasi tutto si concentra attorno ai villaggi che incontriamo lungo la strada, fatti di piccole case di paglia, legno e fango, e poi terra, terra e polvere ovunque, con i bambini che giocano a tirarsi i sassi da una parte all’altra della strada. Questa è l’Africa vera, questo continuo connubio tra uomo e natura, non vi è altro; la strada è bellissima ma allo stesso tempo tosta, arriviamo solo dopo un’ora al villaggio di Tis Isat dove alcune capanne espongono in vendita colorati tessuti tipici della zona. Da qui a piedi, con Destaw, cominciamo a risalire lungo i pendii di una collina appena dopo aver oltrepassato un vecchio e pittoresco ponte in pietra. Il sole picchia, il chè rende la salita ben più ardua di quanto sarebbe; incrociamo una ragazzina che insiste non poco nel cercare di vendere dei flauti di legno grezzo, e dopo mezz’ora di cammino eccola finalmente, ho di fronte a me sul promontorio opposto la cascata del Nilo Azzurro! Il panorama è stupendo, la terra rossa e il verde degli alberi, e le acque del Nilo Azzurro che in realtà sono di un marrone ocra, e si tuffano per una cinquantina di metri verso il basso creando la tipica nebbiolina delle cascate, per poi continuare a scorrere a valle tra le rocce fino ad arrivare a ricongiungersi con le acque del Nilo Bianco in Sudan e proseguire poi verso l’Egitto. Non hanno la stessa maestosità delle Niagara (anche per via di una diga costruita anni fa a monte) ma il paesaggio circostante è davvero selvaggio e da cartolina. Il sentiero prosegue...no cazzo, non bisognerà mica passare per forza lungo quel lungo e traballante ponte di corde e lamiera??? E invece si...e non è come quello di Banaue, questo è tre volte tanto lungo e il torrente vi scorre sotto tra le rocce a più di una sessantina di metri! Giuro guardo avanti, giuro che guardo avanti...e sudando freddo con le corde che hanno traballato tutto il tempo, arrivo non so come dall’altra parte, perfino Destaw ha avuto difficoltà! Ora sono qui sulla terra ferma tra qualche sparuta capra e un gruppetto di bambini anch’essi intenti a cercare di vendermi i loro flauti di legno. Da quest’altra parte la cascata ce l’ho proprio vicina, arrivo quasi dal basso al suo cospetto: bhè vedere nello stesso viaggio le cascate del Niagara e quelle del Nilo Azzurro non capita spesso nella vita! Ora il sentiero da qui procede in piano, tra cespugli di chat, una specie di droga locale che qui in tanti masticano in continuazione per creare un effetto energizzante, fino ad un piccolo tratto di qualche decina di metri che facciamo a bordo di una barca in legno che fa da spola fra due rive. Soddisfatto risalgo sul mini van e si riparte lungo la polverosa strada “africana” che riconduce a Bahr Dar , le cui strade, ora che siamo quasi al tramonto, si sono animate di gente e qualche mendicante; saluto Destaw e il suo amico autista, ed ora cercherò di arrangiarmi per la cena.


5 Maggio


Il Summerland Hotel è quasi deserto nella grande sala della colazione a buffet; dalla finestra alle mie spalle vedo intanto il sole che comincia ad illuminare la strada, ora attraversata da donne avvolte completamente nei loro scialli bianchi ed alcuni uomini con inquietanti fucili in spalla; un vecchio autobus aspetta gli ultimi passeggeri che alla spicciolata arrivano a bordo delle motorette Ape Cross. Ritrovo Destaw e il suo amico autista, oggi andiamo a Lalibela, l’antica culla del cristianesimo qua in Ethiopia, distante almeno 6 ore di strada. Il primo tratto è asfaltato ed in buone condizioni, percorso da rudimentali carretti in legno trainati da cavalli, e che trasportano da grosse pietre ad interi tronchi e fogliame vario. La vita dei piccoli villaggi che incontriamo strada facendo, si svolge tutta qui, lungo il ciglio della strada, distinguere e trovare un luogo dove poter prendere una bibita è a volte arduo, il segno distintivo là dove c’è è in genere un piccolo cartello con l’immagine della Coca Cola, il chè vuol dire che dietro alla porta (sempre dove esista) ci si può affacciare e chiedere da bere. Dopo un’ora deviamo lungo una breve pista sterrata fino ad arrivare al villaggio di Awra Amba: qui in una delle sue semplici abitazioni a capanna, ci accoglie il capo fondatore della comunità che qui vive, un tale Zumra Nuru, un’anziano signore di poche parole, con un buffo copricapo verde in testa, insieme a tre giovani, uno dei quali, che parla inglese, ci porta di abitazione in abitazione a vedere in cosa consiste il progetto qui attuato. Si perchè Awra Amba non è un villaggio come gli altri, ma una vera comunità che decine di anni fa ha sposato l’idea del suo fondatore, ingrandendosi poi nel corso degli anni: nessuna religione indottrinante ma solo il contatto rispettoso con la natura, il reciproco aiutarsi e la condivisione equa dei beni materiali; c’è un piccolo laboratorio tessile ancora in legno e con le macchine tutte manuali, nel quale stanno lavorando alcuni giovani ragazze e ragazzi, un ricovero dormitorio per gli anziani, la scuola, la piccola biblioteca, il museo...una sorta di figli dei fiori all’africana, o sarò capitato nella culla del socialismo reale senza saperlo? Comunque, considerato soprattutto il luogo dove siamo, questa è una gran bella cosa!

Riprendiamo il viaggio e la strada in direzione di Lalibela.

...Ho passato tre lunghe e surreali ore: il giovane autista ha investito un pastore lungo la strada. Visto l’urto ho temuto per un attimo al peggio, non mi era mai capitato, e sono susseguiti minuti concitati, confusi; il ferito, con sangue alla testa e ad una gamba, è stato caricato sul mini van,gli uomini e soprattutto le donne del villaggio, tra urla e disperazione, si sono riversati tutti attorno e dentro al mezzo, senza capire che così facendo era impossibile ripartire e portare il ferito in qualche posto dove curarlo. Attimi di panico totale, quasi da linciaggio, riesco a fatica a risalire sul mezzo pieno di gente, poi con decisione Destaw butta letteralmente fuori delle persone e rimaniamo a bordo io, lui, il giovane autista, il ferito che per fortuna è cosciente, e sette uomini del villaggio che assistono e confortano il ferito. Cerco di rendermi utile recuperando nello zaino il pacco di salviette umidificate per tamponare le ferite (con gli uomini che le toccano per la prima volta e sembra dalle loro espressioni che abbiano davanti un santone!). Lunga corsa verso qualcosa che possa somigliare ad un ospedale, dopo più di mezz’ora, in cima ad una strada quasi impossibile da percorrere se non con un fuoristrada, arriviamo ad una serie di lunghe costruzioni prefabbricate, e attendo che il ferito venga curato in questo presidio medico, senza un mezzo, una barella, nulla di nulla...Per fortuna il problema serio è circoscritto alla gamba, poteva andare molto peggio. Ma non è finita: il ferito viene ricaricato a spalla sul mini van, ci spostiamo di poco e ricomincia una lunga attesa in quello che sembra essere il cortile di una stalla, ed invece capisco ben presto essere la caserma della polizia, senza che neanche uno dei suoi addetti abbia una divisa o un distintivo (l’unico segno comune è il fucile portato a spalla, chi sulla tuta, chi su una camicia sporca). Arrivano, non so come vista la distanza che abbiamo percorso, altri uomini e donne del villaggio dove è avvenuto l’incidente, e nuove scene di disperazione teatrale. Si confabula, un paio di anziani, forse i capi villaggio, parlano con Destaw e l’autista, provato, che non ha colpe nella dinamica dell’incidente visto che il pastore gli ha improvvisamente tagliato la strada; non capisco cosa stia accadendo, Destaw si scusa con me ma non ce ne è bisogno, e attendo in disparte seduto ad osservare, intuendo che passato il pericolo, quelli del villaggio ora ci stiano un pò marciando sù. Lunga trattativa, alla fine il ferito rimarrà per la notte qui al presidio medico, mentre il giovane autista passerà invece la notte in una di queste stalle, ovvero in prigione! Non ci credo, provo a cercare di dire la mia spiegando i fatti, ma qui l’inglese non sanno neanche cosa sia; sono dispiaciuto ora più per l’autista, che prima di entrare mi saluta abbracciandomi, quasi ho il magone. Io e Destaw ripartiamo, guiderà lui, l’umore è sotto le scarpe. Ci sono ancora sul parabrezza i segni dell’impatto, Destaw mi spiega che gli uomini del villaggio chiedevano l’equivalente di 300 euro per le medicine, una cifra esagerata, e che domani deciderà una corte, probabilmente scegliendo una via di mezzo, qui funziona così. Fortuna vuole, aggiunge Destaw visibilmente provato, che nonostante la cifra sia esorbitante per il luogo, loro attraverso l’agenzia per cui lavorano la pagheranno e domani dovrebbe risolversi il tutto. E’ stata davvero un’esperienza forte, e attimi davvero concitati...

Proseguiamo in direzione Lalibela, ora ho il terrore ogni volta che vedo questa gente che, ignara del pericolo, attraversa tranquillamente la strada senza guardare. Destaw non ha nè la macchina nè la patente...a parte ad Addis Abeba qui nessuno ce l’ha, è quasi normale, ma ha già guidato altre volte con amici e mi rassicura...Ad un certo punto incrociamo un’interminabile processione di persone, tantissime, alcuni con i muli stracarichi, altri che portano capre e polli: sono di rientro dal mercato di qualche mercato vicino. Destaw guida piano, è prudente, ora la strada, contornata da grandi cespugli di agave, comincia a salire e il panorama tra le montagne marroni e verdi diventa spettacolare soprattutto quando la vista spazia su grandi canyon. Qualche capanna di paglia coi bambini che, sul ciglio della pista che ora è sterrata e polverosa, improvvisano balletti di saluto al nostro passaggio. Ormai ci siamo, l’ultimo tratto torna asfaltato, poi ancora sterrato, ed infine eccola Lalibela, che mi accoglie con una processione di un matrimonio,  qui non ci sono auto strombazzanti ma asini e gente che canta. Subito mi conquista questo paese di montagna a 2600 metri di altezza, per la sua atmosfera che sicuramente mi godrò meglio domani. Arriviamo all’Alif Paradise, un hotel decisamente meno informale di quello di Bahr Dar, più da campagna, e sistemo gli zaini nella ampia camera a due letti (e finalmente materassi e cuscini duri!),  con un bagno e un terrazzino dal quale mi godo il mio primo tramonto qua tra le montagne, dopo una giornata decisamente intensa.


6 Maggio


Svegliarmi al mattino con il suono del canto degli uccellini e dei galli è una delle cose che più adoro. C’è già gente in giro per le polverose strade in terra battuta di Lalibela: anziane ma anche giovani donne ricurve in avanti dal peso dei fasci di legna che portano sulla schiena, e bambini e ragazzini diretti a scuola. A piedi oggi visiterò alcune delle chiese rupestri di Lalibela, insieme a Destaw che incontro qui alla guesthouse. Nonostante gli orribili ponteggi che sorreggono i tetti finanziati dall’Unesco per proteggerle dagli agenti atmosferici, queste costruzioni risalenti a più di mille anni fa, sono stupefacenti: comunicano tra di loro attraverso stretti passaggi, ma la cosa più impressionante è che sono scavate interamente nella roccia, alcune completamente staccate da essa in tutti i quattro lati del perimetro; c’è qualche turista a passeggio nel complesso che raggruppa le prime 5 chiese. Entro in ognuna di esse, attraverso modesti passaggi e lasciando fuori ogni volta le scarpe: al loro interno il tempo sembra essersi fermato, cammino sulle stuoie o i tappeti poggiati per terra sulla base di roccia madre, nessuna luce artificiale, sono molto buie ed in alcune ci son seduti dei sacerdoti ortodossi, avvolti sia in testa che in corpo, nei loro mantelli di leggera stoffa bianca ed appoggiati su alti bastoni in legno usati per sorreggersi e riposare. Roccia basaltica, legno, alcuni affreschi su tela che riproducono la vita del Cristo e le fasi della Bibbia, e poi croci, tante, da quella cristiana a quella greca, da quella ortodossa a quella di Lalibela, sotto forma di dipinti o di rilievi ma anche come forma delle fessure scavate nelle pareti che fungono da finestre dalle quali entra la luce esterna. Ogni chiesa ha una sua peculiarità dovuta alla funzione originaria, al periodo di costruzione, Destaw mi descrive le simbologie di ognuna di esse, interessante, anche se la mia attenzione va soprattutto all’ingegnosità di queste opere: scavare nella roccia spesso dall’alto verso il basso per fare emergere una tale opera è impossibile anche al giorno d’oggi, eppure mille anni fa la maestria dell’uomo è arrivata a concepire e realizzare simili meraviglie! La mattinata passa in fretta, saluto Destaw, e mi incammino a cercare un posto dove poter mangiare: lo trovo sulla terrazza di un semplice e deserto ristorante riconoscibile come tale solo dai tavolini con sedie lasciati fuori e da una insegna ormai sbiadita dal tempo. Non c’è rumore qui a Lalibela, in questo paese fra le montagne: poche strade tutte sterrate, nessuna auto nè moto, vedo passare solo di rado qualche Land Rover che alza dietro di sè nuvole di polvere; si sente nettamente a distanza il battito del martellare di alcuni operai o presunti tali visto che nessuno di essi ha segni distintivi o divise,intenti a costruire una casa su pontili fatti in legno. Intanto i ragazzi stanno uscendo da scuola, li vedo passare a piccoli gruppi, con camici uguali tra loro solo nel colore (bordeaux i più grandi, azzurri i più piccoli), ma dalle forme e tonalità diverse gli uni dagli altri, e con un paio di malandati quaderni in mano. Il cielo si sta coprendo, intuisco ormai che il tempo medio del servizio a tavola qui va dai 45 minuti in su, pur essendo l’unico cliente! Una volta consumata la mia pizza, ritrovo Destaw in compagnia di un suo amico che ci da un passaggio in van fino al centro di Lalibela, in pratica due minuti di strada: devo fare delle commissioni fra cui banca e uffici della Ethiopian Airlines  per prendere il biglietto aereo che mi servirà più avanti per raggiungere Dire Dawa. In banca va buca, la carta di credito non la riconoscono e tantomeno il bancomat, per fortuna Graziana  mi da un grosso aiuto dall’Italia interagendo con la mia filiale. Co Destaw da qui mi incammino tra alcuni operai che stanno lavorando pare per asfaltare un tratto di strada con pale e picconi, fino ad arrivare al gruppo di chiese sud orientale; in alcune di esse il buio interno è talmente fitto che richiede l’utilizzo di una torcia per ammirarne i particolari. Buio non fitto però quanto quello all’interno del lungo tunnel scavato nella roccia che collega la chiesa di Bet Merkorios a quella di Bet Amannel. Destaw mi consiglia di provare a percorrerlo come è usanza da queste parti ovvero senza l’ausilio di alcuna luce, e così decido di fare: è una sensazione stranissima, mai provata prima, con una mano mi appoggio alla roccia da un lato e cammino a piccoli passi; nonostante lo stretto tunnel sia dritto, ho improvvise sensazioni si scalini che in realtà non esistono o di soffitto che si abbassa, è istintivo e irrazionale...L’ultima di questo gruppo, la Bet Abba Libanos, è la chiesa più bella: scavata tutto attorno nei quattro lati nalla roccia alla quale è unita solo nelle fondamenta e nella parte superiore, ricorda Petra in Giordania. C’è un sacerdote, vestito di bianco, seduto sui quattro scalini della porta di accesso in legno, e un falco appollaiato in una delle fessure a forma di croce che fungono da finestre superiori. Attorno, nella parte scavata nella roccia, tappeti e stuoie in quella che un tempo fu l’area dedicata ai canti religiosi accompagnati dai grandi tamburi in pelle, alcuni dei quali sono ancora adagiati qui. Per oggi basta chiese, la Bet Giyorgis, l’emblema di Lalibela, me la godrò da sola domani, così mi saluto con Destaw e me ne torno verso l’hotel. Sono fortunato, perchè è proprio l’ora di uscita dalla scuola del pomeriggio, c’è un fiume di bambini che viene verso di me: “Hello, hello” “Welcome to Lalibela Sir”, alcuni di loro si fermano domandandomi di scrivere il mio nome e il mio indirizzo email sui loro consumatissimi quaderni! Mi piace, dopo un pò però, a fatica devo fargli capire che devo andare, sennò non ne esco più, sono davvero tanti. Viene la sera, c’è un leggero vento e a Lalibela è mancata l’elettricità, fuori è tutto completamente buio , per fortuna ho con me la piccola torcia a dinamo, provvidenziale, così in una versione un pò romantico - moderna, riesco ad illuminare il piatto della mia prima abbondante porzione di injera, il piatto nazionale (una grande e morbida sfoglia simile ad una piadina sottile sulla quale viene servito il cibo, in questo caso uno spezzatino di carne), mangiato al buio e con le mani come si usa qui, mentre a fianco a me un uomo mangia la sua zuppa illuminandola col display illuminato del proprio telefonino...si decisamente romanticismo post moderno.


7 Maggio


42 chilometri di strada dissestata in poco più di 1 ora e mezza: in Ethiopia la proporzione tra distanza e tempi di percorrenza non è mai una scienza esatta. Però il panorama tra queste ampie montagne dai profili morbidi è sempre uno spettacolo. Sono arrivato in un piccolo villaggio senza un nome, da qui con una breve salita a piedi arrivo accompagnato da Destaw alla Yermehanna Kristos, un’ antica chiesa di epoca tardo axumita che a differenza di quelle visitate ieri a Lalibela, non è scavata nella roccia ma costruita all’interno di una ampia e stretta grotta. E’ piccola, dentro completamente buia mentre attorno ampi tappeti fatti con legno di bambù e nella parte posteriore, accanto alle pareti della grotta, un piccolo gruppo di tombe ricoperte da pesanti tappeti e drappi rossi, ma soprattutto, accatastati e visibili solo illuminandoli dalla torcia, ammassi di ossa e corpi mummificati, appartenenti ai pellegrini che in questo luogo a loro sacro, venivano a morire. Sto visitando più chiese in questo viaggio che non in vita mia, però queste sono davvero particolari, suggestive, dell’aspetto tipico della chiesa hanno ben poco. Torno a Lalibela, lungo la strada percorsa con un mini van c’è solo qualche pastore col suo asino. Mi manca ormai da vedere solo l’ultima chiesa, la più famosa e immortalata d’Ethiopia tanto da esserne diventata il simbolo per eccellenza: Bet Giyorgis. Arrivo a piedi con Destaw nello stretto passaggio scavato nel terreno dove l’antica e piccola porta in legno è ancora chiusa con un lucchetto; poco dopo ecco arrivare il sacerdote vestito di bianco che la apre: una volta dentro al piccolo cortile che mi si apre davanti, eccola la famosa chiesa a forma di croce, priva di qualsiasi antiestetico ponteggio conservativo perchè già all’epoca costruita in modo tale da essere leggermente inclinata per fare scorrere l’acqua verso il terreno; alta 15 metri, è divisa in tre livelli e rappresenta l’arca di Noè. Dentro non è nulla di chè, molto piccola, di interessante giusto un antico (di 800 anni) scrigno in legno d’olivo e un dipinto appoggiato in terra e raffigurante San Giorgio che trafigge il drago. Ma il meglio di sè questo luogo lo da visto dall’alto, o meglio dal livello del terreno essendo questa chiesa a croce costruita completamente in profondità nel terreno stesso, un’opera di un’ingegnosità unica al mondo. Eccomi ad ammirarla dall’alto, da solo, in quella che è una delle immagini più famose di tutta l’Africa, luogo di culto principe del cristianesimo africano. Arriva un piccolo gruppo di turisti giapponesi, che qui, almeno qui, proprio non mi aspettavo, e la magia svanisce. E con questo, prima che mi meriti un posto in paradiso, basta chiese! Mi congedo con Destaw, lui è stato sempre puntuale, gentile e paziente, ma ormai sono un pò insofferente a quella che comunque è una guida seppure soft, utilissimo come primo appoggio per “testare il terreno” qui in Ethiopia, e fondamentale nella gestione dell’incidente di due giorni fa, ma d’ora in avanti come la mia natura di viaggiatore vuole, proseguirò il viaggio qui in Africa in totale autonomia. Comincio a farlo da subito, qa qui a Lalibela, passeggiando a bordo strada, sulla terra polverosa, fino a quello che è il centro del paese: due banche, un paio di semplici tè house con i tradizionali bicchierini di tè posati su di un vassoio ad altezza del terreno e l’onnipresente ciotola dove brucia l’incenso in pietra, e una serie di piccole baracche in lamiera rossa, una a fianco all’altra. Sono l’unico bianco che gira qua fino a quando incrocio una coppia di viaggiatori probabilmente tedeschi; in giro tanta gente, inevitabilmente attiro l’attenzione , soprattutto di bambini e adolescenti, che, chi più e chi meno insistentemente, provano ad adescarmi per farmi da guida o per chiedere qualche Birr: “Hello Sir, how are you? Where are you from? Ah, Italia, capitale Roma, buongiorno, buonasera!”. Sembra ormai un mantra insegnato a scuola e perfettamente recitato dai bambini, ma con l’esperienza e un pò di umana gentilezza conosco come difendermi anche se con alcuni è una bella fatica. Mi sento però immerso nel luogo in cui sono, e questo è ciò che conta e paradossalmente sentendomi a mio agio, mi sento anche più al sicuro! Strana natura quella del viaggiatore. Le abitazioni sono semplici e piccole baracche, quando va bene con pannelli semi arrugginiti di lamiera come tetto; alcune fungono da negozi, vendono vestiti, o contenitori in plastica con bottiglie riciclate comprese, pentolame, scarpe buttate per terra alla rinfusa su grandi teli, dai sandali in gomma usati da noi negli anni ’70 ad altre scarpe spaiate e già belle vissute; trovare in questi ammassi la coppia è un’impresa, ora capisco il perchè di più di una persona già vista con scarpa destra diversa dalla sinistra. Ci sono un paio di anziani che per la strada cuciono stoffe con vecchie macchine da cucire Singer, veri pezzi di antiquariato. E’ tutto un altro mondo qui in Africa! A completare il quadro c’è il passaggio di qualche pastore con le proprie capre, gli asini e solo di rado qualche Land Rover, e allora bisogna mettersi sul ciglio in disparte, perchè qui il marciapiede non esiste, e prepararsi a respirare un bel pò di polvere. Si, la polvere: oltre ai cieli infiniti e azzurri, un’altra cosa che ti lascia dentro l’Africa sono gli odori; non avrei mai pensato che la polvere potesse avere un odore così intenso, qui ti entra dentro, ti rimane addosso, lo senti!  A lato strada noto qualche vecchio e mal ridotto calcio balilla, con gruppetti di giovani attorno che vi giocano per passare il tempo: chiedo loro di poterli fotografare, e a loro volta mi invitano a giocare ed io non dico certo di no. Ecco, ora che sono “libero” mi sento di nuovo di “vivere” il viaggio come più preferisco, sentendomi parte di esso!


8 Maggio


Oggi dal nord mi trasferisco ad est. Sono a bordo del piccolo minibus che fa da navetta verso l’aeroporto di Lalibela, guidato da un anziano col cappello che assomiglia a John Freeman in pensione! La strada corre lungo il nulla assoluto, tra terra, montagne, sassi e le macchie verde degli alberi in lontananza. Eccolo il piccolo aeroporto, dove prima di entrare un gendarme sale a bordo per controllare uno ad uno i passaporti mio e degli altri quattro stranieri; il terminal è davvero minuscolo, cinque negozi di souvenirs e il banco del check - in, senza neanche un monitor per le partenze e gli arrivi, il controllo in compenso è fin troppo meticoloso Attendo all’unica sala del gate insieme a qualche decina di passeggieri, quando un addetto dell’Ethiopian Airlines ci annuncia a voce che il volo diretto ad Addis Abeba è in ritardo e partirà per le 14.30 anzichè le 10.30: non ci voleva, così perdo la coincidenza per Dire Dawa, dove son diretto per poi proseguire verso Harar. L’addetto mi comunica che c’è un altro volo tra Addis e Dire Dawa alle 16, quindi avrei un margine di 30 minuti nei quali però dovrò prima ritirare il bagaglio imbarcato e poi rifare il check-in per il volo successivo, assurdo e non ce la farò mai...Non mi resta che attendere seduto a scrivere, sui seggiolini del piccolo hangar dal quale non parte nessun altro volo, la pista infatti è completamente deserta; c’è chi legge, chi vaga tra i 5 negozi, ed una turista cinese intenta ad avvolgere in un rotolo di carta igienica una statuetta di legno appena acquistata. Mi studio le possibili soluzioni in caso di perdita della coincidenza; noto che la ragazza che ora sta preparando la cerimonia del caffè col metodo tradizionale  facendolo scaldare su di una ciotola di carbone ardente, è la stessa che poco fa faceva i controlli all’entrata! Ancora non so in quale parte di Ethiopia passerò questa notte...sono le 14.20 quando nella vuota pista finalmente atterra il piccolo ma moderno bielica proveniente da Addis Abeba, lo stesso che ora, fatti scendere i passeggeri, ripartirà alla volta della capitale. Si decolla!

Una cosa che proprio non sopporto è essere al pelo con gli orari, stavolta mi tocca fare una corsa per rifare al volo il check-in, per fortuna una giovane addetta della compagnia che incrocio appena sceso dal primo volo, impietosita, me lo fa fare prima di ritirare il bagaglio così recupero minuti visto che ne mancano solo dieci alla partenza! Incredibile, ho troppo poco tempo così recupero lo zaino grande e...passo di corsa all’imbarco con quello, dicendo che sto perdendo il volo agli addetti della sicurezza che stupiti mi fanno passare; tutto di corsa e con zaino grande e zaino piccolo appresso arrivo al gate di imbarco e...i passeggeri del volo sono ancora tutti seduti in attesa del volo diretto a Gibuti con scalo a Dire Dawa: la partenza è ritardata di 30 minuti, anzi no, di 45, poi di 60...poi di 75, non ci credo! Il tempo passa e stavolta senza che nessuno fornisca alcuna spiegazione visto che il piccolo boing è già sulla pista, questa sta diventando una giornata di sole lunghe attese! Finalmente con un’ora e mezza di ritardo imbarchiamo e una volta su e con le cinture già allacciate, passa un’altra inspiegabile mezz’ora di attesa, sto diventando impaziente ma non è ancora finita temo..si parte, finalmente! Dopo poco più di un’ora di volo atterro a Dire Dawa quando ormai si è fatta sera e fuori è buio (e pensare che in base al mio piano dovevo già essere ad Harar a quest’ora!): il mezzo che porta la scaletta di attracco non riesce a fare manovra ed a porla in corrispondenza del portellone di uscita dell’aereo; altri 20 minuti tragicomici mentre siamo già in piedi al portellone aperto ad aspettare i diversi tentativi di manovra: il mio giudizio sulla Ethiopian Airlines oggi passa da ottimo a pessimo, oltre 7 ore di ritardo accumulato più tutte le attese ai gate in soli due voli di un’ora ciascuno è da guinness!  Ormai non faccio più a tempo a cercare un mezzo che mi porti ad Harar, lo farò domani mattina e mi fermo qua a Dire Dawa per la notte; mi faccio portare in taxi al Ras Hotel, indicato dalla Lonely Planet, ma qui scopro che i prezzi indicati sulla guida sono nel frattempo più che quadruplicati, ed infatti lo si nota già dalla sfarzosa hall più da signori che non da backpaker! I gentili ragazzi della hall mi indicano un’altro hotel, lo Tsehay; stavolta prendo uno dei piccoli tuk tuk locali di colore azzurro che per soli 5 birr mi porta a destinazione: orribili bagni in comune, una stanza senza infamia nè lode disposta però a lato di una corte che ospita i tavoli di un ristorante/locale all’aperto tra siepi e musica ad alto volume! Stanotte niente uccellini, niente galli e niente cicale...per ora solo la palla di un biliardo che da sopra cade in continuazione sul soffitto della stanza...


9 Maggio


Non so se ho fatto una colazione più nutriente io qua all’ombra di una pianta di bambù nel giardino dello Tsheay Hotel, oppure le zanzare che mi hanno letteralmente dissanguato la gamba sinistra. Lascio le chiavi alla reception dove sul banco sono in vendita e in bella vista confezioni di preservativi (ho capito che tipo di hotel era...) e in tuk tuk mi faccio portare alla stazione degli autobus: in realtà in questo ampio e affollato spiazzo polveroso, ci sono solo furgoncini, qualche capra, nessun cartello o indicazione e tanta, tanta confusione con uomini che cercano di farti salire sui loro mini van! Scelgo il primo che mi capita a tiro, salgo e a amano a mano si riempie fino all’inverosimile; l’autista sembra partire, poi torna indietro, scende, fa salire altra gente. Alla fine quando sono passate da poco le 8 partiamo, tra i passeggeri c’è una donna con una neonata in braccio seduta proprio a fianco a me; la strada è asfaltata, il panorama sembra più verde rispetto al nord e i pastori che incrociamo sono più attenti. Ci fermiamo per caricare una donna e il suo carico di legna che viene sistemato sul tettuccio del mezzo; si riparte, a bordo fa molto caldo, siamo stipati. Poco prima delle 9.30 ecco Harar, sono arrivato! Dalla grande e ancora più caotica stazione degli autobus mi incammino ignorando le prediche di uomini che vogliono darmi passaggi o suggerirmi hotel e arrivo al Belayneh Hotel, il più vicino, che sia da fuori che da dentro assomiglia un pò ad un decadente condominio di case popolari: una scrivania e una bacheca porta chiavi come reception, dove una ragazza appena svegliata dal mio arrivo, mi dice che non ci sono singole disponibili, così opto per una stanza doppia con letto matrimoniale, una piccola tv posta su un cassetto proprio a fianco al cuscino, due prese della corrente staccate dal muro e coi fili penzolanti in bella vista, ed un piccolo e malandato bagno...senza acqua! In compenso, dal piccolo balcone posso vedere dall’alto il mercato di Asmà Addin Bari, un ammasso di baracche dove è in vendita di tutto, dalle verdure ai vestiti, e dove il brulicare della gente è continuo. La strada a lato è un via vai di vecchi tuk tuk azzurri e qualche Peugout anni ’50, sempre di colore azzurro; non mancano le capre, tante, e qualche asino che come la gente del posto, attraversa a casaccio. Visto dall’alto è un puzzle di colori, con donne avvolte nei loro lunghi veli colorati che le coprono anche la testa, sono infatti nella regione Harari, l’unica regione etiope a maggioranza islamica. Scendo e mi immergo subito in questo fiume di persone, all’inizio un pò timoroso, quasi ancora a prenderne le misure; alcune donne camminano spedite portando in perfetto equilibrio sul capo grandi ceste cariche di banane, mentre altre vendono ortaggi sedute per terra ai bordi della strada. Entro nella città vecchia, fortificata da antiche mura risalenti al XVI secolo, attraverso una delle sue porte di accesso, la Shoa Gate, e qui la musica improvvisamente cambia: mi ritrovo in un labirinto di vicoli, a volte strettissimi, con basse case di argilla verniciate in bianco o in vivaci colori pastello, e molta meno gente anche se, districarsi in alcuni tratti dai bambini che cercano di spillarmi qualche birr non è semplice. Questi vicoli non hanno un nome, c’è un’unica strada transitabile dai veicoli a motore all’interno delle mura, non mi rimane quindi che perdermi cercando gli angoli più fotogenici, impresa affatto difficile. Fa caldo, qui sembra davvero un museo del tempo a cielo aperto, me l’aspettavo più turistica, invece sono l’unico “faranji” (straniero) così come mi sento chiamare in continuazione dai bambini che incrocio: nessun negozio per turisti, questa è Africa vera, alcune donne anche qui, e perfino delle bambine, sedute per terra vendono pomodori, cipolle, noccioline o banane; in uno dei vicoli acciottolati ci sono invece dei sarti intenti a cucire con le loro vecchie macchine Singer. 368 vicoli concentrati in un unico chilometro quadrato come cita la Lonely Planet. Mi ritrovo all’estremità dell’unica strada accanto alla moschea di Jamia, di colore verde, dove una lunga fila di mendicanti accampati per terra, uomini, donne con bambini ed anziani, alcuni invalidi, attendono che qualcuno dia loro un’elemosina; Poco distante da qui, mentre chiedo alcune informazioni, mi viene indicato un ragazzo che parla l’inglese ed al quale chiedo come poter entrare in contatto con le iene...si Harar è l’unico luogo al mondo dove si tramanda da oltre 50 anni una singolare tradizione, ovvero il pasto dato dalle mani di alcuni uomini del villaggio a branchi di iene che vivono selvagge fuori dalle mura, nella giungla che circonda la città, e che allo scendere della sera si avvicinano alla stessa in cerca di cibo. Prendo accordi per l’indomani, nel frattempo mi convince a cambiare sistemazione per le prossime due notti, mostrandomi una vera abitazione Harari i cui proprietari hanno una camera in più da affittare: è bellissima, nascosta dalle mura dei vicoli, ha pure l’acqua, e me ne innamoro da subito. Continuo nel mio vagare, come è diverso qui da Lalibela, non c’è l’atmosfera da paese di montagna, c’è più caos ma anche più colore e la stessa autenticità di un luogo non contaminato, ancora puro, gli unici segni dell’occidente sono le scritte o i murales della Coca Cola presenti un pò ovunque, per il resto si respira Africa vera, che mi affascina e allo stesso tempo, forse complice anche la stanchezza che sto accumulando nel viaggio, mi inquieta un pò. Esco dalle mura della città vecchia, fuori è un mercato unico a cielo aperto, passo accanto a quello denominato “dei contrabbandieri” dove infatti in vendita di tipico non c’è nulla ma solo scarpe e vestiti made in Thailand o China, qualcuno vende calze, qualcun’altro auricolari per telefoni cellulari aggrovigliati l’un l’altro in modo tale da riportarmi alla mente i cavi elettrici di Manila.  Mi fermo a mangiare un pò distante dal centro, nel cortile di quello che è qui l’unico ristorante con canoni un pò occidentali, un forno per le pizze che però il cameriere mi dice non essere disponibili perchè da ieri sono senza sia pane che farina. Il cielo si è completamente annuvolato nel frattempo. Sento che sono stanco, decido di rallentare un pò, l’Africa non è semplice da girare da soli e un viaggio come questo richiede anche i suoi momenti di pausa, utili per riflettere ed assimilare le tante emozioni vissute in questi ultimi 33 giorni a spasso per il mondo. Mi ritrovo a passere del tempo in camera, a leggere e guardare dall’alto il caos di gente e colori che scorre poco sotto: tanta povertà e miseria anche qui, una distesa di pannelli di lamiera mezza arrugginita che funge da tetto per la baraccopoli sottostante, e sulla quale, tra grandi e vecchie parabole, passeggiano i gatti. Verso sera la gente aumenta così come il traffico dei tuk tuk azzurri, e finalmente torna la corrente che mancava fino ad ora, ma di acqua ancora nessuna traccia. Si fa buio già alle 18, così decido per questa sera di cenare senza uscire, salendo al ristorante del piano di sopra dell’hotel: quasi inutile scriverlo, sono anche qui l’unico straniero ed unico cliente, in questo grande attico coperto dal tetto di lamiera e con grandi e sporche finestre. La cena però è una signora cena! Torno in camera soddisfatto, ad aspettarmi sul soffitto ci sono almeno 7 zanzare, non mi resta che scrivere col sottofondo dei programmi della piccola tv, illuminato da una luce fioca che sembra quasi di essere in un night club: lo scolapasta rosso usato come paraluce attorno alla lampadina appesa al soffitto fa questo strano effetto!


10 Maggio


Lascio la mal ridotta stanza del Belayneh Hotel per trasferirmi le prossime due notti ospite presso una vera casa Harari nel cuore della città vecchia; nascosta nel labirinto di vicoli dietro ad una anonima porta di ferro, si apre un piccolo cortile e la casa, disposta su due piani, il tetto piatto come tutte e le antiche mura esterne verniciate in calce azzurra; all’esterno c’è una grande cisterna dove è raccolta la riserva di acqua, e di fronte la grande sala con tappeti per terra e le mura interne decorate con piatti di porcellana in varie dimensioni e le tipiche ceste Harari. L’anziana proprietaria, velo in testa, non parla inglese ma mi indica la camera sita al piano superiore al quale si accede da una scala esterna: qui un salottino con due poltrone e una tv, e una di fronte all’altra, due piccole camere dal soffitto basso con solo il letto matrimoniale e nessuna mobilia. Scelgo quella più piccola, con i cuscini e il copriletto color rosa e coi merletti, per terra una consumata moquette verde e le pareti di calce bianca anche qui decorate con qualche oggetto Harari e un paio di mazzi di rose finte; il soffitto non supera il metro e ottanta, sembra la casa di un Hobbit, deliziosa, con le spesse mura di argilla che la rendono anche fresca. Il tempo di posare gli zaini e sono già fuori a camminare per i vicoli acciottolati: Fasil, questo il nome del ragazzo dall’andatura molleggiata che ho incontrato ieri per caso, mi aiuta a districarmi in questo labirinto senza punti di riferimento; i muri che nascondono le basse e squadrate case Harari, hanno colori in calce talmente intensi da fare risaltare ancora di più i colorati veli in cui sono avvolte le donne del luogo. In questo concentrato dove la storia la respiri, ci son ben 82 moschee (in un solo chilometro quadrato!), a parte quella principale lungo la strada asfaltata, le altre sono piccolissime e riconoscibili solo dalla mezzaluna posta sul cancelletto. “Faranji, faranji, foto!”i bambini di ogni età, divertiti, recitano questa cantilena ogni qual volta li incrocio. Girare qui ha il suo fascino, mi perdo, ammiro le sfumature, i colori, e mi ritrovo sempre in qualche piccolo mercato a cielo aperto, con le donne sedute per terra a vendere piccole quantità di pomodori, aglio, cipolle e soprattutto chat, la droga locale; qua tutti ne fanno largo uso, d’altronde questa pianta dagli effetti pare energetici, è endemica del luogo, e cresce in grandi quantità lungo le pendici delle montagne intorno ad Harar, dove viene raccolta fresca ogni mattina e venduta in grandi quantità. I mercati sono un’esperienza unica, come quello Oromo, fra capre e donne che arrivano dalle vicine montagne a vendere i fasci di legna che portano sulle spalle o in testa, o quello appena fuori alla Shoa Gate, un dedalo stretto e buio di vicoli fra banchi di legno coperti da teli di plastica e dove si vendono incensi e spezie. Alcuni dei banchi sono gestito perfino da bambini; qui si vende anche il latte di cammella in taniche di plastica gialla che somigliano a quelle della benzina. Colori, odori, gente, animali, mosche...gli ingredienti di questo piccolo ed unico ombelico del mondo. Poi all’improvviso mi ritrovo in un vicolo deserto, come il pac man che non trova più le palline da mangiare! C’è il sole, e tra il cielo azzurro, i colori delle mura e dei veli delle donne, i sorrisi dei bambini...la mia Canon è chiamata agli straordinari! Per trovare negozi o botteghe che vendano oggetti tipici bisogna bussare alle porte di alcune case, così solo grazie all’aiuto di Fasil ne scovo un paio, colme di oggetti in legno, ceste in foglie di banano e tanti monili di argento ed ambra. Tra questi vicoli c’è anche la casa dove visse gli ultimi anni della sua vita il poeta francese Rimbaud: l’ingresso costa 20 birr, il custode, solo ed annoiato, sembra quasi meravigliato nel vedere qualcuno, tanto che mi chiede di tornare all’uscita a dirgli le mie impressioni; la casa è molto diversa da quelle Harari, è fatta in legno ed ha il tetto a spiovere; le scale, sempre in legno, sembrano impolverate, e portano ad una piccola biblioteca e ad una sala dove sono esposte su pannelli vecchie fotografie d’epoca in bianco e nero realizzate dallo stesso Rimbaud;da alcune foto Harar sembra cambiata davvero poco da allora, eccezion fatta per i tuk tuk e qualche parabolica sui tetti in lamiera delle baracche, qui il tempo sembra infatti essersi fermato.

Subito dopo un veloce pranzo in un locale tra polvere e mosche, Fasil mi invita a casa sua per la cerimonia del tè (nonostante qui sia il caffè a farla da padrona, pare essere uno dei migliori al mondo) e per provare il chat! Anche casa di Fasil è una tipica casa Harari, nascosta dalle mura, e con le pareti interne in calce nelle quali sono scavate delle nicchie usate come mensole: sul divano in pietra naturale ricoperto da tappeti e cuscini, senza scarpe, mi accomodo in questa stanza buia senza finestre e col fumo intenso dell’incenso in pietra che intanto brucia davanti alla porta dentro ad una piccola ciotola; oltre a Fasil ci sono anche tre suoi fratelli, due sorelle e una nipotina. Poi arriva l’anziano padre, un uomo molto magro che scambia con me due parole in italiano e poi si ritira a sdraiarsi in disparte; assaggio le foglie di chat, da masticare come una cicca dal sapore leggermente aspro; i fratelli ne masticano in continuazione sorseggiando dell’acqua. Intanto mentre loro masticano e sputano, io sorseggio un buon tè caldo versato in un bicchierino di vetro e preparato da una delle sorelle, con un bollitore in ghisa messo a scaldare su di una brace ardente. Passo il tempo qui in loro compagnia, nella stanza ormai il fumo dell’incenso è ovunque, la nipotina di pochi anni intanto indifferente guarda la piccola tv seduta sulle gambe di uno dei fratelli di Fasil, dai capelli rasta raccolti sotto ad un cappellino dai colori jamaicani. Provata anche la cerimonia del chat (che qui è usanza ripetere tre volte al giorno), torno nella mia stanza della casa Harari presso cui sono ospite, a concedermi una doccia risanatrice vista la carenza d’acqua degli ultimi tre giorni: devo prepararmi, fra qualche ora ho un importante appuntamento...con un branco di iene!

Sono da poco passate le 19, è buio e la luna è appena velata dietro a qualche nube: mi trovo in uno spiazzo sterrato qualche centinaio di metri a nord della porta di Fallana, fuori dalle mura della città vecchia e di fronte alla giungla. Alle mie spalle c’è qualche piccola casa e si sentono dei bambini cantare, ma oltre al loro vociare e al canto di qualche grillo, regna il più assoluto silenzio, un silenzio inquietante; le uniche luci sono quelle dei fari di un fuoristrada che illumina appositamente la zona davanti a me; nella penombra passa qualche donna col proprio carico trasportato in testa, e la cui sagoma svanisce nel buio della giungla. E’ un clima di attesa, eletrizzante: tutte le notti le iene che vivono nei dintorni, si avvicinano alla città e vengono nutrite da alcuni uomini, una tradizione unica al mondo che non vedo l’ora di vivere. Un ragazzino attende con una cesta piena di carne di cammello tagliata a strisce sottili, mentre un uomo in ginocchio su di una piccola stuoia grida chiamando per nome le iene come segnale di riconoscimento per le stesse...la cena è pronta! Oltre a me c’è qualche straniero, forse nord europeo. All’improvviso l’attesa viene interrotta e spuntano dal buio in lontananza due iene, una femmina col proprio cucciolo: avanzano piano illuminate dal fascio di luce dei fari, quasi intimidite, mentre il ragazzino getta verso di loro alcuni pezzi di carne; eccole, si avvicinano, la femmina prende coraggio e va verso l’uomo inginocchiato con la cesta anch’essa colma di carne: è bellissima nel suo mantello maculato, massiccia, più grande di un grosso cane e con una mandibola impressionante. Non sono minimamente intimorito, tutt’altro, la situazione mi eccita: mi avvicino all’uomo lentamente, lui mi indica di prendere uno dei bastoncini di legno che ha con se, non più lunghi ciascuno di 10 cm, con la mano sinistra; lui ci appoggia sopra una striscia di carne penzolante e mi invita a porgerla verso la iena, che è qui, che si aggira a pochi centimetri con circospezione. E’ un attimo, allungo il braccio e la iena addenta la carne e si allontana di qualche passo per mangiarla. Ripeto il gesto, poi il giovane uomo , molto sicuro di sè, mi invita a porgere questa volta il bastoncino tenendolo per un’estremità nella bocca, e la scena si ripete, la iena si avvicina e quasi viso a viso strappa via la carne, semplicemente emozionante! Nel frattempo dal buio si sono avvicinate altre iene, saranno 5 o 6 e si aggirano quasi timorose: si avvicinano una alla volta all’uomo con la cesta, come se rispettassero tra loro un ordine gerarchico, mentre i più piccoli, più timorosi, rimangono in disparte e ci pensa il ragazzino a lanciare verso loro alcuni pezzi di carne dalla sua cesta. Finita la carne l’uomo si alza, urla qualcosa, le iene sembrano capire, fanno qualche passo indietro e poi spariscono nel buio della notte, nella giungla, lontano dai fari e dagli uomini. Lo spettacolo per questa notte è terminato. Un’emozione unica, sono qui ancora incredulo in compagnia di Fsil a cui ho affidato la mia macchina fotografica per immortalare il momento; il pasto delle iene era nel mio progetto uno dei momenti culmine del viaggio, l’ultimo grande appuntamento, e sono felice ed orgoglioso di essere arrivato fin qui a realizzare questo sogno. Domani ho voglia di ripetere e rivivere questa emozione! Con un tuk tuk torno insieme a Fasil all’interno delle mura della città vecchia per cenare in un locale per nulla turistico: poca luce, sedie e tavoli in plastica, senza un pavimento e con le mura in calce, ed un uomo che cuoce a vista le fatirà, delle frittate locali di uova mista a carne, su di una grande padella di metallo, degna conclusione di una lunga ed emozionante giornata africana.


11 Maggio


“Faranjio, faranjo”, ad ogni angolo di vicolo una bambina o un bambino mi chiama; con alcuni di essi ci divertiamo a giocare a fare fotografie e a rivederle nello schermo della macchina fotografica. Uno di loro, appena messo piede fuori dal cancello della casa Harari, è letteralmente impazzito di gioia nel vedermi, avrà avuto forse 3 anni, insieme al fratellino poco più grande, non smetteva più di ridere ed entusiasmarsi, i bambini quando sono così genuini trasmettono sempre un calore umano spontaneo ed unico. Non ho granchè da fare oggi, così vago alla ricerca di spunti fotografici, che qui tra i vicoli sconnessi e acciottolati certo non mancano. E’ domenica, in giro noto meno gente anche lungo l’unica via asfaltata e transitabile ai mezzi a motore. Harar, un pò come tutti i luoghi dove la povertà è di casa, ha anche i suoi lati negativi, non è infatti così raro imbattersi camminando tra gente che fa l’elemosina anche in corpi immobili e ricoperti di stracci: dal numero di mosche che gravitano attorno ad alcuni di essi è facile pensare che non siano più in vita. Il ciclo della vita, che qui è all’ordine del giorno e nessuno ci fa troppo caso. Un altro aspetto negativo è l’immondizia, non tanto negli stretti vicoli quanto appena fuori, con stralci di sacchetti di plastica ovunque e là dove c’è un fosso, piccole discariche a cielo aperto. Esco dalle mura della città antica e arrivo alla porta principale della città, fra i pulitori di scarpe, gli sciuscià, e a qualche giovane che prova senza successo ad offrirsi a me come guida. Il tempo scorre lento in questa domenica assolata.

Arriva sera, alle 18.30 puntuale si ode il richiamo del Muezin alla preghiera, in questa piccola enclave islamica nella cristiana Ethiopia. Io mi preparo invece ad un’altra notte in compagnia delle iene; ho appuntamento con Fasil, e insieme andiamo a piedi fino ad un altro luogo, sempre fuori dalle mura, dove solitamente le iene vengono a sfamarsi, poco fuori Erer Gate, dinanzi ad un grande baobab illuminato da una fioca luce gialla di uno dei rari lampioni di Harar. Mi siedo qua ai piedi del grande albero, davanti a me c’è uno spiazzo più piccolo rispetto a dove ero ieri, la la tensione e l’adrenalina durante l’attesa sono le stesse, in più sono anche da solo, ma stanotte sembra che le iene non abbiano intenzione di farsi vive, e il tempo scorre. Arriva un’altro straniero, un olandese dai capelli bianchi, fattosi accompagnare sul luogo da un gruppo di bambini locali. Un ragazzo si è inoltrato già da un pò lungo i sentieri che si perdono nella immensa giungla, si sentono i suoi fischi e i suoi richiami, ma ancora nessuna iena in vista, sono ormai quasi le 20. All’improvviso ecco spuntare in lontananza qualcosa, sembra un grosso cane, poi appena si avvicina di più verso il fascio di luce la sua sagoma si fa inconfondibile, altro che cane, è una iena, molto più robusta di quelle di ieri, è sola e non sembra neanche intimidita, ma semmai più distratta da qualcos’altro; i primi bocconi che un ragazzo gli porge prendendoli dalla sua cesta e ponendoli su di un bastoncino di legno, la convincono a concentrarsi sul cibo, si avvicina e lo spettacolo ha inizio! Pochi minuti e capisco da cosa era distratta la iena: sta arrivando un altro esemplare non dalla giungla ma addirittura dai campi accanto alle case; Le due iene si ringhiano un pò, poi però cominciano a turno, una volta auto stabilite le gerarchie, a gironzolare accanto al contenitore di carne e a me che nel frattempo mi sono avvicinato al ragazzo per dare loro da mangiare. Sarà che sono più grosse e più sfrontate rispetto a quelle del branco di ieri, forse anche perchè siamo solo quattro persone e un paio di bambini, ma oggi fanno davvero molta più impressione, le loro mandibole sono davvero notevoli. Ad un certo punto non capisco cosa mi sussurra il ragazzo, fatto sta che senza che me lo aspettassi, lui allunga il bastoncino con la carne sopra la mia testa proprio mentre una delle iene mi è alle spalle, e all’improvviso sento le zampe sulla schiena e il peso dell’animale che appoggiandosi a me allunga la testa verso l’alto per addentare il boccone: perdo per un attimo l’equilibrio, non ero preparato, il ragazzo mi consiglia di restare in ginocchio e restare fermo, e ripete il gesto. Di nuovo la iena con le zampe anteriori fa da leva sulla mia schiena, peserà più di 50 kg e la sua possente mandibola si apre proprio a pochi centimetri dalla mia testa. Si, ho quasi una iena in spalla, il secondo predatore al mondo, e non certo ammaestrato...ci vuole si coraggio ma anche una discreta dose di incoscienza, ma in fondo son convinto che come ogni animale in natura, anche lei non abbia nessuna ragione di aggredire, il suo obiettivo è il cibo, proprio quello che sta penzolando a fianco al mio orecchio! Un’esperienza incredibile, unica, indimenticabile! Anche l’olandese vince le prime remore e si sottopone al rito. Poi la carne finisce e le due iene, sazie, se ne vanno lungo due direzioni diverse, sparendo nel buio della notte. Non potrò mai dimenticare l’esperienza di aver avuto il peso di una iena sulla schiena e di aver dato loro del cibo dalle mie stesse mani...


12 Maggio


Ultima notte trascorsa nella tranquilla casa Harari; sono pronto ad uscire mentre la giovane donna che qui si occupa delle pulizie, avvolta nel suo velo, lava le stoviglie di plastica seduta su di una piccola tanica. Mi è venuto a prendere Fasil, oggi vestito con una maglia nera raffigurante Bob Marley; con una breve corsa in tuk tuk nella città “nuova” andiamo all’ufficio della Ethiopian Airlines per assicurarmi che il volo di domani ci sia, vista l’odissea aerea di qualche giorno fa: qui una ragazza che sta guardando la tv, legge il biglietto che le mostro e mi rassicura che non ci sono problemi, speriamo bene. Oggi devo cercare un passaggio per la città di Jijiga: con i vecchi e stracarichi mini bus il costo sarebbe irrisorio, ma sono a fine viaggio, molto stanco, così mim lascio convincere da Fasil ad andare con l’auto di un suo amico per la cifra folle (per queste parti) di 20 euro: l’auto è una vecchia Pegout azzurra anni ’50, senza le maniglie delle portiere, senza neanche l’attacco delle cinture e con un peloso tappeto blu disteso sul cruscotto; sono riuscito a scendere solo di 50 birr stavolta nella trattativa col taciturno autista, il quale dopo una serie inspiegabile di giri nella zona del nuovo mercato, oggi brulicante di persone, finalmente si decide a prendere la strada asfaltata per Jijiga; si esce dalla cittadina, attorno campi e alture di terra rossa intervallate dalle macchie verdi dei cespugli e dei numerosi alberi di mango e di cedri. Dopo neanche un’ora il motore della vecchia auto comincia a borbottare, ecco, ci mancava questa dopo la moto nelle Filippine; in qualche modo arriviamo alla prima cittadina, Babile, e qui la vecchia Peugout decide di prendersi il meritato riposo definitivo. Ed ora? l’autista trova a suo dire la soluzione: un pulmino stracarico di persone che sta partendo proprio per Jijiga, semplice! Peccato solo che ho pagato ben 8 volte la cifra di un viaggio in pullman e glie lo faccio notare alterandomi anche un pò; lui cerca di scusarsi, chiaro non è colpa sua per l’auto, ma almeno chiedo indietro una parte della cifra che gli ho dato (stupidamente) in anticipo. Continua a scusarsi e non capisce, o fa finta di non capire; qualcuno che mastica qualche parola di inglese cerca di rassicurarmi dicendomi che non mi faranno pagare il biglietto del pulmino, e ci manca pure! Vabbè, ho perso qualche euro stupidamente, infastidito ma amen. Salgo a bordo del pulmino, alla guida un giovane ragazzo, gli occupanti sembrano scusarsi loro e quasi mi adottano lasciandomi un posto seduto sul sedile (altri restano seduti per terra) con lo zaino accanto. Si riparte da qui, ci vorranno un paio d’ore di strada; l’uomo accanto a me mi sorride dicendo di non prendermela, e la donna col velo che ha seduta a fianco addirittura cerca di farmi tornare sereno indicandomi di guardare fuori il paesaggio di massi e rocce che spuntano dalle verdi montagne, in quella che un pò esageratamente, qui chiamano la Valle delle Meraviglie. A bordo, sistemati fin sotto ai sedili ed al mio zaino, fasci di chat che qualcuno già mastica: c’è un posto di blocco e qualche piccolo dosso a rallentare la corsa, oltre alle onnipresenti mucche e asini che in fatto a pericolosità sul ciglio della strada, assomigliano molto ai pastori Amhara del nord. Ed ecco le prime carovane di cammelli, mi sto spingendo ad est nella regione autonoma del Somali, ultimo avamposto prima del confine con il Somaliland. Già, il Somaliland, uno stato che esiste ma non esiste, con una propria moneta, un esercito e una lingua propria, ma non riconosciuto dalla comunità internazionale eccezion fatta per l’Ethiopia che ne riconosce i confini; ci ho fatto ben più di un pensiero in fase di progettazione del viaggio, la tentazione di varcare i confini di uno stato che non esiste è forte, così come l’idea di avere sul passaporto il timbro di questo Paese, e di passare almeno una notte nella sua capitale, Hargheisa. Purtroppo però la realizzazione di questo sogno richiederebbe più tempo di quello che mi rimane, e in più le condizioni dei trasporti già qui sono al limite, e fare qualche centinaio di km richiederebbe più di un giorno. Peccato, sarebbe stata la ciliegina sulla torta, torta che comunque rimane squisita, e comunque mi ci avvicinerò il più possibile ai suoi confini, arrivando a Jijiga, cittadina ben lontana da qualsiasi rotta turistica. Ci si ferma per una sosta lungo la strada e il pulmino viene letteralmente circondato da ragazze velate che vendono ai passeggeri, attraverso i finestrini, le taniche gialle di plastiche piene di latte di cammella: si, forse era scritto nel mio destino che anche l’ultima tratta di questo viaggio la dovevo vivere in modo autentico ed avventuroso, così il nervosismo per i 20 euro persi è già solo un ricordo e questo è in fondo il modo di viaggiare, seppure scomodo, che più mi si addice. Si riparte, in lontananza vedo una città, ci siamo quasi, ma prima ci fermiamo su di una collina dove ci sono delle baracche di lamiera: “dogana, tassa per il chat” mi dice il mio vicino; salgono infatti a bordo dei gendarmi che con modi alquanto bruschi, fra le proteste dei passeggeri, sequestrano i mazzi di chat che trovano a bordo cercando anche dentro alle borse delle donne e sotto tutti sedili, tranne uno, il mio! Anzi, sono l’unico a cui la guardia si rivolge in modo educato perfino salutandomi. C’è confusione, non si capisce bene cosa accada, qualche mazzo alla fine torna a bordo forse dopo il pagamento di una gabella, fatto sta che ripartiamo e alcuni passeggeri mi ringraziano: già sono stato involontariamente complice di un contrabbando di chat! Ora a bordo c’è un clima più rilassato e quasi euforico, finalmente arriviamo a Jijiga; l’autista si ferma sul ciglio della strada indicandomi che lì c’è l’hotel che gli avevo di cui gli avevo chiesto alla partenza, così saluto tutti, scendo ed entro in una specie di cortile con delle camere disposte a corte tutte attorno; l’ uomo in quella che sembra la reception (1 mq di stanza buia con una scrivania) non sa l’inglese, alla fine con l’aiuto di altre quattro persone spuntate dal nulla, conquisto per 150 birr la mia ultima sistemazione per la notte prima del rientro ad Addis Abeba: una stanza buia che assomiglia ad una cella carceraria, mura grigie e azzurre e un bagno malconcio senza acqua ma con almeno un secchio pieno di essa, degna conclusione da ultima frontiera! E Jijiga è proprio una città di frontiera, lo capisco subito dalle grandi jeep bianche dell’Onu che circolano e soprattutto dalla sua atmosfera: non c’è davvero nulla perchè un turista debba spingersi fino a qua, solo case, qualche negozio e tanta gente stesa a vendere indumenti ed altri piccoli oggetti in plastica tutti made in China; al posto delle mucche i cammelli, una strada dove passa qualche tuk tuk e qualche jeep, e la netta sensazione di essere l’unico occidentale presente! Perfino le jeep dell’ Onu sono guidate da personale di qualche contingente africano. I bambini mi guardano straniti, nessuno come ad Harar mi grida “faranjo), nei loro occhi stupore e quando accenno ad un saluto con la mano quelli che mi fissano, sembra quasi che il gesto li intimorisca. Anche i tratti somatici della gente sono diversi qui, più simili ai somali, e tutte le donne di qualsiasi età, perfino le bambine, indossano i lunghi veli colorati, sembra di essere più in Somalia che non in Ethiopia. Qualche adulto mentre passeggio lungo la strada, perfino dalle auto di passaggio, accenna ad un saluto nelle poche parole di inglese conosciute, inglese che qui in effetti non parla quasi nessuno, però ha un notevole fascino camminare sentendosi così diversi in questa terra di frontiera, non c’è ostilità, semmai stupore misto a cordialità. Entro nell’unico ristorante che trovo con una vaga parvenza occidentale, dal menù non si capisce nulla se non un “piza” con una zeta che diventa la mia scelta obbligata insieme ad una Fanta, ma nel frigo a vista, semivuoto, c’è solo una limonata e così scelta obbligata anche questa. C’è una tv che trasmette il canale di Al Jazeera...ha ragione la Lonely Planet, non c’è nulla da fare nè da vedere qui a Jijiga, ma si respira davvero un’aria di avventura, qui a soli 60 km dal confine del Somaliland...


13 Maggio


Notte semi insonne causa fastidiose zanzare. L’aeroporto di Jijiga è proprio in mezzo al nulla assoluto, ci arrivo in tuk tuk; è presto, il piccolo hangar non è ancora aperto così aspetto fuori: c’è un silenzio totale, qualche cammello all’orizzonte e una piccola baracca dal tetto di lamiera blu, arriva alla spicciolata qualche altro passeggero, e tre ore prima della partenza prevista lo scalo apre. Passo il controllo e mi ritrovo qui sulle poltroncine del minuscolo gate, c’è solo una coppia di giovani finlandesi e per il resto solo locali; guardo la pista desolatamente vuota e bagnata dalla pioggia che nel frattempo ha cominciato a cadere. Entra un addetto della Ethiopian Airlines, camicia bianca e pantalone verde scuro, annuncia qualcosa in lingua locale prima, e un brivido mi assale ripensando all’odissea vissuta da Lalibela, un film già visto, il volo è in ritardo, stavolta a causa del maltempo; rassegnazione e attesa. Intanto il temporale cessa e il cielo si schiarisce; l’attesa è lunga, resa più noiosa dalla totale mancanza anche di un solo negozio di souvenir dove curiosare. Finalmente ripassa l’addetto annunciando che il volo è partito da Addis Abeba, un paio d’ore ed infatti eccolo atterrare nella pista: lascio così la regione del Somali, ultima tappa del viaggio. Stavolta ad attendermi fuori dall’aeroporto della capitale c’è Tebeje in compagnia di Milion, il tassista di fiducia di Armando e Gabriella. Mi riportano alla loro casa di Armando e Gabriella: c’è poco traffico lungo Bole Blv, il viale che dall’aeroporto porta in città, costruito dai cinesi; le case cadenti o semi costruite, la gente, i colori, la povertà e la polvere...mi sembra ormai tutto familiare. Finalmente faccio la conoscenza di Gabriella e delle sue due bellissime bambine, Irene ed Elisa di 5 e 3 anni: Gabriella è una donna gentile, una bella persona di quelle che da subito ti fanno sentire a tuo agio, ed entro anche subito in sintonia con le bimbe che mi “catturano” a giocare insieme ad una loro amichetta lì ospite. Sono un pò frastornato, è strano, solo ieri ero in un posto fuori dal mondo, unico straniero, ed ora sono qui in un ambiente quasi familiare a parlare la mia lingua. Ma questa è ancora Addis Abeba e io sono ancora in Africa. Gabriella ha invitato a cena due sue amiche con le rispettive bambine, anch’esse italiane che lavorano qui: lasagne, verdure, provola, grana, frutta e perfino sorbetto, stento a credere a tanta grazia dopo settimane di stenti. Una tavola di sole donne, curiose del mio viaggio quanto sono io curioso del loro vivere in questa realtà; è la prima volta da quando son partito per questa avventura, che mi ritrovo a raccontare di persona gli aneddoti, le esperienze vissute...è una strana sensazione, che mi fa avvertire di essere arrivato quasi ai titoli di coda di questo lungo ed indimenticabile viaggio intorno al mondo.


14 Maggio


Deve essere difficile vivere ad Addis Abeba, ancora più difficile con e per due bambine piccole come Irene ed Elisa, però allo stesso tempo deve essere anche stimolante, e di certo è un bagaglio culturale grande che permetterà loro di avere una mentalità molto più aperta di tante loro coetanee anche più in là nel tempo. Dopo giorni di strade deserte, ritrovo il caos e il traffico di una vera città: con Gabriella alla guida, insieme a Tebeje, stiamo accompagnando Irene ed Elisa alla scuola inglese; una volta lasciate loro nel piccolo edificio in una via tranquilla alle insegnanti di madre lingua inglese, proseguiamo verso nord uscendo dal traffico disordinato di Addis Abeba fino ad arrivare alla chiesa di Entoto Maryam, alla fine di una lunga salita. Gabriella prima di iniziare il suo turno di lavoro come insegnante, vuole farmi vedere i punti più belli della città, così visitiamo questa colorata chiesa museo dalla caratteristica forma circolare e col tetto a punta; un tempo quassù viveva il re, ci sono ancora, spoglie, le stanze della sua dimora che dall’altro dominava la città. E’ una breve visita, poi sulla strada del ritorno, Gabriella lascia me e Tebeje ad un mercato locale e lei prosegue per il lavoro: è il mio ultimo giorno di viaggio, ultime ore qui in Africa, quasi a voler ingannare la tristezza, mi aggiro per i semplici banchi pieni di vestiti e stoffe locali, così ho modo di acquistare gli ultimi regali da portare in Italia, contrattando grazie anche all’aiuto di Tebeje. Insieme poi prendiamo per qualche birr e qualche fermata, uno dei furgoni che fingono da trasporto pubblico e che partono quasi sempre al completo, questa breve esperienza cittadina mi mancava; arriviamo al museo etnografico, interessante, poi passiamo a piedi dall’obelisco (Yekatit 12) che ricorda la strage compita qui dagli italiani nel 1937 durante l’occupazione fascista, quando in segno di rappresaglia per l’attentato contro il vice re Graziani, gli italiani uccisero a caso tra la popolazione civile quasi tremila persone (una delle stragi italiane compiuta in epoca fascista troppo spesso taciuta nel nostro paese...), ed infine breve visita al museo nazionale dove sono conservati i resti di Lucy, l’ominide ritrovato nel 1974 qui in Ethiopia e risalente a 3,2 milioni di anni fa. Insomma, giornata da turista oggi, prima di rientrare in casa per il pranzo, preparatomi dalle due timide e premurose ragazze che lavorano per Gabriella e Armando.

E’ pomeriggio quando torna Gabriella, intanto mi son portato avanti con la preparazione dello zaino, sembra ci stia tutto, sono stato bravo! Salgo in macchina con lei, e nel caotico traffico dove i panciuti vigili in divisa azzurra quasi controvoglia, faticano a dare un senso di ordine, con le precedenze e perfino i sensi di marcia quasi mai rispettati; facciamo un breve giro, senza scendere, nel quartiere Piazza, il cuore della città, dove gli edifici ancora ricordano lo stile fascista, e se non fosse per la popolazione di colore e per i tanti mendicanti, sembrerebbe di essere in una decadente cittadina italiana degli anni ’50; passiamo anche accanto all’immenso complesso recintato  dove vive il Presidente etiope, un compound di migliaia di ettari all’interno di un parco ultra sorvegliato, segno delle forti contraddizioni africane, ed infine arriviamo a riprendere Irene ed Elisa, tutte contente di rivedermi ed ansiose di farmi vedere i loro giochi della scuola. Risaliamo in auto ed appena svoltiamo l’angolo appare alle nostre spalle un qualcosa di mai visto prima: quella che sembra una enorme nuvola nera in movimento, in realtà è uno sciamo di milioni di locuste, un qualcosa di impressionante che avevo visto solo nei documentari alla tv; sono a non più di un km di distanza, anche se qualcuna già vola qui accanto ai vetri delle auto, da vicino sono belle grandi, almeno 7 o 8 cm; anche Gabriella è stupita, così tante insieme neanche lei le aveva mai viste, mentre Irene ed Elisa osservano divertite dal finestrino posteriore. Torniamo verso casa, a nord, le locuste probabilmente devieranno verso i campi. Intanto in tutta Addis Abeba è venuta a mancare l’acqua, Gabriella ha una tanica per le emergenze, mi racconta che a volte la carenza d’acqua arriva anche in città e dura qualche giorno; sono agli sgoccioli del mio viaggio, il tempo di una doccia veloce, una cena e di un ultimo sentito ringraziamento a Gabriella e alle due piccole con cui ho giocato e mi son sentito davvero bene; Irene, la più grande, è triste e manifesta il suo malcontento alla mia partenza...anche io sono triste, e anche un pò frastornato da questi ultimi difficili e stancanti giorni. E’ sera, Milion , il tassista, è venuto a prendermi con la sua vecchia utilitaria bianca, lascio così definitivamente casa di Gabriella e Armando per dirigermi verso il Bole International Airport, dove fra qualche ora ho l’aereo che mi riporterà in Italia.


15 Maggio


E’  ormai passata la mezzanotte quando il Boing della Ethiopian Airlines dopo aver preso la rincorsa sulla pista per il decollo, all’ultimo momento spegne i motori e fa rientro verso il terminal, il pilota annuncia di aver sentito un rumore sospetto e per precauzione vuole farlo verificare, roba da mettere il panico a chi già ha paura di volare di suo. Ma il sentimento che provo io in questo momento non è certo questo, tutt’altro, non ho nessuna fretta di tornare a casa e mettere fine a questo mio lungo viaggio intorno al mondo. Così, bivaccando a bordo dell’aereo fermo in pista mentre i tecnici fanno le loro verifiche, ripenso alle mille avventure e alle mille emozioni vissute in questi 40 giorni; è difficile descrivere cosa si prova al termine di un viaggio simile, ho patito il freddo e il caldo, ho provato un vento la cui forza mi era ancora sconosciuta, ho visto l’impressionante forza dell’acqua a Niagara Falls, ho spinto una moto in salita, soccorso un ferito con le salviette umide, camminato tra le risaie finendoci pure dentro, sorpreso dall’alta marea, visto mucche, asini, pecore, avvoltoi, leoni marini, koala e perfino iene a cui ho dato da mangiare, e il cui peso ho sentito sulla mia schiena...ho ballato una danza tribale, dormito in lussuoese camere e in vere bettole senza acqua nè corrente, ho toccato con mano disparità sociali, attraversato moderni ponti in acciaio e traballanti ponti in bambù, passato ore in attesa o in volo per i cieli del mondo, incontrato popoli e tradizioni diversi, ho toccato con mano la miseria più estrema, bambini senza casa e che lavorano, madre elemosinare all’ombra dei grattacieli mentre legge favole abbracciata alla propria bambina, tanti pugni nello stomaco della coscienza ma anche tanti sorrisi di bambini felici anche solo per un saluto con la mano, ho camminato al buio sotto la pioggia con zaini più pesanti di me, viaggiato su barche, tuk tuk, jeepney, auto d’epoca e moto, visto paesaggi unici e cieli che sembravano dipinti...questi sono solo alcuni dei flash che continuano a passarmi nella mente. Ma stavolta non sono i titoli di coda di un film, mi sento frastornato, un pò confuso, ma tanto orgoglioso e felice di aver realizzato questo sogno. Vedere e vivere tutte queste emozioni diverse in un unico viaggio fa la differenza, passare da una realtà all’altra senza interruzione, senza quel rientro a casa che interrompe questo filo, mi ha fatto sentire cittadino del mondo. 4600 Km percorsi via terra, 43630 in volo (9 voli intercontinentali per un totale di oltre 67 ore, più i 5 voli interni in Ethiopia), 4 Continenti toccati, 5 Stati, 5 fusi orari diversi, temperature dai 2 gradi di Niagara Falls ai 37 di Harar, tutto in un unico lungo viaggio...No, non è facile per niente cercare di tradurre per iscritto ciò che si prova in questi momenti. Il boing della Ethiopian Airlines dopo oltre un’ora di attesa annuncia la partenza, rullano i motori e stavolta l’aereo si alza in volo senza problemi, levandosi in cielo in quest’ultima mia notte africana...