TRANSMONGOLICA
Russia - Mongolia - Cina
 

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Ottobre / Novembre 2016

Transmongolica
Russia
Mongolia
Cina

22 ottobre

Sono da poco passate le 17. 05 ora locale quando il Boeing 737 della Aeroflot atterra sulla pista dell'aeroporto Sherematyemo: sono a Mosca, capitale della Grande madre Russia, prima tappa di questo nuovo lungo viaggio che mi porterà fino a Pechino, oltre 9000 chilometri, la maggior parte dei quali in treno lungo la mitica linea ferroviaria della Transsiberiana prima e della Transmongolica poi, lungo antiche rotte e sulle orme di Gengis Khan... Con me in questo viaggio ci saranno Silvia e Mauro. Sbrigate le classiche formalità aeroportuali, con il moderno treno rosso Aero Express arrivo in città. Primo assaggio dell'articolato labirinto delle linee della metropolitana per arrivare a pochi passi dalle imponenti mura rosse della cittadella, il Cremlino, le cui alte torri subito mi appaiono alla vista una volta uscito in superficie; da qui in pochi passi arrivo al Pathos Na Kremlevskay , una guesthouse che in realtà è un appartamento sito al secondo piano di una malandato e polveroso condominio di edilizia popolare; qui i proprietari, dai tipici tratti caucasici, hanno ricavato in quello che è il loro appartamento tre minuscole stanze, con un bagno claustrofobico, e un altrettanto minuscola cucina in comune. Ma la posizione centrale è ottima, a pochi passi dal Cremlino e dalla cattedrale di Cristo Salvatore, con le sue grandi cupole bianche e dorate, sulle sponde della Moscova. La temperatura fuori è intorno allo zero termico, nulla in confronto a quello che mi aspetta lungo questo viaggio. Giusto il tempo di una cena tipica a base di involtini diversa con grano saraceno è carne trita condita con panna acida, la scoperta della città la rimando a domani.

23 ottobre

La scoperta di Mosca comincia sottoterra, in quella che è forse la metropolitana più usata al mondo, seguendo il percorso suggerito dalla Lonely Planet per ammirare le fermate più belle. In effetti una scoperta stupefacente: orientarsi in questo immenso labirinto sotterraneo non è semplice, le indicazioni sono quasi tutte in caratteri cirillici , le linee sono in totale 12, collegate tra loro da lunghi corridoi. Parto dalla fermata di Komsomaiskaya,e a mano a mano le fermate scelte si rivelano degli autentici capolavori di stili ed epoche diverse, dal barocco all'Art Nouveau, con raffinati lampadari, statue in bronzo a grandezza naturale, bellissimi mosaici e bassorilievi colorati da temi socialisti, sale in marmo, colonne, insomma un autentico museo sotterraneo, dove la gente che va avanti ed indietro non si affolla mai lungo le banchine vista la frequenza continua con cui passano i treni, che quasi stonano in mezzo a tutto questo tripudio di arte; uno spettacolare ed insolito museo sotterraneo di una bellezza unica. Fermate che durante le guerre furono usate come rifugi dai bombardamenti aerei, tanta è la profondità sotto la quale sono state costruite. Continuo a girare, cambiando almeno tre linee e salendo e scendendo lungo le ripide e lunghe scale mobili presidiate alla base da annoiate dipendenti chiuse in muscoli gabbiotti di vetro. In tutto passo nei sotterranei della città a scoprire le sue meraviglie l'intera mattinata. Luogo decisamente insolito dove ammirare tanta arte, soprattutto pensando alle nostre grigie linee metropolitane. Rispunto in superficie all'altezza di Arbat, la lunga via pedonale con qualche bizzarro locale, diversi negozi di souvenir, qualche ritrattista e diversi finti personaggi di gomma piuma raffiguranti eroi dei cartoni animati alla ricerca di qualche foto. Il cielo è nuvoloso e fa freddo, non c'è molto da fare e da vedere qua, così, sempre utilizzando la comoda metropolitana per gli spostamenti, mi ritrovo in zona guesthouse, a pochi passi a pochi passi dalla grande cattedrale bianca di Cristo Salvatore, le cui cupole dorate sono già visibili dalla grigia stradina del palazzo con la facciata in rifacimento dove è sita la guesthouse stessa. Mi ritrovo in pochi minuti davanti alla sua impressionante facciata costruita in epoca recente, infatti risale agli anni 90, costruita sul sito di una vecchia chiesa risalente invece al 1839. La cattedrale faccia sulle rive della Moscova, il fiume che attraversa la città; mi sposto sulla riva opposta servendovi del ponte pedonale da cui si ammira un bello scorcio delle vicine mura del Cremlino e delle sue alte torri di guardia. Cammino in direzione sud passando accanto ad un'enorme statua di Pietro il Grande raffigurato in piedi in cima ad un veliero, con una vaga somiglianza a Cristoforo Colombo, nella posa e nelle sembianze, ma questo è ben altro mondo rispetto a quello scoperto da navigatore genovese. Le dimensioni d'altezza della statua sono esagerate e sproporzionate rispetto tutto il resto. Proseguo oltre: passa una chiatta mercantile sulla Moscova, lungo il marciapiede diversi giovani e qualche operaio in pausa vestito di pesanti tute gialle con elmetti rossi in testa. Arrivo quasi al calar del sole al maestoso ingresso a colonne su cui campeggia il volto di Lenin del Gorkj Park, il grande parco cittadino il cui nome evoca canzoni e film del passato. Ora che il pallido sole, che a stento ha provato ad uscire, è definitivamente calato, si alza un gelido vento. Con Silvia e Mauro decido di rintanarmi al caldo di una nave riadattata che ora ospita qualche piccola bottega di moda di giovani stilisti del posto e qualche grazioso locale dalle luci soffuse. Trascorriamo un po' qui il tempo fra un provvidenziale tè caldo e una cena a base di piatta greca, proprio a fianco dei vecchi oblò della nave. Riuscire al freddo è un un po' uno shock, in parte però compensato dall'adrenalina della prossima meta: mi sto infatti incamminando per la prima volta verso la Piazza Rossa. Qualche kilometro mappa alla mano ed infine eccola che mi appare illuminata in tutta la sua bellezza: una lunga distesa di ciottoli di cemento che fiancheggiano per un intero lato le lunghe mura rosse del Cremlino, dall'altro i magazzini statali Gum, oggi moderno centro commerciale che si estende in lunghezza, ahimè illuminato orribilmente in stile Disney amo, e alle due estremità il museo storico di Stato di color ocra e la bellissima cattedrale di San Basilio, simbolo della città o forse dell'intera Russia, anch'essa color ocra con le sue inconfondibili cupole di varie forme e colori tanto da farla sembrare una torta di marzapane. Posiziono il mio cavalletto, e comincio ad immortalare questa meraviglia...

24 ottobre

Finalmente il sole, oggi Mosca si presenta con un bel cielo azzurro, anche se la colonnina di mercurio segna -2 e l'aria è ancora più fredda di ieri. Ci dividiamo, insieme a Mauro vado alla biglietteria di ingresso per il complesso del Cremlino: siamo tra i primi ad entrare, passando sotto l'alta torre appuntita di Kutafya, sormontata da una grande stella Rossa, ed entrando all'interno delle mura di quello che fu il primo insediamento della città e che oggi è il fulcro politico e religioso dell'intera Russia. La presenza di robusti poliziotti con il peloso colbacco in testa è discreta ma capillare. Qui all'interno ci sono il palazzo presidenziale, il Soviet Supremo, e il Senato, inavvicinabili; noi invece arriviamo al piccolo spiazzo denominato Sobornaya, contornato da ben cinque piccole cattedrali bianche dalle cupole dorate, che racchiudono al loro interno dipinti ed icone della religione ortodossa, oltre alle tombe dei patriarchi della Chiesa russa vissuti fino al 1700. Il rosso nel buio degli interni è il colore predominante insieme a ricche ed elaborate rifiniture in oro, peccato non sia consentito fotografare gli interni. La cattedrale più importante, quella dell'Assunzione, è completamente decorata da antichi e suggestivi affreschi, che riesco ad immortalare nonostante il severo controllo delle donne addetti alla sorveglianza di questa inutile divieto (non utilizzando il flash...). Con questo freddo, le chiese rappresentano anche una pratica sosta riscaldatoria. Salgo in cima al campanile di Ivan il Grande dalla cui sommità si ammira uno scorcio del panorama cittadino. Una volta visti anche gli antichi tesori nel Palazzo del Patriarca, esco dal Cremlino e mi dirigo nella adiacente Piazza Rossa: con la luce del giorno e il cielo azzurro i colori cambiano totalmente, perfino i magazzini Gum con le loro antiche facciate rinascimentali color crema e non orrendamente illuminati a festa come ieri sera, fanno la loro bella figura nella piazza. Ma il pezzo forte è sempre lei, la cattedrale di San Basilio, le cui cupole di marzapane color bianco e azzurro, rosso e verde, verde e bianco, rosso e bianco, sormontate dalle croci ortodosse dorate, sono di una bellezza unica, quasi fiabesca. L'interno è fatto di piccole cappelle comunicanti tra loro, sempre ricche di raffigurazioni e icone ortodosse; in una di queste, quattro uomini intonano canti liturgici che rendono ancora più suggestivo il tutto. Ci ricongiungiamo con Silvia, ed insieme facciamo una pausa per il pranzo negli eleganti interni dei magazzini Guam, pieni di negozi di grandi firme. Fuori intanto il cielo si è improvvisamente coperto di grandi nuvoloni scuri; mi cammino nelle strade dell'antico quartiere Kitay Gorod, passando prima di fronte al famoso ed elegante teatro Bolshoi; sul marciapiede opposto una statua di Karl Marx con la scritta in cirillico " proletari di tutto il mondo unitevi " veglia su un piccolo giardino. Le strade di Kitay Gorod, ad eccezione di un paio di piccole e colorate chiese ortodosse, non suscitano in me particolare interesse, così ne approfitto per sistemarmi da solo ad un tavolo del Gum a scrivere le pagine di questo diario, con la musica natalizia di sottofondo diffusa in tutto il centro. Domani si parte, comincia l'avventura lungo la Transmongolica...

25 ottobre

Oggi è il giorno della partenza, la stazione dei treni Yaroslavsky è un disordinato agglomerato di piccoli edifici con supermercati ed una piccola sala d'attesa. Solo il largo anticipo, in attesa che sul tabellone elettronico delle partenze appaia al binario dal quale partirà il treno Rossya 002 diretto a Vladivostok, lungo la tratta della Transiberiana. Attendo all'aperto davanti alle banchine dove partono i treni a lunga percorrenza, appoggiato alla vetrina di un negozio di kebab, sotto il sole che illumina il cielo ma non lo scalda, un cielo terso, mentre tutto attorno è un continuo via vai di gente del posto, coperta da pesanti cappotti e cappelli, che trasporta borse di tutte le dimensioni; vigilo con attenzione i miei zaini, tanta gente dall'aspetto poco raccomandabile si aggira nei dintorni. Un piccolo cartello in ferro davanti al binario 4 indica il kilometro 0 della Transiberiana: proprio qui con 40 minuti in anticipo, arriva il moderno treno grigio e rosso trainato invece da una vecchia locomotiva con tanto di stella Rossa in bella vista: la lunga attesa è finita, curioso ed eccitato cammino a passo spedito verso il vagone di seconda classe, il numero 9, quasi come se stessi perdendo il treno! Invece è qui, fermo, pochi minuti e la prodonvista, una robusta donna sulla cinquantina, capelli rossi occhi azzurri e denti in oro, vestita con la divisa blu e bordeaux delle ferrovie russe, apre la porta del vagone e fa salire dopo un veloce controllo di biglietti e passaporto; sarà lei, in alternanza con una collega, la governante dell'intero vagone. Lo scompartimento è sufficientemente grande per quattro persone, nel nostro per ora siamo solo io Silvia e Mauro. Ampi e alti sedili color azzurro, e sopra altri due posti letto, più una provvidenziale presa per la corrente. Qui trascorrerò i prossimi tre giorni del viaggio. Mentre ancora sto sistemando, puntuale alle ore le 13.20 il treno lentamente parte, inizia ufficialmente qui la mia Transmongolica. La prodonvista ci fornisce le belle tazze che sono in realtà dei bicchieri in spesso vetro inseriti in un caratteristico porta bicchieri con manico, in ferro grigio, con il simbolo della federazione russa, ovvero l'aquila a due teste con una corona in testa, e al centro San Giorgio che uccide il drago, vecchia simbologia ripresa dai il tempi degli zar. In ogni vagone c'è un Samovar, un grande recipiente di acqua bollente in acciaio dal cui rubinetto a leva è possibile prepararsi te o tisane. A bordo noto solo persone del posto, siamo gli unici occidentali ad eccezione di un viaggiatore inglese, il treno non sembra essere pieno. Oltrepassata un'anonima periferia suburbana il paesaggio fuori dall'ampio finestrino dello scompartimento comincia a mutare; vedo le prime dacie, le tipiche case in legno con un piccolo giardino, fra gli alti fusti bianchi ed affusolati delle betulle. Lungo il corridoio dello scompartimento è un lento viavai dei passeggeri che riempiono le loro tazze al Samovar. Alle 16.17,3 ore dopo la partenza il treno fa la sua prima sosta a Vladimir, molti uomini alcuni dei quali infilandosi solo la giacca e rimanendo in ciabatte, scendono sulla deserta banchina approfittando della sosta di 23 minuti per fumare. Poi il treno riparte, il paesaggio non muta fino a sera, col buio che cala presto, trasformando nella penombra i fusti bianchi delle betulle ormai quasi privi di foglie in tanti fantasmi filiformi. Comincia a diffondersi l'odore di zuppe di noodles liofilizzate, una di queste sarà anche la mia prima cena qui a bordo grazie all'acqua sempre bollente del Samovar, oltre a gustosi mapo comprati a Mosca. A Novgorad l'ultima fermata della giornata; sale un signore anziano nel nostro scompartimento, baffi bianchi e coppola di pelle in testa, sarà il primo compagno di viaggio lungo il tragitto. Fuori ora è completamente buio e mi preparo per la mia prima notte sul treno della Transiberiana.

26 ottobre

Non sono ancora le 7.30 ora di Mosca, forse siamo già un fuso orario in avanti in questo tratto; c'è silenzio, tutti dormono ancora, si sente solo rumore dello scorrere veloce del treno lungo le rotaie. Sbircio fuori dal finestrino, le foreste di betulle e conifere ora sono più fitte, e per terra vedo la prima neve. Ore 9.39 di Mosca, +2 qui al km 1434 della stazione di Perm, grande centro industriale della Russia occidentale; il treno ci arriva dopo aver attraversato l'ampio letto del fiume Kama, uno degli affluenti del Volga. La sosta dura 20 minuti, ne approfitto per scendere e scattare qualche foto dalla banchina nonostante il cielo grigio. Poi il treno riprende la sua corsa fra una disordinata periferia fatta di alti palazzi, qualche gru e le case di campagna, le dacie, con i loro tetti spioventi leggermente imbiancati dalla neve. Qualche collina poi ancora foresta. Di tanto in tanto il treno incrociare altri convogli merci su rotaia che trasportano grosse cisterne; d'altronde questa è una delle aree minerarie più grandi della Russia. Gli alberi, ad eccezione degli alti pini della taiga, sono ormai tutti spogli, i diversi corsi d'acqua sono ghiacciati. Intanto le prodonviste si sono date il cambio: la robusta dai denti d'oro è in abiti borghesi mentre in servizio ora c'è una signora bionda che indossa delle inguardabili ciabatte leopardate: ha un aspetto più severo della sua socia ed una vaga somiglianza con Raffaella Carrà: passa sia lungo il corridoio che negli scompartimenti azionando l'aspirapolvere sui tappetini rossi che ricoprono i pavimenti. Il compagno di viaggio dai baffi e la coppola è sceso alla stazione di Perm, ora il letto numero 8 è occupato da un taciturno ragazzo russo. Ore 15.10 di Mosca, km 1814, poco dopo aver attraversato l'immaginario confine tra Europa ed Asia, il treno rallenta ed entra nella stazione di Ekaterinburg, città di oltre 1 milione di abitanti, e lo si intuisce dai palazzi e dal traffico di auto che percorrono le vie adiacenti ai binari. Sosta di 27 minuti, scendo a fare due passi sulla banchina ghiacciata è sotto un leggero nevischio, fino ad arrivare alla locomotrice, passando accanto alla grande entrata della stazione color crema, sulla quale campeggia la scritta rossa in caratteri cirillici del nome della città. Il treno riparte, tutti tornano ai propri scompartimenti e il calare del buio spegne i pochi rumori presenti. Fra poche centinaia di chilometri oltrepasserò un altro confine, quello di una delle regioni più fredde, inospitali e meno popolate del pianeta, l'immensa Siberia.

27 ottobre

Nella notte c'è stato l'ennesimo cambio di compagno di scompartimento. La prima luce del giorno col suo cielo grigio illumina un paesaggio piatto, la taiga non c'è più, la neve ricopre ormai per diversi centimetri il terreno alle radici degli alberi sempre più bassi e spogli. Prima di arrivare a Barabinsk, lo scenario cambia ancora, gli alberi si diradano sempre di più fino quasi a scomparire e si apre una grande steppa, con cespugli di grano ricoperti dalla neve. Ore 06.55 di Mosca, il fuso orario qui ora è di tre ore in avanti, la capitale russa è sempre più lontana, dista ora 3035 km. Il treno entra lentamente nella stazione di Barabinsk: la banchina è completamente ghiacciata e per la prima volta dall'inizio del viaggio ci sono le babushka, donne del posto spesso anziane, che passano per vendere cibo tra cui pesce essiccato e cappelli e coperte di pelliccia. Non sono tante, forse una decina, il treno non sembra pieno quindi anche la potenziale clientela scarseggia. La sosta è lunga, 30 minuti, ne approfitto per fare qualche foto stando ben attento a non scivolare sul terreno ghiacciato, mentre la prodonvista del nostro vagone chiacchiera con due babushka dagli evidenti tratti somatici khirgizi: Barabinsk è infatti terra di origine del popolo khirgizo. Acquisto da una babushka per soli 90 rubli tre piroghi, sostanziosi Panzeri rotti fritti ripieni di cavolo e cipolla. Passati i 30 minuti, il treno puntuale al secondo riparte. Si susseguono paesaggi fatti di foreste di betulle, le cui poche foglie color giallo e marrone risaltano sui tronchi bianchi col riverbero della neve. Km 3330, ore 11.01, si iniziano a vedere i primi grandi palazzi della periferia di Novosibirsk, la più grande città della Siberia con più di 1,5 milioni di abitanti: enormi caseggiati, strade e auto. Il treno, attraversato il ponte sopra l'immenso letto del fiume Ob, uno dei più lunghi al mondo, entra nella stazione, un grande complesso color verde acqua sovrastato come le precedenti dalle lettere in cirillico della città, con diversi binari e chioschi che vendono cibo; qui nessuna babushka. Scende una leggera neve, sosta di 19 minuti, non uno di più ,e si riparte nuovamente. Il tempo scorre lentamente, qualcuno resta nello stretto corridoio a guardare fuori, negli scompartimenti c'è chi legge, chi dorme, chi mangia; non mi sembra ci siano turisti, solo gente del posto che usa la ferrovia Transiberiana per spostarsi all'interno del paese più vasto del mondo. Proprio quest'anno ricorre il 100º anniversario della sua ultimazione, avvenuta nel 1916, dopo che il progetto allora folle della sua costruzione cominciò già dal 1857, un progetto strategico politico, militare ed economico, che intendeva collegare la Russia con le remote regioni orientali spesso inesplorate. Oggi quell'impresa che è costata anche la vita di centinaia di operai, rappresenta il più grande tracciato ferroviario al mondo che collega Mosca con Vladivostok, distante 9288 chilometri, con le diramazioni della Transmanciuriana e la Transmongolica entrambe dirette a Pechino. Sono le 16.30 ora locale ed è già buio. Il treno fa ancora qualche breve fermata, provo il vagone ristorante dove non c'è nessuno ed infatti una cena non costa quanto il pranzo comprato stamattina dalla babushka. Ancora una sosta di 26 minuti a Marianinsk al km 3713, prima di cambiare ancora un fuso orario, cosa che avverrà questa notte all'altezza di Krasnoyarsk dove il treno nel cuore della notte compirà un'altra lunga sosta.

28 ottobre

Sono entrato ufficialmente nella regione di Irkutsk, a metà strada tra Mosca e Vladivostok. C'è un pallido sole che illumina la taiga innevata, dove ora in netta maggioranza sono i pini e le conifere. Poi invece ancora i bianchi fusti delle betulle, il paesaggio fuori è un continuo mutare, c'è anche qualche corso d'acqua semi ghiacciato; il treno ferma per 12 minuti nella piccola e anonima stazione di Nizhnendinsk al kilometro 4678; qui la prodonvista del nostro vagone, con una pesante ascia, spacca alcuni blocchi di ghiaccio formatisi tra le ruote del treno. Da qui in avanti le rotaie attraversano vaste pianure innevate intervallate da qualche villaggio fino al km 4934, stazione di Zyma, sosta di 30 minuti mentre il sole sta lentamente tramontando, con un'ora di ritardo rispetto a ieri; stiamo infatti procedendo verso sud e le ore di luce sono di più, così come il freddo! C'è meno neve, ma la colonnina di mercurio segna già -9 gradi! Qui viene staccata e sostituita la locomotiva di testa, forse questa è la giustificazione della sosta così lunga. Il treno riparte, attraversando il ponte sull'ampio e ghiacciato letto del fiume Oka. Anche il corso di altri fiumi che costeggiamo sono completamente ghiacciati mentre dai tetti delle dacie esce il fumo dai camini, segno che il lungo inverno ormai è arrivato. Si susseguono nello scompartimento i passeggeri che occupano il posto vuoto, da qualche fermata è la volta di una signora bionda che, come chi l'ha preceduta, sale nel suo posto letto a leggere e riposare. Km 5185, il treno entra alla stazione di Irkutsk, prima tappa della mia Transmomgolica: dopo più di tre giorni di viaggio scendo definitivamente dal treno Rossya 002 che è stata la mia casa su rotaie per tutto questo tempo. È già buio e qui la neve è poca ma il freddo è tanto. Uscito dalla stazione insieme a Silvia e Mauro, contratto con un tassista per farci portare alla Baikaler Hostel; primi contrattempi del viaggio, nonostante la prenotazione via e-mail fatta dall'Italia qui non c'è posto, ma la giovane proprietaria ci trovo una sistemazione equivalente a poca distanza a piedi presso il City Hotel, una piccola camera in un altrettanto piccola casa prefabbricata curiosamente ubicata nel cortile interno di alcuni condomini fatiscenti. In più i nostri biglietti del treno da Irkutsk ad Ulaan Bator in Mongolia non sono stati consegnati come da accordi al Baikaler hostel dall'agenzia Russia Trains, e questo potrebbe diventare un serio problema per la prosecuzione del viaggio…

29 ottobre

Problema biglietti risolto, c'è stato un malinteso con la ragazza del Baikaler, i nostri biglietti erano stati consegnati dalla efficientissima (chapeau per tempestività delle risposte ed efficienza) Russian Trains. Irkutsk è una città strana da descrivere; vecchi tram e autobus con tubi di scappamento che al passaggio rendono l'aria irrespirabile, fanno da contrasto a grandi cartelloni pubblicitari di alta moda, vecchio e nuovo, passato e futuro. Un po' come lo strano mix tra palazzine anni 80, vecchi condomini retaggio dell'era sovietica, e le belle anche se un po' malandate casette in legno ad uno o due piani con le imposte colorate alle finestre, tipiche della zona. Sono queste ultime la parte più interessante della città insieme a qualche chiesa, come la cattedrale Bogoyavlensky di color bianco e salmone, ricca di begli affreschi di epoca apparentemente recente, e la più piccola chiesa del Salvatore, di colore bianco, con un giardinetto davanti all'ingresso dove una cagnolina cerca di scaldarsi con i primi raggi di sole, tra gli alberi e la poca neve ghiacciata, non distante da una curiosa lapide che riporta insieme la falce e il martello e la croce ortodossa. In entrambe le chiese si stanno svolgendo funzioni religiose: un prete ortodosso benedice ad uno ad uno e per lungo tempo i fedeli in fila indiana, le donne col capo coperto da un leggero foulard, tra esse anche qualche bambina, in un'atmosfera resa solenne e suggestiva dalla musica liturgica e l'odore intenso di incenso. Ogni chiesa ha il suo piccolo negozio di icone e libri sacri oltre all'immancabile Samovar per il tè. Aldilà della strada l'ampio letto del fiume Angara sembra una grande piscina solforica, il fumo esce dalla sua superficie, l'incontro tra il caldo e il gelo. La temperatura, nonostante il sole, è di -11 gradi, l'aria tagliente ed a tratti scende anche una leggerissima neve ghiacciata. Sono nel cuore della Siberia, e si sente! Per le strade poca gente ma diverse auto, molte con le gomme chiodate nonostante, almeno qui per il momento, le strade siano sgombre di neve. Ci rifugiamo per una sosta al caldo al Lenin caffè, in Lenina Street, giusto perché il concetto sia chiaro. All'esterno l'effigie iconizzata dell'eroe russo della Rivoluzione del 1917, all'interno un normalissimo locale moderno con cameriere e clientela quasi tutta al femminile, giovani e belle ragazze universitarie che di Lenin avranno forse sentito parlare dei loro nonni. Si fa l'ora di andare verso il grande lago Baikal; sempre a piedi raggiungiamo la confusionaria stazione dei minibus, ovvero le marshrutka che partono verso il lago: qui tra file di banchi di un locale mercato di abbigliamento, troviamo il vecchio marshrutka bianco diretto alla località di Listvyanka. I 16 posti a sedere si riempiono in fretta, si parte ed in breve tempo non appena il mezzo prende velocità, la condensa sui vetri dei finestrini si trasforma in ghiaccio. Osservo i volti dei presenti, i tratti somatici degli abitanti della zona vanno dal ceppo russo, biondi chiari, a quello dei Buriati antichi abitanti di queste terre, di origini mongole. In poco meno di un'ora la vecchia marshrutka compie il tragitto tra Irkutsk and Listvyanka. Dalla fermata una passeggiata di 15 minuti leggera salita porta al Baikaler eco Hostel, una serie di piccole strutture in legno, molto simili a delle baite, tutte a basso impatto energetico ed ecofriendly. La struttura completamente costruita in legno, è anche una fornita di una cucina ad uso degli ospiti oltre ad una banda, il tradizionale bagno russo simile ad una sauna. Ripercorro in discesa la strada fino al Lago Baikal, il più grande e profondo bacino di acqua dolce al mondo, oltre che a quanto pare anche il più vecchio, risale infatti al 25 milioni di anni fa. Sembra un mare visto da qua, un freddo gelido mare mosso dal colore grigio argento. C'è un piccolo molo sul quale è ormeggiato qualche peschereccio; Listvyanka è disposta quasi tutta lungo un'unica via che costeggia il lago, in totale meno di cinque chilometri da un capo all'altro, qualche bella dacia in legno, meglio conservata di quelli di Irkutsk, qualche piccolo market, un moderno ed inopportuno hotel a guastare il paesaggio  e qualche piccolo negozio di souvenir almeno nel tratto che faccio fino al calare del sole. Il tramonto più freddo a cui abbia mai assistito, forse quanto quello ormai avvenuto in realtà in Groenlandia con il fenomeno del sole di mezzanotte. Il vento gelido è tagliente, mette a dura prova, e una volta scesa la sera che porta con se anche il silenzio fra i bassi monti di taiga che circondano la zona, il primo obiettivo diventa una tazza di tè caldo…

30 ottobre

Fa freddo ma c'è il sole questa mattina a Listvyanka. Il lago Baikal brilla di un blu acceso mentre dalla sua superficie fuoriescono fumi di vapore. Percorro a piedi la strada semi ghiacciata lungo i 4,5 chilometri che portano alla foce dell'Angara; il paese d'estate deve essere discretamente frequentato, ma oggi coi primi ghiacci ha un'aria dismessa, le commesse dei pochi negozi di souvenir sono chiusi nei loro chioschi al caldo. Non c'è molto da fare se non godersi l'atmosfera del luogo, il più antico lago nel mondo nel cuore della Siberia. Scatto foto al lago, con la sua piccola spiaggia di sassi che lo delimita in questo tratto, ed alle belle case in legno del paese, dai colori acquarello e con le imposte delle finestre finemente intarsiate. Il sole ora è alto, a poco a poco trasforma il ghiaccio del marciapiede in neve friabile al passaggio delle pesanti suole. In altri punti invece il ghiaccio è talmente spesso e stratificato che resterà perenne per tutto il lungo inverno. Sono quasi le 16 quando riprendo il marshrutka, stavolta nuovo, che riporta ad Irkutsk. Vista dai vetri non ghiacciati la strada è molto bella, taglia una foresta di alberi di betulla, fino alla periferia della città, fatta di centri commerciali e alti palazzi, come un po' le nostre periferie. Il buio della sera scende in fretta, e anche la temperatura fa lo stesso, arrivando a toccare i -16°. Torno al City Hostel per questa ultima notte nella zona del Baikal, ma prima un'ultima cena tipica nell'adiacente ristorante Buriato a base di insalata russa con uova e cetrioli, e il Borsch, una zuppa con barbabietole rosse e manzo.

31 ottobre

Sono le 6.30 del mattino, la città dorme ancora quando in taxi con la guida a destra, condotto da un uomo che potrebbe benissimo fare il ruolo del killer in uno dei film agente 007, sto andando alla stazione dei treni. Proveniente da Mosca e puntuale al binario 4 arriva il treno; qui la prodonvista, una signora robusta di 1 m e 90 di nome Ljudmila, controlla biglietti e passaporto proprio mentre comincia a nevicare, prima di farci salire; il treno non è il Rossya, è più vecchio, lo scompartimento fatto in mogano e con i sedili in pelle, è più piccolo e scomodo ma ci sta comunque tutto. Ci facciamo consegnare tazze per farci il tè con l'immancabile Samovar posto in testa al vagone. Sale a bordo anche una scolaresca, bambini tutti maschi di una decina di anni, o forse una squadra di calcio. Occupano l'intero vagone oltre a noi. I genitori salutano dalla banchina, poi, mentre il treno alle 8.14 comincia a muoversi, rimane solo una sonnolente cagnolina a stiracchiarsi tra i binari. Prosegue il lungo viaggio in treno, nella notte attraverserò la frontiera tra Russia e Mongolia. Il cielo si schiarisce, dopo un'ora circa il treno, che procede lentamente fra curve e un paio di tunnel scavati nelle montagne, continua la sua corsa costeggiando il Lago Baikal prima dall'alto e poi praticamente a riva, con i binari che scorrono a pochi metri dalle sue gelide e limpide acque. Il panorama è davvero suggestivo, c'è un bel sole che illumina il grande specchio di acqua blu con le montagne innevate del Khamar Daban all'orizzonte, mentre dal loto finestrino dello scompartimento il panorama spazia su bellissime colline con boschi di betulle. Panoramicamente questo è indubbiamente il tratto più scenografico. Tra una chiacchiera e qualche foto dal finestrino nel corridoio il tempo passa, tanto che quasi non mi accorgo di essere non lontano dalla prossima e ultima tappa in Russia prima del confine, confuso anche dai tre fusi orari, quello italiano, quello di Mosca che vige sui treni e nelle stazioni, e quello locale, in più giusto ieri per facilitare il tutto in Italia è tornata l'ora solare! I binari costeggiano le rive del fiume Selenga uno dei 300 affluenti del Baikal: improvvisamente sul terreno non c'è più la neve, abbondante fino a qualche decina di chilometri fa, ma in compenso le acque del Selenga sono quasi completamente ghiacciate, ed offrono stupendi scorci di un territorio quasi surreale, costellato da qualche piccolo villaggio di graziose dacie in legno. Il treno oltrepassa da una riva all'altra il fiume passando su di un grosso ponte di ferro, dipinto di rosso e bianco. Km 5641, il treno entra nella stazione di un Ulan Ude: sopra l'edificio principale di color crema la scritta in cirillico arancione recita " Repubblica di Burazia ", territorio semi autonomo all'interno della grande Russia. La sosta è di 45 minuti ,ne approfitto per fare due passi mentre un camioncino rifornisce vagone per vagone le prodonviste di carbone, duo o tre secchi ciascuna, intanto viene cambiata la locomotiva. Poco distante, merita una foto un'altra locomotiva, risalente al 1867, di colore verde e rosso esposta lungo un binario morto. Oggi è la notte di Halloween, chiamo al telefono in Italia, Anna e Sara sono eccitatissime, Graziana come sempre le sta preparando una grande festa. Alle 10.58 ora di Mosca si riparte e dal finestrino, per più di mezz'ora di tragitto, osservo la vastità della città che non avrei mai immaginato così estesa. Poi qualche vecchia raffineria e fabbrica di legname prima che la natura, sempre più spoglia di alberi, torni ad essere protagonista. Fuori ora è solo steppa, leggermente ricoperta dalla neve; bello e suggestivo il tramonto che intravedo dal finestrino, con il cielo che diventa rosso, qualche mucca al pascolo e perfino un gruppo di cavalli bradi al galoppo. È buio, sono le 20.06 quando il treno ferma al posto di frontiera della stazione di Naushki: siamo fermi accanto a dei treni merci, salgono a bordo dei funzionari doganali, quasi tutte donne, poi un triplice controllo, prima un giovane poliziotto verifica i passaporti, poi una poliziotta bionda li ricontrolla meticolosamente con l'aiuto di una macchinetta elettronica prima che un'altra funzionaria con una divisa diversa dia una veloce occhiata ai bagagli. Sul vagone c'è anche un cane antidroga, insomma controlli lunghi e meticolosi. Intanto ceno. Passati i previsti e lunghi 110 minuti si riparte per un tratto di lento percorso di 30 minuti nella terra di nessuno, fra i due Stati, fino alla stazione di Sukhbaatar in Mongolia. Fuori è buio da un pezzo, ho lasciato il territorio russo e quindi anche gli orari del treno d'ora in poi non si rifanno più al fuso di Mosca. Ore 22.29, dopo 5902 chilometri, da qui si riparte dal kilometro 0 in territorio mongolo, dove torno a distanza di oltre 11 anni dal mio ultimo viaggio. Ancora lunghe anche se meno sofisticate operazioni di controllo. È ormai passata la mezzanotte quando finalmente il treno riprende la sua corsa in direzione della capitale mongola, nella notte delle streghe di Halloween....

1 novembre

" Mongolia: oceano di steppe desolate e deserti di venti, foreste secolari e alte montagne innevate, la Mongolia si offre incontaminata agli occhi del viaggiatore ". Boryigin Natsagdori

Ore zero 6.50, km 404, Ulaan Bator. Arrivo nella fredda e ancora buia capitale mongola, ad aspettarci in stazione c'è Alfredo, un ragazzo italiano che vive qui e che mi ha procurato i biglietti del treno per la Cina; ci accompagna con la sua Fiat Panda 4×4 al vicino hotel Office, una palazzina a sei piani con hall e camere deluxe, comunque più spazio per qualche comodità in più per questa parte del viaggio. Mi sistemo nella mia grande camera a due letti prima di uscire. A pochi passi dall'hotel, al termine di una polverosa strada in salita, arrivo al Gandan Khiid, il monastero più grande ed importante di Mongolia, risalente al 1838. Che impressione, solo fino a ieri ero in un altro mondo, in una realtà completamente differente, solo il freddo è uguale, anche qui -12° ma non c'è neve, e soprattutto cambia la popolazione, i tratti somatici, i tetti a pagoda, i templi. Attraversato il portone dal tetto pagoda, tra un confuso passaggio di auto e una moltitudine di piccioni, entro nella quiete di questo luogo popolato da monaci, fedeli e qualche turista: i fedeli di ogni età, girano lentamente in senso orario attorno ai due stupa bianchi facendo girare le grosse ruote dorate delle preghiere buddiste, per poi fermarsi e pregare accanto ad un palo sul quale sono simbolicamente annodate le sciarpe di seta dai colori sacri del buddhismo: blu, bianco, verde, giallo e rosso, che rappresentano rispettivamente il cielo, il latte, l'erba, il grano e il sangue. Alle spalle di un grande incensiere di bronzo, c'è l'edificio principale dell'intero complesso, il Majid Janraisig Sum; entro in silenzio accanto ai fedeli che pregano ai piedi di una enorme statua dorata del Buddha. Vista dal basso verso l'alto fa impressione, attorno ad essa, in un buio corridoio, file di ruote di preghiera e teche nelle quali sono conservate decine e decine di statue, forse delle diverse fasi di vita del Buddha stesso, o di altre divinità, non so. Di certo invece so che come quasi tutti i templi buddisti anche questo è molto suggestivo ed emozionante. Mi aggiro anche nel resto del complesso, fra piccole pagode e monaci bambini, avvolti nelle loro tuniche arancioni, che giocano tra loro appena usciti dalla scuola religiosa. Di sicuro questo è il luogo più interessante della città, una città che a distanza di 11 anni da quando la visitai per la prima volta, sembra profondamente cambiata: tornando verso Peace Avenue, il viale principale, ne ho la conferma: alti e nuovi palazzi, grandi hotel, insegne di ogni tipo anche se ancora prevalentemente con scritte in carattere cirillico, e un traffico di auto impressionante. Una città strana Ulaan Bator, disordinata, dove lo sfrenato progresso del boom economico si mescola ai venditori di pinoli in bicchieri di plastica e di bustine di tè sfuse ai bordi dei marciapiedi, ai vigili in pettorina gialla che con fischietto in bocca e bacchetta fluorescente cercano inutilmente di disciplinare il caotico traffico di auto, vecchi bus e filobus di marca Daewoo e Toyota. Oggi è solo un assaggio della città, la stanchezza dell'ultima notte semi insonne in treno, comincia a farsi sentire così come il freddo, secco ma intenso. Il tempo di un fin troppo abbondante Mongolian barbecue in un semplice ristorante, prima di decidere di rientrare in hotel per una meritata dormita su di un vero letto.

2 novembre

Quanto è cambiata Ulan Bator, un secolo fa era una distesa di Ger, le tipiche tende circolari mongole fatte in feltro, 11 anni fa era un confuso mix di case in cemento e qualche Ger; oggi in quella che è la capitale più fredda al mondo, a farla da padrone sono i nuovi palazzi e perfino i grattacieli in vetro, di cui uno a forma di vela delimita il lato sud della grande piazza Sukhbaatar, cuore della città: un grande spiazzo di cemento con al centro la statua equestre dell'eroe mongolo che dà il nome alla piazza, e al lato nord il basso edificio del Parlamento con al centro, in cima ad una scalinata, una statua di bronzo di Gengis Khan seduto, affiancata da altre due di generali mongoli a cavallo. Attorno, i bassi e vecchi edifici tra cui il teatro dell'opera di colore rosa. Poi, alle spalle, solo alti palazzi, ristoranti di lusso e perfino un negozio Louis Vuitton, e soprattutto il traffico. Una metamorfosi impressionante e destinata a continuare a giudicare dalle alte gru visibili un po' ovunque. Ricordo all'epoca del mio precedente viaggio i venditori di telefonate e i fotografi per turisti con grosse Polaroid; oggi che tutti anche qui hanno il loro smartphone, i primi si sono estinti, i secondi, muniti di pettorine blu, girano con al collo moderne reflex. C'è anche chi affitta biciclette e chi accalappia i pochi stranieri per cercare di vendergli qualche tour fuori dalla città, al di là delle alte colline che delimitano l'abitato, nella steppa, quella vera, quella della Mongolia selvaggia, pura, dai grandi spazi e i cieli immensi ed abitata dai nomadi che ancora conservano tradizioni millenarie. Ma questo è un altro viaggio, quei paesaggi e quelle emozioni, per la natura di questo viaggio e soprattutto la sua breve durata, le assaggerò e rivivrò giusto domani per una sola giornata. Qui sono di passaggio questa volta. Mi concedo un pranzo salutista in un insolito per queste parti ristorante vegano, poi nel pomeriggio mi dirigo verso il tempio-museo Choijin Lama, un complesso tranquillo di cinque piccoli templi, ormai inglobato anch'esso dai grandi e nuovi palazzi costruiti tutti intorno. L'interno è molto interessante da visitare: la gentile addetto alla biglietteria, vestita con tradizionale tunica azzurra, apre una alla volta le pesanti porte dei templi dai tetti a pagoda dai colori un po' invecchiati dal tempo: dentro ad ognuno di essi un tripudio di statue, maschere e affreschi raffiguranti le diverse divinità buddiste, piccoli lama, mostri con corone di teschi, il vecchio trono del Lama Choijin e persino statue con raffigurazioni esplicitamente erotiche. Le stanze sono freddissime, quasi delle celle frigorifere, forse per preservare tutti questi tesori sacri. Provvidenziale prima la stufetta elettrica accesa nel piccolo negozio di souvenir del Tempio, poi un tè caldo e una fetta di torta al cioccolato al  Tom Tom caffè, un moderno locale frequentato da giovani del posto, alcuni con i loro Mac portatili aperti, brusco passaggio quasi inevitabile anche per me tra passato e futuro. Noto che le ragazze in particolare hanno tutte dei lineamenti molto belli. Ma ora che cala la sera è il momento di lasciarsi andare allo shopping sfrenato, i costi qui sono bassissimi come in estremo Oriente, e la qualità ed originalità dei prodotti spazia tantissimo dagli oggetti in feltro ai dipinti, dagli arazzi fino alle più comuni T-shirt. Così faccio razzia tra i negozi Fair Trade di Mary e Martha e il quinto piano del Department Store, il grande centro commerciale in Peace Avenue che gli addetti stanno già incominciando ad addobbare per le feste di Natale. Stanco, esco dopo ore con zaino in spalla e sacchettone della spesa in mano, mentre fuori è già scesa la sera e si sono accese le luci, comprese quelle dell'albero di Natale e del maxischermo posto dal lato opposto dell'ingresso al centro commerciale. Pesce Avenue è trafficatissima, la sua colonna sonora è fatta di clacson e fischietti dei vigili, mentre le fermate degli autobus continuano a riempirsi di gente.

3 novembre

Ieri all'arrivo ho concordato con Alfredo una sorta di escursione fuori dalla città approfittando del fatto che lui non sta lavorando in questi giorni. Alfredo ci passa così a prendere in hotel con un fuoristrada nero, con lui c'è anche Gabriele Battaglia, suo amico e inviato da Pechino di Radio Popolare, che in questi giorni è qui Mongolia e sta facendo da qui la sua rassegna esteri per la radio. Che strano associare un volto ad una voce che già ben conosci. Uscire dalla città non è semplice col traffico che sembra essere ininterrotto a qualsiasi ora. Poi improvvisamente, una volta usciti attraverso un vecchio casello a pedaggio, il traffico scompare e comincia un nulla interrotto da qualche piccolo villaggio fatto di casette in mattoni, con recinti di legno che a volte contengono anche delle Ger, le bianche tende dei nomadi. Qualche branco di cani randagi lungo la strada, oggi asfaltata approssimativamente, che stiamo percorrendo in direzione del parco Terelj, 80 chilometri ad est della capitale; uscendo dalla strada per un tratto di sterrato, si ha modo di avere un primo scorcio dello sconfinato territorio mongolo, fatto di grandi pianure color terra, delimitate da colline e bassorilievi leggermente innevati. Ritorniamo dopo questo breve fuoripista sulla strada fino ad arrivare alla grande statua raffigurante l'eroe mongolo Gengis Khan a cavallo: un'opera mastodontica, la statua placcata in argento infatti da sola è alta una trentina di metri, a cui si aggiunge la struttura circolare che la sorregge, al cui interno c'è un museo, dei piccoli negozi di souvenir, un lussuoso ristorante e lo stivale, ovviamente tipico mongolo, più alto al mondo. Il tutto costruito nel nulla! Infatti attorno vi è una pianura con qualche Ger sparsa; pare sia stata costruita qui in questo luogo perché la leggenda narra che vi sia nato il condottiero mongolo che, dopo aver unificato le varie tribù, creando un'identità di popolo, creò l'impero più vasto della storia, occupando terre dall'estremo Oriente fino a quella che oggi è l'Europa dell'est. E di questo e della loro gloriosa storia, i mongoli ne vanno giustamente fieri. Salgo con l'ascensore fino alla testa dell'enorme statua, elmo in testa, sguardo truce e tipico pizzetto, mentre in posa fiera tipica di un khan (capo) è in sella al suo cavallo con in mano il suo staffile dorato. Ritorno al fuoristrada, non c'è molto da qui al Terelj, tipica zona da gita fuori porta per gli abitanti della città. Ed infatti il luogo, così come lo ricordavo, potrebbe essere facilmente scambiato per una bella zona prealpina, con piccole case e le colline ricoperte da pini, se non fosse per qualche campo Ger per turisti, ora chiuso, sparso per la stretta vallata dalla quale emergono grossi massi di granito rosso, tra cui alcuni enormi blocchi che hanno la forma di una tartaruga gigante. Non c'è molto di interessante al Terelj, per la "vera" Mongolia dei nomadi e della steppa, bisognerebbe spingersi oltre, ma nonostante ciò mi capita lo stesso un'inaspettata e piacevole sorpresa: mentre Alfredo sta chiedendo ad una coppia di mongoli intenti a lavorare del legno dove si possa trovare un posto per mangiare, gli stessi si offrono di cucinarcelo loro nella loro Ger! Accettiamo di buon grado: non sono nomadi, la loro Ger è munita di tv, frigo e perfino lavatrice, ma è comunque un'esperienza autentica di genuina ospitalità. Ci sediamo sui letti disposti lungo la circonferenza della tenda, l'uomo più anziano porta la legna per la vecchia stufa al centro della Ger, la donna, premurosa e sorridente, vestita con una lunga tunica bordeaux, comincia a prepararci il pasto affettando dapprima con un coltellaccio un grosso pezzo di carne congelata, che subito mette a bollire insieme a dei tagliolini anch'essi presi dal congelatore, in una grande pentola di acciaio posata sopra la stufa. Maneggia più volte il pentolone e il grande bollitore del tè a mani nude come se nulla fosse, io al suo posto avrei già avuto molteplici gravi ustioni. Il tè, già il tè mongolo, sul su temi stai, un tè salato allungato con latte. Per fortuna la signora non lo sala troppo ed è bevibile, fortuna ancor più grande è che questa non è stagione per l'imbevibile e tenibile airag, il latte fermentato di giumenta. La semplice zuppa di carne di montone e tagliolini è invece buona e calda, ci voleva, soprattutto oggi che mi sono svegliato con un fastidioso raffreddore. La gentile donna ci offre per dolce anche dei pezzi di yogurt essiccato talmente duri che nessuno di noi riesce a spezzare coi denti. Un pasto davvero apprezzato soprattutto per la genuinità di chi ci ha ospitato. Salutiamo la signora e suo marito che, fuori dalla Ger, sta dando da mangiare alla sua cagnolino. È uscito un pallido sole, anche se oggi sembra fare molto meno freddo dei giorni scorsi. Lungo le strade del ritorno ci fermiamo a scattare qualche foto ad un ovoo,una sorta di totem fatto di sciarpe votive attorno ad una montagnetta di sassi o ad un bastone: qui, quasi a volerci salutare, proprio in cima all'ammasso di pietre, sale e si mette in bella posa un cane dal pelo biondo, con alle spalle le ondulate colline che si perdono a vista d'occhio. Ha una somiglianza incredibile col mio vecchio Unkas morto anni fa...Un bel modo per salutare questa breve giornata di steppa, mentre il sole comincia tramontare. In breve tempo all'orizzonte una coltre grigia di smog preannuncia la città. Appena entrati il traffico è da subito infernale, un indisciplinato ingorgo interminabile, perfino le corriere non rispettano la loro corsia preferenziale, e i vigili con le loro bacchette illuminate creano più confusione che altro. Un brusco rientro nella città, come brusco a giudicare dal caos, è forse stato il passaggio dal cavallo all'auto…

4 novembre

Dalla finestra al quarto piano della mia camera da letto nell'hotel Office vedo sorgere la grande palla arancione del sole che spunta dietro alle ombre dei palazzi e alle colline che circondano Ulaan Bator. E’ l'ultimo giorno qua in Mongolia, stanotte il viaggio proseguirà in treno alla volta della Cina, ultima tappa di questa mia transmongolica. Il raffreddore anche questa notte non mi ha dato tregua. Oggi è una giornata dai tanti tempi morti, gli ultimi acquisti e il cambio di alcuni yuan che mi serviranno per il proseguo del viaggio; per questa operazione mi dirigo in un ufficio di cambio valuta in Peace Avenue, qui l'impiegata allo sportello fa i calcoli tenendosi una spazzola in testa come mollettone! Il cielo sulla città è grigio, il sole è durato il tempo dell'alba di questa mattina; mi incammino fino a piazza Shukbaatar e da qui al vicino museo di Storia Naturale, al quale, visto il tempo disposizione, decido di dedicare una visita: lungo i quattro piani di esposizione è ben raccontata la storia del Paese dall'età del bronzo fino ai giorni nostri, con due interi piani dedicati l'uno agli elaborati costumi delle etnie che vivono in Mongolia, ed uno al massimo periodo espansionistico dell'impero mongolo coinciso con l'avvento di Gengis Khan nel 1206 fino alla sua dissoluzione avvenuta tra il 1335 e il 1550. Non ho molto altro da fare se non tirare le 19.30; dopo aver saldato il conto dell'albergo, prendo il taxi che mi porta in stazione. Farsi capire da un tassista che non parla mezza parola di inglese è sempre un'avventura, ma anche qui il mimo del "ciuf ciuf" del treno funziona. La stazione di Ulaan Bator non è molto grande, un ristorante, un ufficio cambi, una farmacia (dove acquisto con gli ultimi tigrik rimasti una specie di sciroppo) e una sala di attesa bianca con raffinati lampadari. Mezz'ora prima della partenza il treno color verde con il simbolo delle ferrovie mongole e le scritte in incomprensibile cirillico "Ulaan Bator-Bejing" è già al binario 3: treno più piccolo di quelli russi, lo scompartimento è decisamente meno comodo, con finestrini in legno saldato con silicone bianco e dei materassini alti non più di 1 cm! A bordo solo mongoli e cinesi, quasi tutti uomini, con bagagli e scatoloni. L'addetta al vagone consegna la biancheria da letto, e passa poi a fornirci di piccoli bicchieri di plastica termica e bustine di tè liofilizzato al limone, da prepararsi con l'acqua calda dell'immancabile Samovar; a terra non ci sono i tappeti, così anziché l'aspirapolvere passa lungo il corridoio con uno straccio; differenze fra ferrovie russe e mongole. L'uomo cinese che divide lo scompartimento con me, Silvia e Mauro, apprezza le mie salviette umide, poi si ritira su nel suo letto e comincia a dormire allietandomi col suo concerto di russare. Fuori è buio, attraverserò in piena notte il deserto del Gobi, nelle mie ormai ultime ore nella terra di Gengis Khan. Preparo il letto, nella speranza di riuscire a chiudere occhio.

5 novembre

Apro gli occhi mentre fuori il cielo comincia schiarirsi, e il sole in breve fa la sua comparsa illuminando la steppa mongola, il deserto vero e proprio è ormai alle spalle. Poco prima delle 8.40 arrivo alla stazione di Zamyn Uud, km 1113, confine mongolo. I doganieri ritirano i passaporti, che vengono riconsegnati dopo circa un'ora. Passa un cane antidroga ma nessun controllo bagagli. Lascio la Mongolia e poco più avanti con l'entrata in Cina alla città di confine di Erlian, termina dopo 7035 chilometri in treno la mia Transmongolica su rotaie. 7035 chilometri lunghi, fatti di paesaggi, volti, tra due mondi completamente diversi, da Mosca alla Cina. Ora con qualche mezzo (purtroppo non il treno per questioni di coincidenze e tempo a disposizione) dovrò raggiungere la vera meta finale di questo viaggio, Pechino. C'è una ventosa e soleggiata giornata ad Erlian; i controlli sono abbastanza lunghi, due passaggi dei bagagli nei nastri metal-detector, poi una lunga e lenta coda per il controllo passaporti da parte di zelanti poliziotti cinesi in uniforme verde. Finalmente l'agognato timbro sul passaporto: sono ufficialmente in Cina! La stazione degli autobus non è confusionaria, ma lo stesso veniamo presi d'assalto da insistenti donne con le mascherine antismog sulla bocca, che ci propongono vari passaggi per arrivare a Pechino; alla fine dopo un po' di confusione per la lingua, contratto per 250 yuan, circa 33 €, un passaggio su una comoda auto a sette posti, guidata da un ragazzo cinese che, oltre a me, Silvia e Mauro, porterà anche una famiglia mongola: papà, mamma e due bimbi piccoli ad occhio di 3 e 5 anni, femmina e maschietto, bellissimi. Quindi in 8 più i bagagli, la comodità viene un po' meno, ma la compagnia è buona. Erlian, Erenhot in lingua cinese, è una cittadina piuttosto grande e moderna, con palazzine, centri commerciali e ristoranti mongoli; ben presto usciamo lungo la strada in mezzo ad una pianura arida disseminata di statua in bronzo di dinosauri, infatti la zona è famosa per i ritrovamenti fossili. Da qui in poi anche una serie di altre le moderne pale eoliche compaiono nel paesaggio. Il viaggio è lungo, l'autista nonostante qualche sorpasso azzardato, guida molto bene. Per lunghi tratti il nulla più assoluto, interrotto di rado da qualche villaggio nuovo e colorato che sembra quasi finto, fatto di lego; la politica del popolamento di alcune aree semidesertiche attuata dal governo cinese vale anche qui, nella regione cinese della Mongolia Interna. I due bambini mongoli dormono mentre fuori il paesaggio si fa più verde, qualche collina con mucche al pascolo e diversi alberi con nidi di rondine tra i rami ormai spogli. I pali con gli autovelox sono tantissimi, così come i dossi  lungo la strada; ai posti di controllo con pattuglia invece il bambino si nasconde sotto alle giacche, siamo una persona in più del consentito a bordo, lui si diverte tantissimo, e ad ogni controllo passato è subito una festa è un battere il cinque tutti divertiti con la mamma, l'unica che parla poche parole di inglese. Sono quasi le 17 quando, mentre la grossa palla di sole sta tramontando dietro le colline fra le pale eoliche, passiamo un piccolo casello entrando in un'autostrada a due corsie; la piccola bimba mongola, esausta probabilmente dal lungo viaggio dalla Mongolia, non si sente bene e rimette; il fratellino invece prende confidenza con me e si diverte a truccarmi nelle foto che mi fa col cellulare della mamma, indubbiamente la famiglia deve essere discretamente benestante. Ormai fuori è buio, mano a mano ci avviciniamo alla capitale il traffico, dove il sorpasso da destra sembra una regola, si fa più intenso fino a creare veri giganteschi ingorghi tanto che ad un certo punto gli automobilisti sfogano tutti insieme la loro frustrazione suonando il clacson, evviva! Dopo oltre 10 ore di viaggio in auto, finalmente eccola, Pechino, sfavillante nella sua grandiosità con palazzi grandi e moderni, insegne con luci al neon negli incomprensibili ideogrammi cinesi. Sono passate le 22, all'altezza della stazione ferroviaria prima scende la famiglia mongola coi bimbi eroici ma sfiniti, poi l'autista, servendosi del GPS sul suo smartphone, ci conduce al Sanlitun Youth Hostel  che più che una guesthouse, sembra un pub frequentato da giovani, musica alta e tavoli in legno al piano terra, non proprio qualcosa di tipicamente cinese, ma per questa notte va bene così. Sono in Cina.

6 novembre

Decido di fare cominciare il mio primo assaggio di Cina con la visita al Tempio del Cielo. Per arrivarci cammino fino alla fermata della metropolitana di Dongsishitiao, davanti alla quale il giornalaio sta arrostendo dei grossi würstel , mentre, poco distante, lungo il marciapiede, si vendono cavoli al peso davanti a dei supermercati ancora chiusi. Le macchinette automatiche per i biglietti sono comode, con le indicazioni anche in lingua inglese, provvidenziale visto che l'addetto alla biglietteria non capisce una parola. Le fermate non sono certo dei capolavori come quelle di Mosca, ma la metropolitana è decisamente pratica ed efficiente, nonostante il veloce passaggio delle borse al metal-detector. Diversamente muoversi nella città più popolosa al mondo sarebbe stato alquanto complicato. L'ingresso al grande parco del Tempio del Cielo costa poco meno di quattro euro, cioè 28 Yuan: c'è tanta gente in coda, soprattutto locali, alcuni anziani praticano nel parco il Tai Chi mentre altri giocano a carte, fra alberi secolari che superano come nel caso di un ginepro persino i 500 anni di età. Poi eccolo, il tempio di forma cilindrica con tre tetti a pagoda circolari, dalle tonalità di blu e azzurro, e dallo specifico significato simbolico legato al rapporto tra cielo e terra. L'edificio, nel quale non si può entrare ma solo ammirare da fuori il suo altare in legno, è molto bello, ma la folla rende tutto meno suggestivo ahimè. Il culmine del fastidio da turismo, per un viaggiatore, però lo si ha al vicino muro dell'eco, ed è facile immaginarne il motivo. La simbologia e l'architettura degli elementi però è affascinante. Passeggio nel parco, fra poliziotti vestiti con lunghi cappotti color verde e un casco bianco più grande delle loro teste, una moltitudine di turisti, in stragrande maggioranza cinesi, e qualche venditrice di animaletti e cappelli fatti a lana. Poi di nuovo nella Pechino sotterranea fino al cuore della città, piazza Tienanmen, con la Porta della Pace Celeste di colore rosso e il famigerato grande ritratto di Mao Tse Tung al centro; otto grandi bandiere rosse sventolano sotto agli slogan scritti in ideogrammi cinesi " Viva la repubblica popolare cinese " e " Viva l'unità tra i popoli della terra ". Peccato che per arrivarci bisogna fare una lunga coda di controlli! L'intera immensa piazza è infatti super sorvegliata. Il cielo è grigio, o meglio il sole sembra anche esserci, ma probabilmente è coperto dalla tipica coltre di smog. Al centro della piazza le stele monumento agli eroi del popolo con dietro l'edificio grigio del mausoleo di Mao, alle cui spalle, a delimitare il lato sud della piazza, la grande e colorata Porta Quianmen col suo bel tetto pagoda blu. Nella piazza non ci sono panchine, ci sono invece piccoli chioschi che permettono la stampa immediata delle foto fatte dai fotografi ufficiali che si aggirano alla ricerca dei turisti. Uscendo in direzione sud ovest mi intrufolo in uno degli antichi hutong, gli stretti vicoli fatti di botteghe polverose e case ad un piano nascoste dietro porte rosse con grandi maniglie in ottone e l'effigie del leone; queste porte immettono in stretti vicoli, e alle corti in cui sono disposte le semplici abitazioni, fra panni stesi, qualche vecchia bicicletta e poco altro. È un autentico labirinto dove ancora la vita ha ritmi lenti e tutto scorre secondo antiche tradizioni. C'è perfino chi cammina per questi vicoli in pigiama e pantofole di lana, come la ragazza che mi precede alla cassa di un piccolo negozio di alimentari, vestita appunto col suo pigiama rosa e le babbucce pelose ai piedi. Nella via più grande, dove si affacciano le porte rosse, a malapena un'auto riuscirebbe a passare, ma è lo stesso un continuo andirivieni di risciò a pedali e piccole motorette elettriche, mentre a qualche metro da terra si intrecciano agglomerati di cavi elettrici. Questa è la Pechino autentica o quantomeno non globalizzata, quella che ancora, a fatica, resiste al cospetto dei grattacieli, dei lussuosi hotel, dei mega centri commerciali a più piani e al traffico di milioni di automobili. Qui le vecchie biciclette hanno ancora il loro ruolo da protagoniste. Mi avventuro con successo e soddisfazione nelle mie prime contrattazioni in qualche bottega polverosa che vende un po' alla rinfusa oggetti in ottone, bronzo, giada, e gli immancabili libretti rossi di Mao. Passeggiando un po' a vista mi ritrovo in Dazhalan Jie, che di hutong non ha più nulla: infatti è diventata una via pedonalizzata piena di negozi per turisti, anche se, fatta eccezione per le botteghe negli hutong, non è il conveniente shopping tipico dell'estremo oriente che mi aspettavo. In compenso però le sale e i negozi da tè si trovano facilmente, con tanto di assaggi di varie qualità di ottimi tè sfusi, dall' Oloong al tè al gelsomino, fino alle forme essiccate di varia inveccchiatura. Già, il tè mi ha accompagnato in tutto questo viaggio E ne ha marcato un po' le differenze, così come diversi sono stati i paesaggi, i volti, le culture dei tre Paesi attraversati in questa mia Transmongolica: il tè nero forte e e dal gusto deciso in Russia, il tè salato mongolo, imbevibile ma servito da mani gentili, ed infine il tè verde qui in Cina, leggero e dolce.

7 novembre

Sono le 7.30 del mattino, sulla città cade una leggera pioggerellina mentre l'autista privato, pagato solo € 10 in più a testa rispetto al pulmino vacanze organizzato dagli ostelli, sta guidando in direzione di Mutianyu, una delle sezioni di uno dei più suggestivi monumenti al mondo, la Grande Muraglia Cinese. Il traffico è inaspettatamente scorrevole, una volta oltrepassato lo svincolo dell'aeroporto, esce persino il sole. Tempo un'ora e 40 minuti e sono ai piedi delle montagne, presso una moderna struttura contornata da chioschi di souvenir e ristoranti; qui faccio i biglietti per il breve tratto di bus prima e per la salita in funivia nelle piccole cabine arancioni a scorrimento continuo poi fino ad arrivare ai 2250 m di granito che costituiscono questo tratto della muraglia, che in tutta la sua estensione, con i suoi 8850 chilometri di lunghezza, rappresenta l'opera più grande ed imponente mai costruita dall'uomo, la cui costruzione cominciò ben 2000 anni fa come via di trasporto prima e come opera di difesa poi. La funivia arriva alla torretta numero 15, da qui come avevo letto in qualche blog, la via migliore da percorrere è quella verso sinistra. Già il primo panorama che si apre appena metto piede sulle pietre della muraglia è straordinario: da nord a sud sembra un lunghissimo serpente di pietra che si muove sinuosamente tra le montagne, ricoperte in gran parte dai colori autunnali, verde e rosso; in più il cielo ora è completamente sgombro di nubi e col suo blu intenso rende il tutto ancora più suggestivo! Comincio a camminare seguendone il percorso verso nord, tra le mura di difesa alte non più di 1 m e mezzo in questo tratto, camminando in salita ed in discesa seguendo il suo naturale percorso ed oltrepassando, una alla volta, le varie torrette di avvistamento, risalenti alla dinastia Ming. Il tratto di Mutianyu non è il più turistico e per fortuna a questo ora c'è ancora poca gente. A mano a mano che la percorro mi accorgo di salire tanto che, voltandomi, ne vedo il profilo dall'alto fino alle prime torrette, ma il tratto più difficile ancora deve arrivare. Tra la torre 19 e la 20, l'ultima transitabile, la salita si fa seria: 454 gradini di pietra di forma irregolare, con gli ultimi 30 talmente stretti ed alti che mi aiuto con le mani per arrivare in cima! Sudato, sfinito e con la lingua di fuori, sono arrivato all'ultima torre: qui una donna mi batte il cinque e cerca subito di vendermi i suoi souvenir e le bibite energetiche, invano. Il panorama, neanche a dirlo, lascia senza fiato ancor più della salita stessa. Da quassù la Grande Muraglia è magnifica, magnifico è tutto il panorama di montagna, sulle cui cime in lontananza, riesco a scorgere altre torri ed altri tratti forse diroccati di questa grandiosa opera. Alla spicciolata arriva qualche altro turista, tutti, indipendentemente da sesso ed età, col fiatone! Mi godo lo spettacolo per un po' di tempo, utile anche a recuperare le forze per la discesa, soprattutto per il primo ripido tratto; pochi alti gradini dove però senza l'appoggio di una mano in terra non sarei riuscito a fare. Il resto invece è una passeggiata, come un salmone che risale la corrente: io sono il salmone, la corrente è una piccola orda non di cavalieri mongoli all'attacco, ma di turisti già affaticati che non sanno che il bello per loro deve ancora venire. Sono contento, per la bella giornata e per essere arrivato in tempo prima della folla di turisti. Riprendo la piccola funivia arancione e mentre a valle mi dirigo verso il bus sento come se avessi realizzato, con la Grande Muraglia, la fine del cerchio del circuito che mi ero prefissato dall'inizio di questa avventura; una sorta di felice appagamento anche se in realtà il viaggio, seppure agli sgoccioli, continua; manca ancora da visitare la Città Proibita per domani. È tardo pomeriggio quando sono di nuovo a Pechino, a passeggiare lungo la via pedonale Wangfujing Dajie, tra lussuosi e moderni centri commerciali e una piccola, stretta e troppo caotica via di cibo da strada e di souvenir, un mondo già troppo lontano per me dai tranquilli hutong...

8 novembre

Per essere una megalopoli da oltre 15 milioni di abitanti evidentemente il sistema di metropolitane funziona molto bene: è l'ora di punta per recarsi a scuola o in ufficio, le 7.30 del mattino, eppure le banchine di attesa non sono mai stracolme; ufficiali in pettorina, in piedi su un pradellino a ridosso della "linea gialla", controllano il flusso di persone, facilitato dall'apertura delle porte in corrispondenza delle frecce indicate per chi esce e per chi entra dai vagoni. Anche oggi c'è il sole e un cielo insolitamente azzurro che dà una luce diversa rispetto a ieri alla grande piazza Tienanmen. Oltrepasso la porta della Pace Celeste con il ritratto di Mao, per recarmi alle biglietterie di ingresso per la Città Proibita, ancora chiuse ma già con diverse persone in coda ai più di 20 sportelli che, come in una scena fantozziana, aprono contemporaneamente e vengono velocemente presi d'assalto. Biglietti alla mano supero l'ennesimo controllo borse al metal detector ed entro nel famoso complesso il cui ingresso in passato per oltre mezzo secolo è stato vietato ai comuni mortali, in quanto sede delle diverse dinastie che si sono susseguite dal 1406 fino alla caduta del sistema imperiale cinese avvenuta nel 1911. L'area è vasta, subito la folla di turisti, quasi tutti cinesi, si accalca in cima alle scalinate dei primi tre palazzi centrali: la sala dell'Armonia Suprema, quella dell'Armonia Perfetta e quella dell'Armonia Protetta: in tutte e tre si possono ammirare gli interni solo da fuori. Le palazzine coi loro tetti a pagoda color oro, decorati con draghi ed altri animali, gli intarsi in legno rosso e verde e le elaborate decorazioni pittoriche e scultoree, sono degli autentici capolavori d'arte. Attraversate le tre aree iniziali per fortuna la massa di gente si disperde un po' negli ampi spazi, così riesco a trovare degli angoli di pace in cui ammirare in tranquillità le belle palazzine e vicoli che ad esse conducono; in alcune zone sono esposte statue con reperti, altre sono perfino discretamente adibite a negozi di souvenir o piccoli punti di ristoro. Viene diffusa una leggera e soave musica cinese intervallata da brevi annunci che invitano a non fumare (qui è quasi tutto in legno) nel tentativo, vano in diversi punti, di restituire quella lontana magia che la folla dei turisti cinesi, riuniti a gruppi ognuno con la propria guida con microfono che regge una bandierina e tutti col cappellino del colore del proprio gruppo, spezza. Molti sono anziani e buffi nella loro goffo inseguire la guida quasi di corsa tra una foto e l'altra. Cerco sempre più a fatica di " scappare " dai gruppi più numerosi, a volte mi riesce, altre mi ritrovo persino guide che radunano i gruppi con un fischietto, mancherebbe solo il cane pastore per radunare le greggi… Dopo tre ore passo dei giardini imperiali, adornati da piccole pagode in legno fra cipressi secolari e bianche formazioni di roccia calcarea, e concludo la mia visita alla Città Proibita uscendo dal lato nord. A piedi mi dirigo al vicino Parco Beihai, una piacevoli Oasi di verde con un laghetto dove i fiori di loto ormai sono già fioriti, ma in compenso le fronde dei salici che sfiorano le acque, i bassi ponti bianchi ad arcate e la collina al centro del lago sormontata da un grande stupa bianco, ne fanno un piccolo Eden; accanto alla salita che porta allo stupa, un gruppo di anziani compie dei passi di danze tradizionali dei movimenti lenti, mentre poco più in là alcune persone con un secchio pieno d'acqua ed un grosso pennello, disegnano per terra al loro passaggio dei capolavori in pochi secondi: cavalli aironi… Opere d'arte fatte d'acqua che svaniscono in pochi minuti, bizzarro quanto geniale. Uscito anche dal parco prosegue il mio giro a piedi verso nord fra venditori di spiedini di frutta caramellata ed attraversamenti di ampie strade presidiate come in metropolitana, da improbabili agenti in pettorina gialla che controllano più che altro le piste ciclabili, e dove semaforo verde per i pedoni non equivale a diritto di precedenza. Arrivo così alla Torre del Tamburo, giusto in tempo, una volta salito in cima a questa alta ed ampia struttura del XVIII Secolo, assisto al breve ma intenso rito del suono dei sette grandi tamburi orizzontali per mano di altrettanti maestri suonatori in kimono bianco. Peccato che alcune sbarre rendano difficile scattare foto del panorama dall'alto sui tetti dei vicini hutong con il lontananza il lungo skyline dei moderni edifici della capitale. Stessa cosa per la vicina Torre della Campana, dove, risalita una ripida scalinata, vedo da vicino la grande campana in bronzo di oltre 63 tonnellate. Credo ormai di aver visto tutto o quasi quello che mi ero prefissato; uscendo dalla Torre della Campana curioso fra i vicini hutong della zona, dove non ci sono turisti, ma solo abitanti del luogo. Viene buio, comincio a cercare un posto per cenare tornando sempre a piedi verso la zona della guesthouse. Sono le 18, domani a quest'ora dovrò lasciare la camera prima di un'ultima cena cinese e del trasferimento verso l'aeroporto. Il viaggio volge lentamente al termine.

9 novembre

Il cibo in Cina lo trovi sempre, dappertutto e a qualsiasi ora: dai ristoranti di lusso ai locali stile Starbucks o Costa Caffe, dai semplici ristoranti dove ti può capitare di avere qualche insetto vivo come commensale sul pavimento al cibo da strada; basta una bicicletta, un minuscolo chiosco o un fornello su cui cuocere qualsiasi cosa. È così che mi appare la capitale anche al mattino alle otto: gente che va a lavoro, in tanti con le mascherine antismog a coprire bocca e naso, il traffico di auto che, almeno qui in città, hanno ormai di gran lunga sostituito le vecchie biciclette. Biciclette in risciò che invece resistono nei tipici hutong dove, insieme a Mauro, passo quest'ultima mattina pechinese, fra le strette e polverose vie che ancora racchiudono fascino e tradizione dell'antica Cina. Qualche bottega di souvenir, un carretto che vende del buonissimo naan  ancora caldo, una bizzarra Noodles House, un'anziana con cappotto a fiori che trascina il suo carrello, e la disordinata tranquillità di questi vicoli sono le ultime immagini che mi rimangono impresse, immagini lontane anni luce o semplicemente migliaia di chilometri da quelle della maestosità della Piazza Rossa o delle babushke di Barabinsk, ma immagini dello stesso viaggio. Il tempo, ora scandito nella mia mente da un antipatico Countdown, scorre veloce, è già ora di rientrare in camera dopo l'ultimo viaggio in metropolitana per sistemare i bagagli. Il cielo sulla città oggi è dello stesso colore del mio umore, grigio. Un lungo, faticoso, ma fantastico ed indimenticabile viaggio sta finendo. Fra qualche ora un'auto privata contattata dalle giovani receptionist del Sanlitun Hostel mi porterà al Capital Airport.

10 novembre

Ore 9.35, Mosca. Tutto è iniziato qui tre settimane fa. La notte è stata lunga, dopo gli infiniti ed estenuanti controlli in aeroporto a Pechino e il lungo volo. A differenza di tre settimane fa, oggi la capitale russa è imbiancata dalla neve che continua a cadere fitta sulla pista dell'aeroporto. Guardo dal piccolo oblò dell'aereo che a breve decollerà per Milano, le operazioni di sbrinamento delle ali fatte dalle braccia meccaniche di un robot che sembra uscito direttamente dal film Matrix. Mi tornano alla mente le operazioni di disgelo meno futuristiche ma più " romantiche " delle prodonviste che con asce e martelli liberavano dal ghiaccio le giunture tra i vagoni del treno lungo le fermate della Transmongolica. È stato un viaggio indimenticabile, scorrendo le foto sulla mia macchina fotografica rivedo e rivivo le incredibili emozioni che anche questa avventura mi ha regalato, emozioni tanto diverse tra loro, mondi e realtà diversi, lontani; il viaggio su rotaie, le lunghe giornate trascorse sui treni, osservando dal finestrino il mondo scorrere e cambiare pelle. Il senso stesso di un viaggio così lungo su rotaie. Poi la gente, ai cibi, i tè, le piazze da quella Rossa con i suoi colori e le cupole fiabesche a quella di Tienanmen passando per Shuckbataar vigilata da Gengis Khan e sempre più inglobata dal nuovo che avanza. La taiga innevata, il lago fumante, il deserto, la steppa, le metropoli… Dall'oblò del Boeing Aeroflot il mondo è invece lì, fermo, innevato e semi buio, ma nella mia testa le immagini di una parte di esso continuano a scorrere, trasportati da un lungo nastro fatto di rotaie, e di un treno che va…

" La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli e per tracciarvi a fianco i nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre ".

Jose' Saramago